Hanno ragione loro: facciano black metal, facciano ambient, facciano musica cosmica, facciano
il cazzo che gli pare, tanto hanno sempre
ragione loro!
Sono
sereno quando ascolto per la prima volta un nuovo album dei Wolves in the
Throne Room, perché so che ci sarà comunque da emozionarsi. E le emozioni
non sono mancate nemmeno a questo giro con il fresco di stampa "Thrice
Woven".
Che dire di più e di diverso rispetto a quanto è
stato già detto da altri? L'album è
uscito più di un mese fa e succulente anticipazioni erano disponibili in rete
già da tempo addietro, dunque saprete già tutto: che i fratelli Weaver
sono tornati nella loro veste più congeniale, il black metal; e che sono
tornati in tre, con l'aggiunta del chitarrista Kody Keyworth, arruolato
in pianta stabile dopo che aveva dato una mano sul palco nell'ultimo tour. E saprete anche che l'album si
compone dei quattro classici lunghi brani (+ intermezzo) e che sono coinvolti
nomi importanti come Steve Von Till ed Anna von Hausswolff. Ed
ovviamente saprete che si tratta di un ottimo disco.
Noi
tuttavia vorremmo raccontarvi di più, anche perché siamo ferrati in materia:
seguiamo i Lupi della Cascadia da quando emisero i loro primi vagiti, peraltro con
la pancia già piena di black metal norvegese, a cui i Nostri guardano da
sempre. Ed oggi più che mai.
Potremmo
partire proprio da questo topic:
il recupero in pompa magna della mitologia norrena. In questa che è ovviamente
una scelta coerente con la visione artistica dei Nostri, abbiamo tuttavia scorto
una contraddizione che in molti non sembrano aver notato, ma forse siamo noi ad
essere i soliti rompicoglioni. I Wolves in the Throne Room si sono imposti e
hanno costruito la loro credibilità non solo grazie ad ispirazione ed album
bellissimi, ma anche per aver saputo trapiantare (operazione non semplice)
umori tipicamente scandinavi in terra americana. C'erano già riusciti i Weakling
e gli Agalloch, ma i fratelli Weaver l'hanno fatto meglio di tutti,
complice l'attitudine misantropica e lo stile di vita "boschivo".
Tanto che sono stati riconosciuti come gli inventori e capofila del Cascadian
Black Metal.
E
così, con naturalezza, si passava dai boschi di conifere e dai fiordi norvegesi
all’oceano Pacifico ed alle maestose foreste di sequoie della Cascadia,
suggestiva area del nord-ovest degli Stati Uniti, ai confini con il Canada.
Essi aprirono così un varco sotterraneo che univa Nord America e Nord Europa
attraverso le volte di un esoterismo ancestrale che accomuna tutti gli
uomini nel loro rapporto con la Natura: un viaggio spazio-temporale che
dalle viscere della terra ha proiettato i Lupi
oltre le stelle, scaturendo da un oscuro passato e giungendo all'eternità
immensa dell'Universo.
Bene,
ottimo, perfetto: ma allora perché scendere nuovamente a terra ed andarsi a confondere in modo così compromettente
con miti e leggende specificatamente del Nord Europa? Basti citare, a tal
riguardo, la scelta eloquente di raffigurare in copertina il lupo Fenris.
Il
legame con la Scandinavia, tuttavia, non si limita a rimandi eloquenti a
livello di immagini, testi ed atmosfere, ma viene in questa circostanza
rinsaldato, anzi consacrato, dalla scelta di reclutare la svedese Anna von
Hausswolff, che presterà la sua magica ugola in un paio di brani. Eppure,
noi che la von Hausswolff la amiamo perché la conosciamo dai suoi dischi
(l'avevamo citata nel nostro pezzo su Chelsea Wolfe), la troviamo in
questa circostanza un po' sprecata. Il suo è infatti un nome in forte ascesa ed
assai chiacchierato, non solo a causa delle polemiche scaturite a seguito della
diffusione di scatti fotografici che la immortalavano con una maglietta di Burzum,
di cui fra l'altro si è dichiarata ammiratrice (e si, la ragazza ci piace
proprio!). Ma al di là del marketing, la svedese si è affermata come autrice
raffinata e musicista preparata (è una virtuosa dell'organo a canne); di
recente si è persino cimentata nell'ambito della produzione e promozione
discografica con la sua etichetta personale, la Pomperipossa Records. E
con un CV del genere, francamente, ci saremmo aspettati un qualcosina di più,
per lo meno a livello di originalità e contributo compositivo, considerato che
negli ultimi anni la Nostra ha sposato la causa drone-ambient con esiti
degni di nota. Insomma, la Nostra non fa né meglio né peggio di chi l’ha
preceduta, ossia quelle “perfette sconosciute” reclutate in passato dai
fratelli Weaver.
Da
applausi veri e propri (ma di quelli che ti spelli le mani fino a sanguinare) è
semmai la comparsata di Steve Von Till, che offre ai Lupi la sua chitarra acustica e il suo crooning apocalittico (dobbiamo ovviamente
avere in mente il Von Till cantautore). Il suo contributo si rivelerà
tutt'altro che un atto di presenzialismo atto a creare hype, conferendo al black metal dei Nostri inedite sfumature, del
tutto pertinenti con la loro visione artistica e con le loro fascinazioni
esoteriche.
Ed è
su questo che i Wolves dovevano puntare, sulle contaminazioni con sonorità targate
stelle e strisce: sul post hardcore, sulla psichedelia, sul cantautorato che
affonda le radici in una America pre-adamitica
(bella questa!). E non sulla Scandinavia!
C'erano
del resto delle aspettative diverse dal solito per questo "Thrice
Woven": vi era stata una trilogia assai impegnativa, poi voci di
scioglimento, infine una parentesi "elettronica" che suonava tanto
come pausa di riflessione in attesa di nuove intuizioni. Logico che nel momento
in cui i fratelli non hanno deciso di mollare, bensì di proseguire, questo
nuovo album avrebbe assunto i crismi della rinascita, di una rifondazione del
percorso artistico su nuove premesse.
In
questa ottica, la risposta a tutte le titubanze è stata evidentemente ripartire
dal black metal: il cammino sembra infatti riprendere da "Celestial
Lineage", ma invece di proseguire in avanti, procede a ritroso, con lo
sguardo rivolto verso le effervescenze dell'indimenticato esordio. Ad essere
maliziosi, questa potrebbe sembrare una scelta dettata da debolezza, dalla
necessità di affogare le incertezze nelle sicurezze di una comfort zone in cui sentirsi e muoversi a proprio agio. Ma noi di
Metal Mirror, al di là di tutte queste fregnacce, li capiamo i fratelli Weaver.
Ci
figuriamo infatti i due figuri in una stanza piena di foglietti in cui sono
state scritte le idee; ce li vediamo a dannarsi l'anima scartando una dopo
l'altra tutte le possibili opzioni, Nathan con la testa fra le mani, Aaron
che la scuote sconsolato. Hip-hop? Swing?
Pianobar? Ma poi ecco che il primo si rizza in piedi spazientito e fa
all'altro: "Ah frate', la vo' sape'
'na cosa? A me me piace il black metal, Meie, Darchetron, Empero, Burzumme, un
ce posso fa' n'cazzo!" Ed eccoli di nuovo a comporre con entusiasmo,
rigenerati nel black metal primigenio dei padri
fondatori degli anni novanta e nel loro black metal che aveva segnato il
nuovo millennio dell'estremo: quel black metal parimenti feroce e struggente,
frastornante ed introspettivo, con quell'alternarsi di pieni e vuoti come solo
loro sanno fare.
Perché
possiamo sindacare sulle scelte (cosa fra l'altro antipatica e pure scorretta
metodologicamente, se si parla di arte), ma poi c'è doverosamente da aggiungere
che quello che i Wolves in the Throne Room fanno, lo fanno dannatamente bene. E
quindi, attorno a quelli che potrebbero sembrare degli errori
"tattici", i Lupi costruiscono il loro ennesimo capolavoro:
da ascoltare e riascoltare, scoprendo ogni volta nuove sfumature, avvolti in
struggenti melodie, storditi da un drumming
perfetto (ma quante ne sa, Aaron!),
commossi da una capacità di trasmettere e generare emozioni che è propria dei
fuoriclasse.
Un orgasmo lungo quarantadue
minuti, questo "Thrice
Woven", a partire dall'incipit acustico dell'opener "Born from the Serpent's Eye", capolavoro
di intensità black metal, fra saliscendi emozionali ed una seconda metà da
infarto dove svetta la voce della Hausswolff. Per proseguire con gli umori doomish dell'ottima "The Old
Ones Are with Us", squarciata dall'interpretazione magistrale di Von
Till che si approssima a lidi neo-folk. E poi la forza visionaria e la violenza
deragliante dei baccanali esoterici descritti in "Angrboda",
che fra i brani in scaletta è sicuramente quello che più di tutti fa incetta di
idee pescate dall’universo post-hardcore. Dopo cotanta maestosità, giunge
provvidenziale l'evocativa "Mother Owl, Father Ocean", traccia
atmosferica di estrema suggestione dove spunta nuovamente il canto della von
Hausswolff, accompagnata dall'arpa sublime di Zeynep Oyku Yilmaz. E poi di
nuovo a correre con gli undici impetuosi minuti di "Fires Roar in the
Palace of the Moon", con la quale i Nostri realizzano la loro "I
am the Black Wizards": le onde dell’oceano saranno il balsamo indispensabile
per curare orecchie ed anima dopo le indicibili emozioni suscitate da questo
brano.
E volete sapere una cosa? Anche a me "me piace" il black metal! Ed allora, Wolves in the Throne
Room, avete ragione voi: fate
ambient, fate black metal, parlate di rune o di sequoie, di proteste di
metalmeccanici, fate cantare Nilla Pizzi, fate il cazzo che vi pare, tanto avete ragione voi!