Quindicesima puntata: Colosseum - "Chapter 1: Delirium" (2007)
E' sempre triste dover menzionare la morte di un giovane, in questo caso quella di Juhani Palomaki, avvenuta per sua mano il 15 maggio 2010 all'età di soli trentadue anni.
Se si parla di funeral doom il suicidio di un musicista è un fatto che salta subito all'occhio ed attira inevitabilmente macabre significanze connesse ai temi trattati. Può esso divenire persino fonte di morbosa attrazione per l'ascoltatore, come se quel gesto estremo implicasse coerenza con la visione artistica professata, sensazione che si ha del resto anche con il black metal. Ma se il black metal ha conosciuto numerosi lutti, abbiamo imparato a conoscere il funeral doom come un ambiente in cui è la sostanza della musica a prevalere e molto meno proclami o fatti legati alla sfera personale dei musicisti. Eppure siamo già al secondo morto suicida nella nostra rassegna (il primo era stato Maximilien Varnier dei Worship), a dimostrazione che, ahimè, la vocazione per l'espressione di sentimenti tanto funerei non è sempre solamente un fatto artistico.
Juhani Palomaki può essere definito a tutti gli effetti come un eroe del funeral doom, genere che ha suonato con passione in tutte le sue incarnazioni musicali. Cantante, chitarrista e tastierista, già nel 1995 era autore di un demo con i suoi Flegeton, per poi avviare una vera e propria carriera in seno agli Yearning, con i quali sono stati pubblicati cinque album dal 1997 al 2007. I Colosseum sono stati la sua ultima creatura, firmatari di tre album uno più bello dell'altro: un viaggio affascinante interrotto sul più bello dalla morte prematura di Palomaki, che della band era compositore principale.
Potremmo dire che, a livello formale, siamo al cospetto del funeral doom perfetto. Se avevamo indicato i Catacombs come la quintessenza del funeral doom nella sua accezione più estrema, i Colosseum incarnavano invece un delicato equilibrio fra brutalità e bellezza (sì, ho detto bellezza!) che è raro trovare entro i confini del genere.
Vengono in mente i connazionali Shape of Despair, ma i Colosseum erano indubbiamente più brillanti sia sul fronte compositivo che su quello realizzativo. La loro peculiarità stava nel tradurre umori tragici, atmosfere decadenti, in brani che non annoiano, che non indugiano nell'asfissia, ma che godono di intuizioni melodiche non banali e soprattutto di un certo senso strutturale. Vengono in mente i primi Arcturus o i nostrani Void of Silence, per l'imponenza orchestrale e la drammaticità incarnate dal loro suono. Un altro paragone, sempre in seno al funeral, potrebbero essere i primi Pantheist, ma, come abbiamo visto, i belgi mostravano una vena sperimentale che li avrebbe presto portati a battere altre strade e che non ritroviamo nei Colosseum, fermi e saldi nei ranghi del funeral doom, ma con capacità tecniche e compositive che permettono loro di giganteggiare all'interno degli angusti confini del genere.
I Colosseum erano i Queen del funeral doom, se mi perdonate l'accostamento. Avete presente le incursioni sinfoniche, il brio, il dinamismo e la magia di certe composizioni più complesse della band inglese? Ebbene, dimenticatevene, perché qui si parla di funeral doom, eppure, consideratemi un visionario, la pulizia dei suoni, l'amalgama degli stessi, con tastiere perfettamente integrate alle chitarre e, addirittura, una chitarra solista superlativa che fa sobbalzare dalla sedia per la beltà profusa, mi hanno rievocato le pomposità di certo rock sinfonico o, se preferite, di certo metal progressivo. Ma non aspettatevi virtuosismi, eh? Il suono dei finlandesi era un meccanismo perfetto, in esso le varie componenti venivano dosate con precisione cronometrica: adesso ci colpisce l'incresparsi delle orchestrazioni, successivamente una chitarra che sa incantare, ma con poche note, quindi senza strafare.
Se i Colosseum sono stati i Queen del funeral doom, Palomaki non era certo Freddie Mercury, considerato il suo raschiante growl, espressivo e ben scandito quanto volete, ma aderente agli standard di brutalità richiesti dal genere. Giusto per mettere le cose subito in chiaro, è proprio il rantolo profondo ad aprire il primo capitolo della saga dei Colosseum, "Delirium". Ma l'opener "The Gate of Adar" è subito in grado di riguadagnare terreno ed immergerci, dopo pochi secondi, in quel sound sontuoso di cui si diceva sopra, giovandosi di una scorrevolezza ed una eleganza che ritroveremo per tutto il resto del platter: un suono tonico, asciutto, cristallino, sicuro di sé.
Che i Nostri avessero una marcia in più lo si capisce subito, con armonie tutt'altro che scontate ed un dinamismo che sopravvive alla lentezza. "Corridors of Desolation" nei suoi sei minuti e quaranta è il brano più corto del lotto, ma nella sua brevità è capace di incastonare con grazia immaginifica cori di voci pulite, solismi da pelle d'oca e i consueti avvolgenti tappeti di tastiere. La batteria marcia solenne, i suoi rintocchi sembrano segnare il trascorrere dei secoli, ma si avverte un'attenzione continua dietro alle pelli volta ad arricchire i pattern ritmici con utili variazioni, e la coda in doppia-cassa di "Weathered" è tutt'altro che fuori-luogo: atteso climax di una suite imponente che in tredici minuti inanella una trovata melodica più calamitante dell'altra.
La palma di miglior pezzo la vince probabilmente "Saturnine Vastness" con le sue solenni ambientazioni spaziali, che, chiariamolo, rielaborano le visioni del cosmo in una ottica di intimità affranta: si respira solitudine, impotenza innanzi alla vastità dell'Universo, mentre possenti orchestrazioni si innalzano a dismisura, per poi precipitare ed immergersi in una quiete ambientale che, se non si parlasse di spazio, farebbe pensare alla superficie gelida di quei laghi che hanno ispirato molte band finlandesi. "Aesthetics of the Grotesque" prosegue sulla medesima scia, giovandosi ancora una volta di una chitarra solista tanto dilatata quanto fortunata nell'azzeccare le note giuste. Da applausi il finale atmosferico della title-track (il brano più aspro) chiamata a concludere il tutto con i toni dimessi di un requiem.
Sei brani, sessantacinque minuti di durata complessiva, fate voi i calcoli: la lunghezza dei brani rispetta gli standard del genere, ma mai come in questo caso l'ascoltatore si troverà piacevolmente intrattenuto senza badare più di tanto all'avanzare della lancetta dell'orologio. Prog funeral doom? Ci andrei piano con le definizioni, ma le architetture sonore allestite da Palomaki e i suoi tre compari sono veramente ben concepite e baciate da una costante ispirazione. Incenso che potremmo gettare anche sui due capitoli successivi della trilogia, "Numquam" (2009) e "Parasomnia" (2011), uscito postumo dopo la morte di Palomaki.
Tornando al discorso iniziale, questi sono album che andrebbero ascoltati senza pregiudizi, anzi, non ci si aspetti il suono degradato, torbido, folle di una mente disturbata ed offuscata dalla depressione. I Colosseum, come suggerito dal monicker, offrono invece un suono monumentale, fin troppo razionale e bilanciato nelle sue componenti. Da ascoltare senza se e senza ma, anche, anzi soprattutto, se non si è fan sfegatati delle sonorità gentilmente offerte dal funeral doom.