I 10 MIGLIORI ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI '80)
1987: "REFUGE DENIED"
In un recente post, ovviamente in
modo del tutto arbitrario (e quindi soggettivo), ho individuato in “The Sound
of Perseverance” dei Death il disco Heavy Metal più rappresentativo di sempre.
Questo sia per essere riuscito a riassumere praticamente tutte le
caratteristiche metalliche dei 20 anni precedenti la sua uscita, sia per
contenere in sé linee guida per lo sviluppo del Metallo negli anni a venire.
Si tratta ovviamente di una
sintesi estrema, dettata, come detto in quel post, dalla testa ma anche dal
cuore.
Se dovessi individuare quale sia
stato l’album che ha saputo raccogliere in maniera mirabile l’eredità elargita
dal genio di Chuck, che abbia saputo far crescere e sviluppare gli stilemi e le
intuizioni insite in TSOP, credo che non avrei dubbi nell’indicare “Dead Heart In A Dead World” (2000) dei
Nevermore. Un capolavoro assoluto e, per chi scrive, apice raggiunto dalla fenomenale
band di Seattle.
A cura di Morningrise
In quell’ora di musica i quattro musicisti, attraverso una creatività
straripante e intuizioni geniali, riuscirono a realizzare un’opera che,
se da un lato ripercorreva la lezione del technical thrash metal di fine anni
ottanta, dall’altro la confezionava con un abito moderno (ma non “modernista”)
e, proprio sulla scorta degli ultimi Death, con un “spirito” e un gusto classic.
Amando alla follia Warrell Dane e soci, è stato per me
logico andare a riscoprirne gli esordi artistici, non solo attraverso tutta la
discografia dei Nevermore, ma anche dei Sanctuary. Cioè quella band, che nella
seconda metà degli anni ottanta, lanciò Dane come top-vocalist dell’universo heavy metal,
assieme al bassista Jim Sheppard,
fido compagno di viaggio di Warrell per tutti gli anni a venire.
Lo ammetto: fino a che non mi sono imbattuto
nella malia della voce di Dane, per me la parola “sanctuary” associata al Metal
voleva dire soltanto far riferimento alla splendida canzone dei Maiden (o tutt’al più all’etichetta
discografica inglese che dalla canzone degli Iron prese il nome). E invece…
Invece, con l’ascolto
del qui presente “Refuge Denied”, e del suo successore “Into The Mirror Black” (1989), questo termine non posso che associarlo a uno
dei più grandi gruppi degli anni ottanta. Si, non c’è tema di smentita: il
lascito dei Sanctuary, nell’arco di appena due dischi, è incommensurabile e
rappresenta il massimo livello, e al contempo il superamento, del c.d. “U.S.
Power Metal”, movimento che abbiamo provato ad approfondire nei precedenti
capitoli della nostra Rassegna sulle cult band anni 80.
Già allora Dane, appena
diciottenne (sic!), riuscì ad esprimere le sue doti superiori alla media,
conferendo alle opere dei Sanctuary un tratto distintivo e immediatamente riconoscibile.
Al suo fianco, a menare le danze alle sei corde, ovviamente non c’era il
fenomenale Jeff Loomis (che
scopriremo di lì a breve coi Nevermore), ma l’altrettanto valido Lenny Rutledge, che seppe confezionare
in maniera stupefacente, con lo stesso Warrell (e con un marginale ma
importante supporto dell’altro chitarrista Sean
Blosl), un songwriting di qualità eccelsa, che pescava a piene mani,
rileggendole però in maniera del tutto personale, da un lato le lezioni
americane di Metal Church e primi Queensryche, e dall’altro quelle europee di
Judas Priest e Iron Maiden.
Ma attenzione: qua non c’è
traccia di plagio perché i Sanctuary seppero già all’esordio tirare fuori una
personalità unica.
Personalità che derivava da
diversi elementi: in primis dalla voce cangiante di Dane che alternava
aggressività, memorabili e inquietanti falsetti e oscure parti recitative. Con
una capacità di modulazione delle sue doti canore da far invidia. Una sorta di
incrocio tra Rob Halford e King Diamond, ma che seppe da subito rifulgere di
luce propria.
E in secondo luogo,
concentrandoci sul lato prettamente musicale, dal fatto che quelle influenze
succitate erano inserite all’interno di una struttura dinamica, cangiante:
esplosioni di una notevole violenza metallica erano guidate da riff monumentali
che si intersecavano continuamente tra di loro, creando a tratti una matassa
intricata, dalla quale però la band fuoriesciva grazie soprattutto al frequente
utilizzo di oscuri arpeggi che permettevano di controllare e tenere a bada
questo magma incandescente.
Questo è dunque il cocktail che
ritroviamo nel debut “Refuge Denied”, oggetto del nostro post. Un disco che ha
un pregio scarsamente riscontrabile: e cioè quello di essere composto da 9
pezzi uno diverso dall’altro. Ovviamente il marchio Sanctuary, con le
caratteristiche su descritte, funge da minimo comun denominatore, ma ogni brano
riesce a mostrare una sfaccettatura particolare del sound dei Nostri.
“Battle Angels”, l’opener, è
assolutamente devastante, con un incipit da infarto (per il quale l’aggettivo
“power” è quanto mai pertinente) che sfocia in un mid tempo su cui la voce
evocativa di Warrell alterna acuti ad elevati decibel a falsetti mefistofelici.
“Termination Force” poi mette in
mostra quella vena dark, metalchurchiana, di cui abbiamo parlato sopra, con un
arpeggio portante meraviglioso, al quale vengono alternate evoluzioni
chitarristiche sempre cangianti. Un maelstrom di riff che si intersecano,
cambiando velocità in continuazione, fino alla thrasheggiante sfuriata finale.
“Die For My Sins” esprime invece
maggiormente le radici New Wave del combo, una canzone più melodica con un
ritornello azzeccatissimo, di facile presa ma assolutamente non scontato e/o
banale. All’interno del pezzo peraltro troveremo nuovamente diversi umori visto che a
metà brano si virerà verso lidi più propriamente “power”.
Se “Soldiers of Steel” rivela
un’ulteriore vena dei Nostri, quella marziale e austera (cui il falsetto di
Dane dona un’aura luciferina), poi mitigata da altre divagazioni umorali (da
rimarcare qui un pregevole assolo di Rutledge), è la successiva “Sanctuary” che
si distacca come perla del disco. Soffusa all’inizio, guidata da un arpeggio straziante,
è squarciata presto da scoppi improvvisi di elettricità; la canzone cambia poi continuamente
pelle, con un apporto decisivo del basso di Sheppard che stritola le linee di
chitarra con il suo pulsare corposo e avvolgente, portando Rutledge ad un assolo
sentito e sofferto che conduce il brano verso il tumultuoso finale.
Meravigliosa poi la cover di
“White Rabbit” dei Jefferson Airplane (canzone più volte coverizzata nel mondo
del Metal…) in cui troviamo anche l’apporto alle sei corde di Sua Umiltà Dave
Mustaine, lo scopritore del talento dei Sanctuary (e per questo gli saremo
sempre grati!).
La chiosa del disco è affidata
all’accoppiata “Ascension to Destiny” e “The Third War”, forse due pezzi più
canonici, se vogliamo derivativi della scena power americana, seppur di
assoluta qualità.
Ma tranquilli: l’eccezionalità
compositiva dei Sanctuary torna subito prepotente nella conclusiva “Veil of Disguise”,
aperta da un soave arpeggio cavalcato da un Dane in stato di grazia e che, per
l’occasione, svela la sua tonalità più dolce e carezzevole. Dopo la prevedibile
esplosione elettrica, quando il brano sembra ormai concluso dopo quattro minuti
e rotti, arriva l’accelerazione che non ti aspetti, un brutale assalto thrash
guidato dal drummer Dave Budbill che
porta il brano quasi a deragliare dai binari prima che un ultimo, splendido
riff a velocità controllata (coadiuvato dalla voce ispirata di Warrell) lo
guidi con sicurezza in porto.
Che dire in conclusione…un
capolavoro assoluto, bissato due anni più tardi dall’altrettanto fenomenale
“Into The Mirror Black” (sul quale, noi di MM, non potremo che soffermarci in
un prossimo futuro…).
Ma nonostante la qualità della
proposta, l’appoggio di Mustaine, la firma con la CBS/Epic e il responso
positivo della critica specializzata, il successo non arrivò. Misteri della
vita…forse la proposta era troppo avanti, troppo avanguardistica nel
suo fondere assieme technical thrash, oscurità doomiche, flavour epico e un
goticità ante-litteram che, soprattutto con ITMB, ancor più complesso e
teatrale, non sarà semplicissima da digerire per l’ascoltatore medio dell’epoca.
Sta di fatto che questa
situazione non soddisfacente da un punto di vista commerciale spinse Rutledge a
cambiare registro e a voler comporre musica, secondo il suo punto di vista, più
commerciale. Cosa che ovviamente suscitò il disaccordo di Dane e Sheppard. Che,
per nostra fortuna, decisero, assoldato Loomis (già conosciuto in quegli anni)
di formare i Nevermore, continuando con essi il fenomenale discorso musicale
cominciato nel 1987 con “Refuge Denied” e raccogliendone i meritati frutti anche da un
punto di vista del responso commerciale, probabilmente in un periodo in cui il
pubblico del metallo era diventato più aperto a determinate sonorità.