I
MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL ESTREMO
3° CLASSIFICATI EX AEQUO: “BRAVE” (KATATONIA) e “ADVENT” (OPETH)
Li abbiamo già incontrati entrambi: gli Opeth che
stracciavano i Katatonia in tema di “Nuovo Metal”;
i Katatonia a trionfare impietosamente sugli Opeth nella nostra rassegna
dedicata ai migliori album non-metal realizzati da band metal.
Per quanto riguarda la classifica dei migliori brani
lunghi, abbiamo dunque deciso di fare giustizia e metterli gli uni accanto agli
altri, riconoscendo ad entrambi l’ambizioso terzo posto: un po’ per
tributare la pari grandezza di queste due importanti entità del metal
estremo; un po’ per ricordarci che in fin dei conti non vi fu mai vera rivalità
fra due band che hanno condiviso la “culla”. Non solo perché germogliate dalla stessa terra (la Svezia) ed entro i confini del medesimo contesto culturale (quello della
prima metà degli anni novanta), ma anche perché cresciute a braccetto sotto l’egida
di un unico mentore: il grande Dan Swano (produttore di grido, nonché leader degli Edge of Sanity), la cui mentalità aperta e la
sensibilità progressiva furono certamente di ispirazione per le due formazioni.
La scelta dei brani avviene dunque in un’ottica quasi
speculare: abbiamo infatti optato per le rispettive opener (“Brave” e “Advent”) di due
album (“Brave Murder Day” e “Morningrise”) usciti nello stesso
anno (il 1996). Due opere seconde che segnarono la maturità per due
giovani band che per l’occasione, oltre che il produttore, condividevano
anche il cantante: i Katatonia, infatti, dopo che Jonas Renkse ebbe deciso di
dedicarsi esclusivamente a vocalità pulite, necessitando essi di uno screamer, ricorsero al buon Mikael Akerfeldt, che certo non si tirò indietro innanzi alla possibilità di
dare una mano ai colleghi.
Capitolo I: Katatonia, “Brave”
“Brave Murder Day”
comportò un notevole salto di qualità per i Katatonia, che venivano dall’acerbo
debutto “Dance of December Souls”. Gli svedesi si presentavano dunque al loro
secondo appuntamento discografico in forma smagliante, asciutti, focalizzati,
pronti a consegnare al mondo il loro capolavoro, almeno per quanto
riguarda la prima fase artistica. Pochi riff ma ben pensati, una
batteria dall’incedere ossessivo, vocalità efferate volte ad esprimere
un’angoscia esistenziale che pochi altri sapevano trasmettere con tanta
credibilità. L’album più che altro brillava per un’attitudine melodica straordinaria,
frutto senz'altro dell’affiatamento fra i due chitarristi, Anders Nystrom,
fondatore della band e compositore principale, e il compare Fredrik Norrman,
non da meno quanto a capacità di descrivere scenari di incomparabile
decadenza.
L’album
si apriva con "Brave", un brano di dieci minuti e sedici secondi:
scelta coraggiosa, se si pensa che la musica dei Nostri non è certo
un’esplosione di energia e di colpi di scena! E’ il “batterismo” essenziale e
reiterativo di Renkse, settato ostinatamente su perenni tempi medi, a zavorrare
ulteriormente una proposta che probabilmente, in un'ottica più fruibile,
guardava al minimalismo burzumiano.
Per
descrivere “Brave” non occorrono dunque voli pindarici: essa si compone di tre/quattro
sezioni che si dispongono in ferrea sequenza, presentando più o meno le
stesse caratteristiche. Ogni volta sono le chitarre ad aprire le danze, presto
raggiunte dalla batteria metronomica. C’è forse del post-punk nella sensibilità
dei Katatonia (e questo lo vedremo con maggiore evidenza nel prosieguo del loro
cammino artistico), i quali conservano la loro natura ibrida a metà strada fra black
metal (per i riff circolari, per la loro ossessiva ripetizione) e gothic/doom
(per l’alto tasso di melodia e i continui rimandi ad un album come “Gothic”
dei Paradise Lost, a detta degli autori, una fondamentale fonte di
ispirazione).
“Brave” è la
dimostrazione che se si è ispirati non c’è bisogno di fare i salti mortali per
reggere dieci giri di orologio. Lo si capisce dalla partenza del
brano, che attacca senza troppo indugi: dieci secondi di feedback di
chitarra ed uno di quei riff che nel metal estremo faranno la Storia. Il growl sofferente di Akerfeldt è il
compendio perfetto ai soffocanti scenari tratteggiati dal trio: il leader
degli Opeth si cala perfettamente nella parte, scandendo con calcolata desolazione i versi poveri di Renkse, votati alla descrizione di una
insensata e disperata quotidianità.
Un
rallentamento improvviso e bum!, si riparte: un ipnotico assolo di tapping
e tutti dietro, chitarra ritmica, batteria e voce. Poco dopo il copione
di ripeterà: altra pausa, altro giro, è la volta di un arpeggio distorto, ancora
feedback, nuove linee di chitarra e ripartenza in pompa magna. E che brividi quando le parole “Whatever You Are…I Am
Not” vengono ripetute con sofferenza prolungata da un Akerfeldt in stato di
grazia!
Sembra
che i musicisti, grazie ad una attenta ricerca, abbiano condensato la
parte migliore delle loro idee, scongiurando il fantasma della dispersione
che aveva infestato il debutto, pregiudicandone la buona riuscita. Con
l’impiego del minimo delle risorse e disponendo di un bagaglio tecnico tutto
sommato contenuto, i Katatonia fanno leva sull’ispirazione e sul rigore per
confezionare uno dei brani più coinvolgenti del loro repertorio.
Discorso
diametralmente opposto va invece fatto per gli Opeth, i quali sono tutto
tranne che minimali.
Capitolo
II: Opeth, “Advent”
Nella
loro carriera gli svedesi hanno scritto praticamente solo brani lunghi, si
pensi anche solamente al qui presente “Morningrise”, il quale si compone
di cinque tracce per una durata complessiva di sessantasei minuti! Un album in
cui tutti i brani superano i dieci minuti e che uno in particolare, “Black
Rose Immortal”, ne conta addirittura venti! Per questo motivo gli Opeth
non potevano non essere interpellati:
nel loro repertorio la composizione di elevata durata è praticamente la regola.
E gli ottimi esempi si sprecano.
Solo
da “Still Life” e “Blackwater Park” (i lavori della maturità)
potevano essere scelte le bellissime “The Moor” e “White Cluster”,
per quanto riguarda il primo, e “The Leper Affinity” e “The Drapery
Falls”, per quanto riguarda il secondo: tutti brani in cui death metal
e partiture progressive, brutalità e dolcezza, elettricità e dimensione
acustica, growl e voci pulite convivono alla grande.
Ma
anche i lavori successivi non scherzano: “Wreath” e “Deliverance”
(da “Deliverance”), “Ghost of Perdition”, “Reverie/Harlequin
Forest” e “The Grand Conjuration” (da “Ghost Reveries”), Hessian
Peel” (da “Watershed”) costituiranno le tappe di un percorso
di perfezionamento che testimonierà da un lato l'affermarsi in maniera sempre
più preponderante del carisma di Akerfeldt, e dall’altro il consolidarsi
dell’alchimia del collettivo che gli sta dietro. Solo con il tempo, tuttavia,
le composizioni degli Opeth diverranno autenticamente progressive, sospinte da
un accresciuto bagaglio tecnico, arrangiamenti sempre più raffinati e
produzioni certosine. Ma in principio, per quanto lunghi e tortuosi, i brani
risultavano più frammentati e disorientanti.
Ai
tempi di “Morningrise” il songwriting risentiva ancora del fatto che
Akerfeldt, lavorando in un negozio di strumenti musicali, impiegasse i ritagli
di tempo per comporre materiale: una svalanga di brandelli che poi sarebbero stati
ricomposti in studio. Le composizioni, per via di questo
modus operandi, procedevano per accumulo, senza che vi fosse una visione
d'insieme, o ritornelli che si ripetessero, o schemi dove i temi
ritornassero e/o venissero ripresi variati, come esige la migliore
tradizione progressive. Sembrava piuttosto che lo sforzo dei Nostri,
affezionati al passaggio più insignificante e dunque incapaci di cestinarlo,
consistesse principalmente nel trovare il modo giusto per legare tutto insieme.
E il tutto, beninteso, funzionava.
Da
un punto di vista degli umori, vi era quel sapore di band svedese
illuminata che si respirava nella metà degli anni novanta: il death
progressivo degli Edge of Sanity costituiva certamente un modello da
seguire, ma si facevano sentire anche gli influssi di quel melodic death metal
portato alla ribalta dai conterranei In Flames e Dark Tranquillity proprio
in quegli anni. Le influenze seventies (destinate in futuro a prevalere)
non occupavano ancora grandi spazi.
Gli
Opeth ne faranno di passi in avanti, ma “Advent”, super classico della
prima ora, brilla di una verve tutta sua che lo pone ancora oggi
fra i momenti più coinvolgenti dell’intera produzione artistica della band. Tredici
minuti e quarantasei secondi è la sua durata e di certo descrivere le sue
movenze non sarà semplice. Appena qualche istante di chitarra acustica ed ecco
l’avvento dell’elettricità. Ad aprire le danze sono un bel riffone
baldanzoso e doppia cassa a tutta birra: da quel momento i cambi di tempo e le
ambientazioni si susseguiranno in modo mirabolante, lasciando ben poco spazio
alla noia. Inutile stare a perdersi nei dettagli: basti solo dire che le due
asce (Akerfeldt e Peter Lindgren) si muovono in perfetta simbiosi, non
lasciando la possibilità all’ascoltatore di capire quale sia la mano trainante
e quale quella di supporto.
Anders
Nordin, dietro alle pelli, assicura il giusto dinamismo, senza mai strafare
quanto a tecnicismi e velocità. Una menzione a parte la merita il primo
bassista della band Johan DeFarfalla, il quale faceva del suo strumento
(un bombatissimo fretless bass) un uso a dir poco personale, palesando
una volontà, quasi patologica, di emergere in ogni singolo passaggio. Di sicuro
non gli mancava la fantasia, ma io non l’ho mai potuto sopportare, e fui realmente
sollevato quando in seguito fu sostituito da un più sobrio Martin Mendez.
L’interpretazione sopra le righe di DeFarfalla esprimeva comunque un’attitudine
condivisa dai colleghi, impegnati a dare il meglio in ogni frangente
Il growl
portentoso di Akerfeldt è già un trademark inconfondibile per la
band e copre quasi tutti gli “spazi” vocali richiesti dal lungo testo (tipica gothic-novel
a sfondo amoroso/luttuoso à la Akerfeldt). Segnaliamo con piacere un
paio di interventi di voce pulita (già verniciata dalla bellissima timbrica del
cantante), cosa estremamente gradita, sebbene le quote di questi inserti rimanessero
ancora fortemente minoritarie.
Sopravvive,
in questo fiume in piena, quella propensione al folk “boschivo” che era
di gran moda verso la metà degli anni novanta fra le band scandinave. Cosa che
peraltro conferisce un discreto fascino all’operazione: nella potenza, gli
Opeth non rinunciano all’atmosfera, battendo una via personale, un mood intimo
e malinconico che è in grado di schivare i cliché più classicamente
gothic. Forse, con il senno di poi, potremmo pensare che Akerfeldt già operasse
con in testa tutto quel sottosuolo di oscure band prog/rock degli anni
sessanta e settanta (fra cui quei Comus che egli stesso in anni
recenti spingerà alla reunion e riporterà alla ribalta come produttore),
ma all’epoca era più lecito pensare che i Nostri risentissero dell’influenza
dei vicini norvegesi (chi ha detto Ulver?).
Certo
l’ascoltatore potrà rimanere disorientato innanzi a cotanto riversar di note,
ma la forza degli Opeth, prima che divenissero una cover band degli Emerson,
Lake & Palmer, risiedeva nel far coincidere quantità e qualità: impresa
non facile se si pensa all’alto minutaggio sistematicamente raggiunto dalla
band.
A
voi dunque l’ardua sentenza: meglio il minimalismo ispirato dei Katatonia
o la tracotanza/incontinenza compositiva degli Opeth? Per quanto ci
riguarda, tale è la bontà dei frutti di questi opposti approcci, che
sinceramente non ce la sentiamo di preferire gli uni agli altri…