Il 1991
è stato un anno significativo nella storia dell’heavy metal. Dopo i fasti degli
anni ottanta, all’inizio della decade novantiana l’impianto iniziò a
scricchiolare. Il 1991 fu l’anno in cui videro la luce “Nevermind” e “Ten”,
l’anno in cui Nirvana e Pearl Jam si ergevano come i capofila di
un nuovo modo di intendere il rock: un rock che rifuggiva i vecchi cliché
per addentrarsi a fondo nell’interiorità affranta di una generazione di giovani
disorientati che non avevano i mezzi e le certezze per reagire ad un mondo che
stava cambiando e che li stava annientando.
Eppure
il 1991 è stato un anno estremamente fecondo per il metal, che, nonostante
questi rivolgimenti, stava vivendo al suo interno delle rivoluzioni che
palesavano una rigogliosa vitalità: una vitalità che contraddiceva chi sosteneva che il metal si
sarebbe presto estinto in quanto appartenente ad un mondo obsoleto e radicato
nel passato.
Un
anno cruciale, il 1991, nel quale il metal moriva (almeno nella sua accezione
più classica), ma al tempo stesso mutava. Un anno che, non a caso, abbiamo
tirato in ballo nel post in cui sostenevamo che (oggi, e non venticinque anni
fa!) il metal è morto.
In
quel post abbiamo elencato delle opere-simbolo date alle stampe nel
1991: i Savatage sfornavano il capolavoro “Streets: a Rock Opera”,
forse vintage nell’approccio, ma incommensurabile nella sua capacità di
dare emozioni, vere emozioni (ascoltatevi “Believe” e poi mi dite!). I Fates
Warning con “Parallels” proseguivano il cammino intrapreso con “No
Exit” (1988) e “Perfect Simmetry” (1989), mettendo a punto quel filone,
il prog metal, che a partire dall’anno successivo avrebbe conosciuto la
notorietà grazie ad “Images and Words” dei Dream Theater. Dall’Inghilterra Paradise
Lost e Cathedral aggiornavano i canoni del doom, i primi aprendo di
fatto la stagione del gothic metal con “Gothic”, i secondi slabbrando i
confini allora conosciuti del metal con quel capolavoro di pesantezza e
mestizia che è “Forest of Equilibrium”. I Sepultura, nel
frattempo, dalle “foreste dell’Amazzonia” fornivano il loro prezioso contributo
con “Arise”, esprimendo una maturazione, a livello tecnico, compositivo
e concettuale, che nessun altro aveva mostrato in campo estremo.
In
tutto questo imperversavano per le emittenti musicali i videoclip di Metallica
e Guns n’Roses, che se ne uscivano rispettivamente con il “Black
Album” e con i due tomi di “Use your Illusion”: a dimostrazione che il metal, nonostante tutto,
godeva ancora di una grande popolarità anche a livello di mainstream. Un
anno speciale il 1991, che si merita di essere celebrato, a maggior ragione
adesso, visto che nel 2016 ricade il suo venticinquennale.
Metal
Mirror non poteva dunque esimersi dal partecipare a questi festeggiamenti.
Ma lo fa a modo suo, andando a rovistare nel torbido, andando a fissare con la
lente di ingrandimento un ambito specifico: il death metal (che peraltro
abbiamo già avuto modo di trattare alla nostra maniera - si veda qui).
I
dieci migliori album death metal usciti nel 1991: potrà sembrare una
esagerazione, ma non lo è. Abbiamo avuto persino l’imbarazzo della scelta e
alla fine è stato necessario scartare gente di grande valore. Qualche esempio
per rendere l’idea: Suffocation, Unleashed, Grave, Dismember,
Master, Malevolent Creation, Asphyx, tutte band che nell’anno 1991
o debuttavano o consegnavano alla storia del genere una pietra miliare.
E
così i Suffocation con “Effigy of Forgotten” inauguravano il brutal
(anche se a noi piace ricordarli per il masterpiece “Pierced from
Within”, del 1995). Mentre Unleashed, Grave e Dismember rinvigorivano la
scena svedese, i primi con i trottanti umori “vichingheschi” di “Where No
Life Dwells” (anticipando di anni gli Amon Amarth), i secondi con il
solido “Into the Grave” e i terzi con “Like an Ever Flowing Stream”,
testa a testa con i rivali Entombed nel dare forma al death metal di
marca svedese. Rispondevano dall’America i Master di Paul Speckmann
(il Lemmy del death!) e i grandissimi Malevolent Creation, che rilasciavano
i rispettivi capolavori, “On the Seventh Day God Created…Master” e “The
Ten Commandments”. Senza dimenticare il contributo degli olandesi Asphyx,
forti dell’ugola agonizzante di Martin Van Drunen (ex Pestilence)
e di un approccio tutto loro volto ad innestare nel loro death putrefatto forti
dosi di doom.
Vi
rendete conto? Se questi sono gli “scarti”, figuratevi la caratura di coloro
che invece sono riusciti a piazzarsi nelle prime dieci posizioni! Ma la nostra
selezione è stata di pancia: noi che quel periodo l’abbiamo vissuto, noi che
non cediamo a dietrologie, ci siamo mossi d’istinto, anche con dolore ed
abbiamo detto “tu fuori”, “tu dentro”. In base a cosa? Probabilmente in base al
carisma.
Il
carisma nel death metal??? Ebbene si, signori miei. Il death metal non
sarebbe altrimenti stato in grado di svilupparsi come genere a sé stante se non
vi fossero state alla sua base delle vigorose energie creative. Si sa, a
livello stilistico il grosso l’avevano già fatto gli Slayer con “Hell
Awaits” e “Reign in Blood”, album che potrebbero definirsi
tranquillamente death metal solo se, al posto degli urlacci sguaiati di Araya,
vi fosse stato un cantato gutturale. Il resto lo fecero band come Kreator,
Celtic Frost e Possessed, quest’ultimi il vero anello di
congiunzione fra thrash metal e death metal (il celeberrimo “Seven
Churches” si concludeva non a caso con un brano intitolato “Death Metal”).
Ci piace però sostenere che il genere vero e proprio è nato ufficialmente con “Scream
Bloody Gore” dei Death, anno 1987. Growl terrificanti, suoni
caotici ed iperdistorti, velocità forsennate, tematiche macabre: è vero, il
death metal nasceva come un’estremizzazione del thrash metal, ma a
fargli da ostetrica troviamo un signore come Chuck Schuldiner, fra i più
grandi artisti dell’heavy metal tutto.
Dotato
di quella serietà e di quel rigore che gli hanno permesso negli anni di
migliorarsi continuamente, Schuldiner era un musicista preparato, un
compositore fantasioso ed un intelligente paroliere, a dimostrazione che per
fare death metal non bastava urlare e picchiare come degli ossessi. La violenza
degli Slayer, il dinamismo di un album come “Pleasure to Kill”
dei Kreator, le vocalità efferate di Jeff Becerra dei Possessed (inventore
del growl) furono le pietre angolari su cui un giovane Schuldiner
costruì il suo cammino. Chissà quante band di adolescenti incazzati, all’epoca,
saranno state in grado di fare “casino” quanto i Death. Ma furono i Death a
pubblicare prima “Scream Bloody Gore” e poi “Leprosy”, a scrivere
a chiare lettere (lettere sanguinanti) cosa fosse il death metal. Solo chi fu
all’altezza della sfida seppe emergere e coloro che sopravvissero ci riuscirono
non solo perché erano musicisti preparati (ed in certi casi tecnicamente
superiori persino a certe band dedite all’heavy metal classico), ma anche
perché avevano del carisma: un fottuto modo di distinguersi dagli altri. E
credetemi, signori miei, non è facile distinguersi quanto tutti si canta con il
growl, quando tutti si pesta come degli assassini e ci si ammanta di
distorsioni furibonde.
Distinguersi
nel caos e nel rigore di una metodologia che impegna energie fisiche e mentali,
tecnica e visione del mondo, inesorabilmente verso la brutalità: forse questo
è il tema principe nel death metal. Raffinarsi per fare più male, per
essere più violenti, per reggere di più. Non è punk questo, non ci si limita a
canzoni di un minuto e mezzo e senza assolo. Il death metal è un genere
serio, rigoroso, proprio perché non ha molte possibilità di espressione e
quindi si deve ingegnare per risultare credibile con margini di movimento
veramente angusti.
Oggi
il death-metal esiste ancora, ma non presenta grosse differenze rispetto a
venticinque anni fa. Eccettuate certe formazioni che hanno saputo entrare in
contatto con sonorità post-metal (mi vengono in mente gli Ulcerate e i Portal),
non sono emersi in anni recenti artisti che abbiano saputo, o abbiano voluto,
rivoluzionare il genere. Il death metal, i suoi picchi sperimentali li ha
toccati nel 1993, con l’uscita di opere come “Focus” dei Cyinc,
“Spheres” dei Pestilence ed “Elements” degli Atheist,
ensemble prodigiosi che sapevano far flirtare la musica estrema con il
jazz e la fusion (mica cazzi). Nel medesimo periodo, dalla Svezia si aprivano
un varco i pionieri del cosiddetto melodic death metal, altresì detto Gothemburg
Sound (sempre nel 1993 usciva “Skydancer”
dei Dark Tranquillity” e nel 1994 “Lunar Strain” degli In
Flames, dopo che gli At The Gates, con “The Red in the Sky is
Ours”, del 1992, avevano dato il là all’intero movimento): sperimentazioni
che presto avrebbero portato il death metal verso altre declinazioni, molto
distanti da quella forma “classica” che invece intendiamo trattare.
La
dimensione temporale in cui il death metal si è originato, sviluppato ed
accartocciato in se stesso è stata una parabola di sei/sette anni appena:
un lasso di tempo brevissimo se si pensa che in esso hanno avuto i natali tante
formazioni storiche la cui impronta sopravvive ancora oggi stampata sulle
T-shirt di tanti metallari che amano “indossare” lo spirito autentico del
metal.
E
proprio questo spirito autentico si respirava nell’anno 1991: un anno che fotografava
il death metal a metà circa del suo percorso evolutivo. Un death metal che si
sviluppava prodigiosamente, lasciandosi alle spalle le ingenuità delle origini
e guardando ostinatamente verso nuove forme di espressione, riannettendo
talvolta proprio quegli elementi (la melodia, ad esempio) che erano stati
buttati a mare nel corso del processo di definizione stilistica. E Metal
Mirror, con l’approccio che lo contraddistingue, è disceso negli Inferi di
quel laboratorio per riemergere con nuove Verità in mano. Verità forse inutili,
perché a nessuno interessa l’apparato concettuale e profondo che sta dietro
all’impalcatura del death metal (come a nessuno interessa la drammaturgia che
sta dietro al cinema porno), perché tutti vogliono la violenza dal death metal,
come tutti vogliono l’esplicitazione dell’atto sessuale nel porno e non una
buona sceneggiatura.
Per
noi quelle Verità non sono inutili, perché noi crediamo nel death metal, e
riteniamo che in esso abbiano trovato spazio artisti fra i più intelligenti
della musica metal. Quel death metal che, contrariamente a molte altre
estrinsecazioni dell’Estremo, ha saputo ospitare anche due bestie rare, l’ironia
e l’autoironia. Un death metal maturo, intelligente, carismatico: ecco
quello che vediamo attraverso la nostra lente di ingrandimento.
Questa
la ratio, dunque, che ci ha guidati nel Mar Morto del Metallo della
Morte, mentre la vera novità metodologica è l’idea di scrivere ad otto
mani la classifica, coinvolgendo l’intera redazione nell’impresa. Ognuno
con la sua sensibilità, con le sue esperienze, ci racconterà un pezzo di storia
del death metal. Ma prima di aprire le
danze, ci concediamo una piccola anteprima in compagnia di una band che,
se proprio non brilla per carisma, e che anzi potremmo definire come fautrice
di un death metal involuto, ci aiuta ad introdurre il tema…