Apprendiamo
dell’uscita dell'ultimo degli Ulver e come al solito
facciamo un salto dalla sedia. In pochi giorni è stato dunque
nostro, perché non possiamo vivere senza Ulver, ma senza nemmeno far
particolari tragedie, possiamo tranquillamente dirlo: non ci è
piaciuto.
Ad
essere precisi “ATGCLVLSSCAP” non è proprio l'ultimo album in studio degli Ulver, ma una sorta di rimaneggiamento/taglia-copia-incolla di una serie di estratti da svariate esibizioni dal vivo dello scorso tour.
Punto
primo: che titolo di merda! Ma che roba è, un codice
fiscale? (Ve lo immaginate il grafico, chino sulla tastiera del pc,
intento a digitare le lettere del titolo per predisporre la
copertina?) Pare invece che il cotanto insensato ammasso di lettere
sia l’acronimo delle iniziali delle costellazioni dei dodici
segni zodiacali (ideona!). Dodici: un numero che
aleggia spesso intorno a “ATGCLVLSSCAP” (dodici i pezzi,
dodici i personaggi coinvolti nel tour, compreso il tecnico
delle luci e l’autista (sti cazzi!), dodici i soggetti ritratti nelle due foto d'epoca che adornano il booklet), ma che certo
non basta a dare coerenza concettuale e stilistica all’album più
disomogeneo e dispersivo degli Ulver. Manco fosse il dodicesimo della loro
carriera. Oppure si?
Punto
secondo: si sa, gli Ulver sono un gruppo particolare (lo ricordiamo sempre
volentieri: dei musicisti che son passati dal black
all'elettronica con la stessa leggerezza con cui una
mattina al bar, invece del solito cornetto, decidiamo di fare
colazione con una fetta di crostata). E quindi non ci dovevamo
aspettare da loro il classico live-album: il tour del 2014 si
basò principalmente su delle performance di improvvisazione
(chi c'era lo sa), lunghe performance che andavano dalla
musica cosmica al prog, non tralasciando le sonorità rock esplorate con l’album di
cover “Childhood’s End”, né le derive droniche
fatte fluire insieme ai Sunn O))) in “Terrestrials”:
un’insieme di cose più o meno incoerente, da cui svettavano
chicche non da poco come “Nowhere/Catastrophe” (da
“Perdition City”), “Eitttlane” (“A Quick
Fix of Melancholy EP), “Dressed in Black” (“Blood
Inside”), “England” (“Wars of the Roses”)
e “Glamour Box (Ostinati)”, dall'effettivo ultimo album
ufficiale “Messe I.X-VI.X”.
“Messe
I.X-VI.X”: ok, ci era piaciuto, ma non ci aveva entusiasmato,
né stupito, anche se oramai nemmeno un ritorno al black di “Nattens
Madrigal” potrebbe farci battere ciglio. Troppo eclettica è
stata la carriera dei Lupi per poter nutrire nei loro
confronti aspettative, azzardare previsioni. In questo momento della
loro e della nostra storia ai norvegesi richiediamo solo qualità. E
“Messe”, da molti apprezzato (persino da insospettabili
scribacchini di riviste d'essai altrimenti decisamente snob), a
noi, che li conosciamo bene, non ci ha fregato fino in fondo. Musica
classica, ambient, kraut,
tutto quello che volete, ma possiamo non entusiasmarci, noi che
avevamo pianto con "Bergtatt" e che abbiamo trovato noi stessi in “Shadows of the Sun”? Esercizio freddo,
questa messa, intelligente manierismo per chi fa il
prestigiatore di professione, ma noi che siamo da tanto tempo in
platea, qualche trucchetto l’abbiamo imparato. C’eravamo anche
noi ad applaudire, ma il battito delle nostre mani era più lento e
svogliato di quello degli altri, mentre Kristoffer Rygg depennava
dalla lista della spesa la voce “disco con l'orchestra”.
E mo che famo?
E mo che famo?
Rygg,
anzi Garm, ammettilo: non sai più cosa inventarti! Ma
chiariamo anche questo aspetto: se l'esordio “Bergtatt”
usciva nel 1995 ed adesso siamo nel 2016, vuol dire che sono
almeno ventuno anni che gli Ulver fanno musica. Prendiamo un
gruppo seminale qualsiasi, tipo i Led Zeppelin, che hanno fatto la storia della musica: cosa facevano i Led Zeppelin dopo ventuno anni della loro carriera? Al di là che
manco più esistevano, c'è da dire che, nati nel 1969, già dal 1976
avevano iniziato a perdere slancio. Dunque: che cazzo
pretendiamo dagli Ulver dopo ventuno anni?
Per
capire bene la questione c'è semmai da fare una distinzione: ci
sono gli Ulver rigorosi e gli Ulver meno rigorosi.
Gli
Ulver che ci piacciono sono quelli che, all'indomani di “Bergtatt”,
si auto-mutilavano riducendosi in tre e tiravano fuori dal cilindro
un disco acustico, in culo al black e ai metallari. Operazione che
richiedette, oltre che ad un gran paio di palle, anche del rigore.
Molto rigore. Lo stesso rigore che ha portato subito dopo
all'estremizzazione senza compromessi di “Nattens Madrigal” e,
successivamente, a opere quasi strumentali come i vari EP che
seguirono “Perdition City”. Che, per carità, potranno
anche non piacere, ma sono pur sempre figli di una grande
motivazione, nonché di una ricerca, anche dolorosa, volta
all’esclusione di tante, tante idee, che magari non erano malaccio.
Signore e signori: è il minimalismo. Prendere o lasciare.
Ci sono
però anche gli Ulver meno rigorosi, come se questa faticosa opera di
ricerca ed esclusione (persino della voce, il pezzo forte degli
Ulver!) portasse ogni tanto a far esplodere dei bubboni di pus
putrescente. Fu il caso di “Blood Inside”, infarcito di
suoni a non finire: un esercizio che non ci ha mai convinto fino in
fondo. Accade anche con “Childhood’s End”, fatto di
chitarra basso batteria e pieno zeppo di voci: lavoro minore che
invece ci piacque assai perché le cose sembravano stare più o meno
al loro posto. Anche in “Messe”, a nostro avviso, un po’
si pasticciò, ma con “ATGCLVLSSCAP” tornano gli Ulver
pasticcioni per eccellenza.
Ok è
un live, ok si tratta di roba improvvisata, ma non è detto
che entrambe le cose debbano per forza valere come scusanti: potevano anche non fare nulla, no? Del resto siamo quelli che preferiscono gli Ulver che si fanno un culo grosso
come una capanna per eliminare il superfluo. E di superfluo in
“ATGCLVLSSCAP” ce n’è a palate, anzi potremmo dire che
“ATGCLVLSSCAP” è un’opera che si basa solo sul
superfluo. Volutamente, programmaticamente. Come se, dopo anni di astinenza, tutto quello che i
Nostri non hanno voluto/potuto mettere nei dischi ufficiali, lo
avessero riversato senza remore su queste tracce che (voglio
ricordare) messe in fila totalizzano ottanta minuti e un secondo
di durata (mai visto un cd singolo che dura così tanto).
Tenendo
conto poi che dal vivo i Nostri di presentavano in più dei soliti
tre (vabbè, O’ Sullivan è oramai da considerare il
quarto membro ufficiale degli Ulver), potete capire che il
suono si fa più massimalista. Basso e chitarra (a cura di O’
Sullivan) non vengono a mancare, mentre di batteristi/percussionisti
ne contiamo addirittura tre, compreso Garm (accidenti a lui!)
a prestare le braccia alla causa percussiva.
Capitolo
Garm.
Sottotitolo:
Il cantante a cui non piaceva cantare.
Quando
ho appreso che l’album sarebbe stato l’ennesimo parto quasi
strumentale della band, mi sono letteralmente cadute le palle.
Maddai, un altro? Non bastava “Messe”? Non bastava
“Terrestrials”? Cazzo Garm, ma perché non canti mai?
Perché? Io non vado a teatro per vedere i monologhi di Rocco
Siffredi (che, si sa, è noto per altre qualità). E di tanto in
tanto mi piacerebbe sentire un album degli Ulver in cui canta Garm!
Possibile che l’unico modo per sentirlo era doversi sorbire le
canzonette degli anni sessanta? (fatti mandare dalla
maaaaamma)
Uno si
prepara dunque al lato più minimale degli Ulver: se Garm non ci
deve essere, e allora che non vi sia null’altro, no? E
invece i Nostri tornano con la loro opera più ricca di contenuti dai
tempi di “Themes from William Blake’s Marriage of Heaven and
Hell”, che peraltro ci era piaciuto (ma eravamo giovani, loro
erano giovani e a noi ci garbavano gli Arcturus). Datemi il
piano jazzato, due beat elettronici, tutt’al più
qualche assolo di sax, ma non mettetevi per piacere a suonare rock!
Momento
top? “Nowhere (Sweet Sixteen)”, che poi non è altro
che “Nowhere/Catastrophe” pari pari. Ma che bellezza
risentire l'ultimo brano di "Perdition City", così, all’improvviso, forte, potenziato, che si manifesta come una
stupenda epifania fra varie banalità. Detto per inciso, voglio
sperare che Garm (ottima la sua prestazione) si sia straritoccato in
studio perché se canta così bene dal vivo, allora la sua
ostinazione a non cantare mi fa incazzare doppiamente.
Momento
flop? Tutti e nessuno, però forse quello che più mi ha
disturbato è il momento percussivo in stile funky-poliziottesco
anni settanta nel finale di “Cromagnosis”: mica perché
è brutto, ma trovo insultante di per sè il fatto che nel mezzo vi sia
Garm che invece di cantare ci dà di mazza.
Si dice
che sia un bell’album (persino noi detrattori lo ascoltiamo
ripetutamente, figuriamoci se ci piaceva...), ma bisogna essere anche
onesti intellettualmente, sennò ci va bene tutto. E “ATGCLVLSSCAP”
non è altro che un sottofondo piacevole, niente di più: un bel mix
di sonorità assortite degno delle migliori playlist
di Spotify da mettere in filodiffusione durante le cene fighe
con gli stronzi dei vostri amici.
Amen.