"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

11 feb 2016

PENSIERI A CAZZO SU "ATGCLVLSSCAP", L'ULTIMO (?) DEGLI ULVER


Apprendiamo dell’uscita dell'ultimo degli Ulver e come al solito facciamo un salto dalla sedia. In pochi giorni è stato dunque nostro, perché non possiamo vivere senza Ulver, ma senza nemmeno far particolari tragedie, possiamo tranquillamente dirlo: non ci è piaciuto.


Ad essere precisi “ATGCLVLSSCAP” non è proprio l'ultimo album in studio degli Ulver, ma una sorta di rimaneggiamento/taglia-copia-incolla di una serie di estratti da svariate esibizioni dal vivo dello scorso tour.

Punto primo: che titolo di merda! Ma che roba è, un codice fiscale? (Ve lo immaginate il grafico, chino sulla tastiera del pc, intento a digitare le lettere del titolo per predisporre la copertina?) Pare invece che il cotanto insensato ammasso di lettere sia l’acronimo delle iniziali delle costellazioni dei dodici segni zodiacali (ideona!). Dodici: un numero che aleggia spesso intorno a “ATGCLVLSSCAP” (dodici i pezzi, dodici i personaggi coinvolti nel tour, compreso il tecnico delle luci e l’autista (sti cazzi!), dodici i soggetti ritratti nelle due foto d'epoca che adornano il booklet), ma che certo non basta a dare coerenza concettuale e stilistica all’album più disomogeneo e dispersivo degli Ulver. Manco fosse il dodicesimo della loro carriera. Oppure si?

Punto secondo: si sa, gli Ulver sono un gruppo particolare (lo ricordiamo sempre volentieri: dei musicisti che son passati dal black all'elettronica con la stessa leggerezza con cui una mattina al bar, invece del solito cornetto, decidiamo di fare colazione con una fetta di crostata). E quindi non ci dovevamo aspettare da loro il classico live-album: il tour del 2014 si basò principalmente su delle performance di improvvisazione (chi c'era lo sa), lunghe performance che andavano dalla musica cosmica al prog, non tralasciando le sonorità rock esplorate con l’album di coverChildhood’s End”, né le derive droniche fatte fluire insieme ai Sunn O))) in “Terrestrials”: un’insieme di cose più o meno incoerente, da cui svettavano chicche non da poco come “Nowhere/Catastrophe” (da “Perdition City”), “Eitttlane” (“A Quick Fix of Melancholy EP), “Dressed in Black” (“Blood Inside”), “England” (“Wars of the Roses”) e “Glamour Box (Ostinati)”, dall'effettivo ultimo album ufficiale “Messe I.X-VI.X”.

Messe I.X-VI.X”: ok, ci era piaciuto, ma non ci aveva entusiasmato, né stupito, anche se oramai nemmeno un ritorno al black di “Nattens Madrigal” potrebbe farci battere ciglio. Troppo eclettica è stata la carriera dei Lupi per poter nutrire nei loro confronti aspettative, azzardare previsioni. In questo momento della loro e della nostra storia ai norvegesi richiediamo solo qualità. E “Messe”, da molti apprezzato (persino da insospettabili scribacchini di riviste d'essai altrimenti decisamente snob), a noi, che li conosciamo bene, non ci ha fregato fino in fondo. Musica classica, ambient, kraut, tutto quello che volete, ma possiamo non entusiasmarci, noi che avevamo pianto con "Bergtatt" e che abbiamo trovato noi stessi in “Shadows of the Sun? Esercizio freddo, questa messa, intelligente manierismo per chi fa il prestigiatore di professione, ma noi che siamo da tanto tempo in platea, qualche trucchetto l’abbiamo imparato. C’eravamo anche noi ad applaudire, ma il battito delle nostre mani era più lento e svogliato di quello degli altri, mentre Kristoffer Rygg depennava dalla lista della spesa la voce “disco con l'orchestra”.

E mo che famo?

Rygg, anzi Garm, ammettilo: non sai più cosa inventarti! Ma chiariamo anche questo aspetto: se l'esordio “Bergtatt” usciva nel 1995 ed adesso siamo nel 2016, vuol dire che sono almeno ventuno anni che gli Ulver fanno musica. Prendiamo un gruppo seminale qualsiasi, tipo i Led Zeppelin, che hanno fatto la storia della musica: cosa facevano i Led Zeppelin dopo ventuno anni della loro carriera? Al di là che manco più esistevano, c'è da dire che, nati nel 1969, già dal 1976 avevano iniziato a perdere slancio. Dunque: che cazzo pretendiamo dagli Ulver dopo ventuno anni?

Per capire bene la questione c'è semmai da fare una distinzione: ci sono gli Ulver rigorosi e gli Ulver meno rigorosi.

Gli Ulver che ci piacciono sono quelli che, all'indomani di “Bergtatt”, si auto-mutilavano riducendosi in tre e tiravano fuori dal cilindro un disco acustico, in culo al black e ai metallari. Operazione che richiedette, oltre che ad un gran paio di palle, anche del rigore. Molto rigore. Lo stesso rigore che ha portato subito dopo all'estremizzazione senza compromessi di “Nattens Madrigal” e, successivamente, a opere quasi strumentali come i vari EP che seguirono “Perdition City”. Che, per carità, potranno anche non piacere, ma sono pur sempre figli di una grande motivazione, nonché di una ricerca, anche dolorosa, volta all’esclusione di tante, tante idee, che magari non erano malaccio. Signore e signori: è il minimalismo. Prendere o lasciare.

Ci sono però anche gli Ulver meno rigorosi, come se questa faticosa opera di ricerca ed esclusione (persino della voce, il pezzo forte degli Ulver!) portasse ogni tanto a far esplodere dei bubboni di pus putrescente. Fu il caso di “Blood Inside”, infarcito di suoni a non finire: un esercizio che non ci ha mai convinto fino in fondo. Accade anche con “Childhood’s End”, fatto di chitarra basso batteria e pieno zeppo di voci: lavoro minore che invece ci piacque assai perché le cose sembravano stare più o meno al loro posto. Anche in “Messe”, a nostro avviso, un po’ si pasticciò, ma con “ATGCLVLSSCAP” tornano gli Ulver pasticcioni per eccellenza.

Ok è un live, ok si tratta di roba improvvisata, ma non è detto che entrambe le cose debbano per forza valere come scusanti: potevano anche non fare nulla, no? Del resto siamo quelli che preferiscono gli Ulver che si fanno un culo grosso come una capanna per eliminare il superfluo. E di superfluo in “ATGCLVLSSCAP” ce n’è a palate, anzi potremmo dire che “ATGCLVLSSCAP” è un’opera che si basa solo sul superfluo. Volutamente, programmaticamente. Come se, dopo anni di astinenza, tutto quello che i Nostri non hanno voluto/potuto mettere nei dischi ufficiali, lo avessero riversato senza remore su queste tracce che (voglio ricordare) messe in fila totalizzano ottanta minuti e un secondo di durata (mai visto un cd singolo che dura così tanto).

Tenendo conto poi che dal vivo i Nostri di presentavano in più dei soliti tre (vabbè, O’ Sullivan è oramai da considerare il quarto membro ufficiale degli Ulver), potete capire che il suono si fa più massimalista. Basso e chitarra (a cura di O’ Sullivan) non vengono a mancare, mentre di batteristi/percussionisti ne contiamo addirittura tre, compreso Garm (accidenti a lui!) a prestare le braccia alla causa percussiva.

Capitolo Garm.
Sottotitolo: Il cantante a cui non piaceva cantare.
Quando ho appreso che l’album sarebbe stato l’ennesimo parto quasi strumentale della band, mi sono letteralmente cadute le palle. Maddai, un altro? Non bastava “Messe”? Non bastava “Terrestrials”? Cazzo Garm, ma perché non canti mai? Perché? Io non vado a teatro per vedere i monologhi di Rocco Siffredi (che, si sa, è noto per altre qualità). E di tanto in tanto mi piacerebbe sentire un album degli Ulver in cui canta Garm! Possibile che l’unico modo per sentirlo era doversi sorbire le canzonette degli anni sessanta? (fatti mandare dalla maaaaamma)

Uno si prepara dunque al lato più minimale degli Ulver: se Garm non ci deve essere, e allora che non vi sia null’altro, no? E invece i Nostri tornano con la loro opera più ricca di contenuti dai tempi di “Themes from William Blake’s Marriage of Heaven and Hell”, che peraltro ci era piaciuto (ma eravamo giovani, loro erano giovani e a noi ci garbavano gli Arcturus). Datemi il piano jazzato, due beat elettronici, tutt’al più qualche assolo di sax, ma non mettetevi per piacere a suonare rock!

Momento top?Nowhere (Sweet Sixteen)”, che poi non è altro che “Nowhere/Catastrophe” pari pari. Ma che bellezza risentire l'ultimo brano di "Perdition City", così, all’improvviso, forte, potenziato, che si manifesta come una stupenda epifania fra varie banalità. Detto per inciso, voglio sperare che Garm (ottima la sua prestazione) si sia straritoccato in studio perché se canta così bene dal vivo, allora la sua ostinazione a non cantare mi fa incazzare doppiamente.

Momento flop? Tutti e nessuno, però forse quello che più mi ha disturbato è il momento percussivo in stile funky-poliziottesco anni settanta nel finale di “Cromagnosis”: mica perché è brutto, ma trovo insultante di per sè il fatto che nel mezzo vi sia Garm che invece di cantare ci dà di mazza.

Si dice che sia un bell’album (persino noi detrattori lo ascoltiamo ripetutamente, figuriamoci se ci piaceva...), ma bisogna essere anche onesti intellettualmente, sennò ci va bene tutto. E “ATGCLVLSSCAP” non è altro che un sottofondo piacevole, niente di più: un bel mix di sonorità assortite degno delle migliori playlist di Spotify da mettere in filodiffusione durante le cene fighe con gli stronzi dei vostri amici.

Amen.