I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL ESTREMO
1° CLASSIFICATO: “DET SOM EN GANG VAR” (BURZUM)
Giungiamo dunque alla conclusione della seconda tranche
della nostra classifica: quella dedicata ai migliori “brani” lunghi
del metal estremo.
Poiché il nostro obiettivo è stato quello di guardare
esclusivamente ai brani singoli e premiare i più meritevoli, è solamente una
gradevole coincidenza il fatto che, raffrontando questo “troncone” di
classifica con quello dedicato al metal classico, vi sia una corrispondenza fra
la tipologia di band che si sono posizionate ai “piani alti”.
Allora avevamo eletto il progressive al terzo posto,
rappresentato egregiamente dai Dream Theater e dalla loro mirabolante suite
“A Change of Seasons”. Al secondo posto collocammo gli Helloween,
autori di un brano che secondo noi incarnava la “perfezione formale” del metal
classico ("The Keeper of the Seven Keys"). Indicammo infine come
incontrovertibili Numero Uno gli Iron Maiden di "Rime of the Ancient Mariner", un brano che abbiamo definito “Oltre la
perfezione”: un capolavoro assoluto in cui narrativa romantica ed atmosfere
epiche si sposavano con una brillante scrittura, non priva di autentici colpi
di genio. Gli Iron di Dickinson, peraltro, sono stati una fondamentale fonte d’ispirazione
per le Zucche di Amburgo, mentre i Dream Theater appartengono alla
generazione successiva, cosicché si andava in quell’ordine di posizionamento a
ristabilire la gerarchia d’importanza storica sussistente fra le tre
band.
Con il metal estremo la partita è stata più complicata, non
foss'altro per il fatto che molte band storiche (quel torbido bacino di senatori
che vegetano fra il thrash più oltranzista e il death metal classico) di brani lunghi non
ne hanno mai realizzati. Via libera dunque a generi come doom e black, che nel
brano lungo hanno invece trovato una dimensione ideale per esprimersi. Un
insieme di cose che ha generato strani paradossi, tipo i Void of Silence
(chi?) che grazie ad una inarrivabile "Human Antithesis"
sbaragliavano i seminali My Dying Bride, numi tutelari dell’intero
movimento doom/gothic. Oppure gli Agalloch che si piazzavano laddove i
loro maestri (Ulver e In the Woods… su tutti) non erano riusciti
ad arrivare. O, infine, come successo al buon Quorton, che per importanza
storica si sarebbe meritato la medaglia d’oro e che invece si è dovuto
accontentare dell’argento.
Quindi, riassumendo: anche sul fronte estremo abbiamo una
band “prog” al terzo posto (gli Opeth con “The Drapery Falls”) e
i fautori di un brano “idealtipico” al secondo (i Bathory con la mitica
“Blood Fire Death”). E al primo? Qualcuno che come gli Iron ha saputo
andato Oltre. Eccoci dunque arrivati al capolinea: vince la competizione
niente meno che Varg Vikernes, che certo ai Bathory deve pagare un bel dazio,
ma che con la sua "Det Som en Gang Var" (quattordici minuti
e ventuno secondi di brividi elettrici) lambisce vette di espressività che
nessun altro nel metal estremo ha saputo raggiungere.
Abbiamo già parlato dell'album che la contiene, quel “HvisLyset Tar Oss" (1994) di cui essa è maestosa opener. Si
è dunque vista la portata innovativa di Burzum, che introdusse stilemi
inediti per il black metal, in particolare un approccio minimale che
prevedeva lo sviluppo di brani anche decisamente lunghi sulla base di pochi ma
ispirati temi. Un minimalismo che molti hanno accostato alla musica ambient,
che peraltro il Nostro non mancherà in seguito di adottare come medium
espressivo privilegiato.
Per fare tutto questo non ci voleva solo coraggio, ma anche
una profonda ispirazione. Vikernes non era l’unico che in quegli anni
sperimentava in quella direzione: nel 1993 e nel 1994, per esempio, uscivano “Obscuritatem
Advoco Amplectere Me” e “In Umbra Malitiae Ambulabo, In Aeternum In
Triumpho Tenebrarum” degli svedesi Abruptum, i quali si cimentavano
in brani di quasi mezzora, sessioni di suoni disarticolati che si dispiegavano senza
riferimenti strutturali, esperimenti black-ambient in cui i Nostri si
dilettavano persino a seviziarsi per aumentare il tasso di agonia espresso. Solo
Vikernes, tuttavia (e senza arrivare a tanto!), ha raggiunto lo status di maestro
indiscusso per quanto riguarda un certo tipo di approccio alla materia estrema (basti
pensare alla nascita del filone depressive-black-metal, che lo vede come
punto di riferimento imprescindibile).
C'è anche da dire che, benché Vikernes abbia spesso
adottato il format del brano lungo, "Det Som en Gang Var"
rimane un episodio unico ed irripetibile anche nella sua stessa carriera. Vale
la regola dei "due/tre temi ed altrettanti cambi di tempo", ma
qua Vikernes si supera azzeccando ogni singolo passaggio, nonché riuscendo a
conferire al tutto uno spiccato senso di insieme. Non c'è niente di anthemico
in "Det Som en Gang Var", ma essa suona forte come un inno: un
inno di fierezza e desolazione al tempo stesso. Un paradosso che ne
crea uno ancora più grande: lascito misantropico ed elitario di un artista
ottuso e solitario, “Det Som en Gang Var” diviene espressione di un malessere
che assume i contorni dello sfogo generazionale contro un Odierno che
viene ferocemente respinto.
Datemi del visionario, ma nel riff portante di “Det
Som en Gang Var” ci ritrovo l'eco di "Smells like Teen Spirit"
dei Nirvana, influenza che il Conte non riconoscerebbe mai come tale, vista
la considerazione che il norvegese ha della musica rock. Ricordiamo infatti che
egli definì il rock, probabilmente per le sue origini blues, come "musica negroide".
Ma c’è anche da precisare che era il periodo in cui il Nostro era recluso e che
per ovvi motivi era obbligato a riporre nella custodia la sua chitarra
elettrica e darsi alla “nobile” musica ambient. Una volta uscito dal carcere,
come vedremo, non molto coerentemente con quanto affermato, riprenderà a
suonare quella stessa musica “rock” che aveva ripudiato! Fatto sta che
"Nevermind" usciva nel 1991 e Vikernes scriveva il suo pezzo nel 1992
(il materiale sarebbe poi stato pubblicato nel 1994, ad incarcerazione
avvenuta).
Smells like Burzum Spirit!
Il brano si apre con un incipit apocalittico a base
di lunghi accordi di chitarra e gelide tastiere (note che cadono funeree come
rintocchi di campana a morto, chiamate a celebrare un requiem per
l’Umanità intera): dense pennellate che, con stile espressionista, vanno a
ritrarre una natura tanto grandiosa quanto cieca ed indifferente (proprio come quella
ritratta dal pittore norvegese Theodor Kittelsen, la cui arte non a caso fu scelta per la suggestiva copertina
e per le illustrazioni che corredano il booklet interno).
Una natura tanto maestosa quanto ostile…e un passato
irrecuperabile. Ricordiamo infatti che la traduzione del titolo del brano
(che è curiosamente quasi uguale al titolo dell’album precedente, “Det Som
Engang Var”) è letteralmente “Ciò che era una volta”: grido di dolore
che scaturisce da uno sguardo nostalgico (reazionario, potremmo aggiungere) rivolto
ad una mitica arcadia in cui Uomo e Natura convivevano in armonia. Un’epoca che
non tornerà più:
“Tra i cespugli abbiamo fissato
Quelli che ci ricordavano un’altra epoca
E ci siamo detti che la speranza era ormai sparita
Per sempre.
Abbiamo sentito il canto degli elfi
E l’acqua che scorreva
Ciò che era una volta ora è
Finito
Tutto il sangue
Tutto il desiderio e il dolore che
Regnavano
E quei sentimenti su cui si poteva
Far presa
Non ci sono più.
Per sempre
Noi non siamo morti…
Non abbiamo mai vissuto.”
Laddove Kurt Cobain gridava al mondo le sue nevrosi
fino a sgolarsi, lo sguardo del Conte è però fermo e lucido: con poche ma
evocative parole, egli, poeta mistico, evocava lo smarrimento innanzi ad
un presente nefasto da respingere. Non altro che due modi diversi, quello di
Cobain e quello di Vikernes, per evadere dall’Odierno (si vedrà poi che
entrambi gli artisti macchieranno di sangue il loro disagio, la loro
inadeguatezza nei confronti dell’Esistente: l’uno uccidendosi, l’altro
uccidendo).
Arpeggi elettrificati sono lasciati a “friggere” a
lungo, generando un inquieto clima di attesa. Monta dunque il celebre riff,
incalzato prima da ritmi tribali e poi da schemi più lineari, infine trasportato
dalla doppia-cassa in un subdolo dinamismo che ipnotizza l’ascoltatore, senza
peraltro che l’acceleratore venga mai premuto. L'ossessiva reiterazione
del riff, soggetto a lievi ma decisivi cambi di ritmo, rimarrà uno degli
stilemi classici di Burzum. Nella sua poetica minimalista, Vikernes
aggiunge gli elementi uno alla volta, ricercando l'effetto massimo con il
minimo dello sforzo esecutivo: così si manifesta il ticchettio della cassa, i
giri circolari delle tastiere, il dilaniante screaming, un assolo
sfregato furiosamente che non fa altro che alzare di qualche tonalità la
melodia del tema predominante delle tastiere. Un po' come nel gioco delle tre
carte, gli elementi sono sempre i soliti, dandosi il cambio in una danza
mesmerica. E i minuti trascorrono…
Prima che tutto si fermi nuovamente, sono passati senza che
ce ne rendessimo conto ben nove minuti. Le chitarre arpeggiate sono lasciate a fermentare
liberamente, di tanto in tanto spezzate da quel tonfo cassa/piatto che è
tipicissimo della visione artistica burzumiana, mentre il latrato di
Vikernes si fa singulto sofferente, sibilo fantasmatico. La terza parte è
dunque quella più maestosa. Le ritmiche rallentano ulteriormente, si fanno
solenni, mentre chitarre e tastiere disegnano paesaggi medievaleggianti
(solite sei/sette note ripetute allo sfinimento) che richiamano, in maniera
stilizzata e tramite il medium dell’elettricità, quel passato ardentemente
desiderato che adesso assume contorni trionfalistici: altro paradosso che immortala
l’arte di Vikernes come una grottesca opera di trasfigurazione dell’atto stesso
della contemplazione; una contemplazione in cui si specchia l’Io
profondo. Un Io tormentato: parimenti le grida atonali esprimono un
dolore parossistico che cozza con la visione ferma e categorica del suo autore:
un’agonia non-umana che perde il carattere autobiografico, individuale,
per farsi voce della collettività. Come se la musica fosse solo una
deformazione massimalista del dolore custodito dentro un cuore duro che non ammette
debolezze: Vikernes è sempre stato orgoglioso e ferreo nelle sue posizioni,
distanziandosi anni luce dal carattere depressivo/maniacale (ed
autodistruttivo) dei suoi seguaci.
Altra pausa e poi la batteria si fa finalmente incalzante, trascinando
via con sé la chitarra in un rapido fading out. Con queste note, quasi
tirate via (ma anche in questo Vikernes rimane unico, sprezzante anche nei
confronti della sua stessa opera), si conclude la nostra disamina sui migliori
brani lunghi del metal estremo, ma non la nostra rassegna: dovremo infatti
tirare le somme e, pescando sia dalla classifica sul metal classico che da
questa appena ultimata, selezioneremo i dieci titoli che secondo noi sono la
crema della crema del brano lungo del metal nella sua totalità.
Rullar di tamburi, il verdetto è vicino!