I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL ESTREMO
3° CLASSIFICATO “THE DRAPERY FALLS” (OPETH)
No,
non si tratta di un errore: siamo ancora in terza posizione. Nella
puntata precedente si sono spartiti l’ambito terzo posto Katatonia ed Opeth,
un po’ perché entrambi meritevoli, un po' perché, da sentimentali che siamo, non
volevamo fare il torto a nessuna di queste due band che, ciascuna a modo suo, hanno
saputo rivoluzionare il modo di intendere il metal estremo.
Quanto
al tema oggetto della nostra classifica, ossia il brano di estesa
durata, i Katatonia se la son giocata con gli Opeth grazie ai dieci
minuti di "Brave": caso atipico per una band che non ha mai
nutrito ambizioni progressive e che ha sempre preferito muoversi negli ambiti
ristretti del formato canzone. Gli Opeth, dal canto loro, si portavano sulle
spalle un'intera discografia fatta di brani lunghi e per questo siamo stati
costretti ad attingere da un vasto bacino, optando infine per l’ottima “Advent”,
che tuttavia, da sola, non poteva esaurire l’argomento.
Ecco
perché, con la meticolosità che ci contraddistingue, torniamo sul luogo del
delitto. Il quesito che ci toglieva il sonno era: ma sarà giusto, corretto
metodologicamente, onesto intellettualmente, in una classifica sui migliori
brani lunghi del metal estremo, liquidare l’affair Opeth, la
band dai brani lunghi per eccellenza, con un classico della prima ora
che non può certo coprire l’intero spettro di una mirabolante evoluzione che
nel corso degli anni avrebbe condotto la band al prog-rock tout court
dei giorni nostri?
"Morningrise"
era il secondo album per la band di Mikael Akerfeldt, e se attraverso
quelle (lunghe) cinque tracce gli Opeth emergevano già come dei brillanti interpreti
di un approccio tutto loro, in quelle “osservazioni” (tanto per utilizzare la
terminologia kingcrimsoniana) sopravvivevano delle ingenuità che sarebbero
poi state spazzolate via dai lavori successivi. Se “My Arms, Your Hearse”
effettuerà una necessaria opera di compressione (la durata dei brani si
accorciò sensibilmente, ma soprattutto essi divenivano più coesi e scorrevoli),
l’ottimo “Still Life” tornerà a dilatare la scrittura degli Opeth, che
con quell’album diverranno realmente progressivi (ossia, iniziarono a
sviluppare le proprie idee con una ponderata visione d’insieme). Comprendo chi
ritiene “Still Life” il migliore lavoro degli svedesi: esso è un album di cuore
e decisamente ispirato. L’opener “The Moor” e la successiva “Godhead’s
Lament” (venti minuti fra tutte e due!) rimangono l’insuperato crocevia fra
Ragione & Sentimento degli Opeth: brani che servono su un piatto
d’argento un songwriting brillante e personale, un modo di procedere
dinamico ed imprevedibile, perfette successioni fra momenti elettrici ed
acustici, una fluida compenetrazione fra death metal, heavy classico, folk e
sonorità settantiane (non solo progressive).
Passo
dopo passo, dunque, si giungerà all’apice formale "Blackwater Park",
anno 2001, che sancì l'inizio della fruttuosa collaborazione fra la band
e Steven Wilson, in quella sede produttore, musicista aggiunto e
provvidenziale consigliere. Ma l’allora leader dei Porcupine Tree,
con la sua professionalità e chiarezza di pensiero, non fece altro che favorire
quanto già era in nuce, dato che la band navigava sicura oramai da anni nelle
acque della buona musica, grazie all'esperienza e al forte affiatamento instauratosi
fra i suoi componenti.
Per
questo ci è sembrato doveroso andare a parlare di un brano che al meglio
rappresentasse questi nuovi Opeth, che della formazione originaria
conservavano solo i membri fondatori Akerfeldt e Peter Lindgren. La sezione
ritmica, consolidatosi attorno alle figure di Martin Lopez e Martin
Mendez, ebbe di sicuro un merito nella crescita (di tecnica e di visione) dell’ensemble.
Musicisti preparati, ma sobri e bravi servitori della causa comune, i due
Martin di rivelarono acquisti fondamentali per i nuovi equilibri della
band: mai sopra le righe, dotati della giusta personalità, Lopez e Mendez assecondavano
ed al tempo stesso contenevano l'ego di Akerfeldt, che ancora non faceva a
cazzotti con Lindgren! Tutta la band, dunque, era cresciuta, sopratutto sul
fronte delle dinamiche collettive: laddove una volta pareva che ognuno volesse nel
suo piccolo strafare (si vedano le “prodezze” dell’ex bassista DeFarfalla),
adesso i quattro cercano il lavoro di squadra, sotto la vigile regia di Wilson.
La
stessa disposizione dei brani sembra acquisire un senso. "The Drapery
Falls", il brano che abbiamo eletto come degno rappresentante di
questo nuovo stato di cose per gli svedesi, è la quarta traccia di
"Blackwater Park" e viene dopo una compatta e maestosa opener
(“The Leper Affinity”), una imprevedibile seconda traccia (“Bleak”)
che mostra entrambi i volti degli Opeth, quello brutale (nella prima parte) e quello
progressivo (nella seconda), ed una ballata (“Harvest”) che invece ci
consegna degli Opeth totalmente acustici. In questo percorso di decrescita
(quanto a violenza/potenza, non di certo ad intensità), solo i grandi Maestri
possono avere la sensibilità di non arrestare il flusso magico e far ripartire
il brano successivo nel modo stesso in cui si era concluso quello precedente:
con barbagli di chitarra classica.
E
così “The Drapery Falls” parte soffusa, con arpeggi che emergono da lontano, ma
è solo una questione di pochi istanti: prima una dolente scia di chitarra
elettrica in crescendo, poi la sezione ritmica al completo, tramutano il brano
in una corposo e dolente maelstrom metallico, fiume emozionale in lento
divenire. Tre sono le cose che subito colpiscono l’ascoltatore: 1) I suoni:
perfetti. Qui Wilson fa del suo meglio dietro al mixer, valorizzando ogni
singolo strumento ed evidenziando la più impercettibile delle sfumature; 2) La
perfezione formale va di pari passo con la sostanza: i musicisti padroneggiano
i loro strumenti con quella maturità che permette loro di focalizzarsi sull’effetto
che esattamente cercano ed intendono raggiungere; 3) L’impossibilità di
classificare la proposta degli Opeth, almeno da queste prime movenze
strumentali: sicuramente musica di grande intensità emotiva, un prog raffinato
che non puzza di fuoco di artificio, un’evoluzione dal death melodico delle
origini che non scivola nel romanticismo artefatto espresso dal gothic più imbellettato.
Forse
quello che non si era ben specificato nel post precedente è che la musica degli
Opeth, per quanto frutto di tecnica ed ambizione, non è mai stato una fredda
ripetizione di funambolismi, come spesso capita nel progressive, soprattutto
quello di matrice power. E se Akerfeldt non è mai stato troppo disposto a
denudarsi innanzi al suo pubblico, come paroliere ha sempre fatto trapelare
qualcosa di suo dietro ai testi, solo superficialmente “di fantasia”. Si guardi
agli stessi versi di “The Drapery Falls” che ospitano quella che potremmo
definire un’interiorità irrequieta: dietro al paravento romantico
(il titolo potrebbe essere tradotto come “Cascate di drappeggi” o “Il
drappeggio cade”, in entrambi i casi evocando il medesimo scenario di patinata
decadenza), dietro alle forti immagini visive che evocano la letteratura
dell’orrore (“Un pallido fantasma nell’angolo poggia una carezza sulla
tua spalla”, “scorre una lieve marea al di sotto e sfocia in intime tombe”, “unghia
sanguinanti per lo sforzo”), dietro tutto quell’armamentario simbolico che
da sempre drappeggia (tanto per rimane in tema) lo sguardo malinconico
di Akefeldt, emerge un po’ dell’artista, un po’ dell’uomo:
“Per
favore trova rimedio alla mia confusione”
oppure
“C’è
un fallimento dentro
non
riesco a sostenere questa prova
mantenuta
dall’enigma”
fino
al tragico finale “e scivolo nelle vie della rovina”, come se Akerfeldt,
disorientato, all’apice della sua ispirazione, novello Dorian Gray, sentisse
dentro di sé i segnali della disgregazione, umana ed artistica. Dove andare?
Cosa fare, chi essere? Un subbuglio che rinverremo in modo crescente
nei lavori successivi, al di là di una sicurezza anche troppo ostentata
(contraddetta dalla necessità continua di riferirsi ad una guida – Wilson nel
suo caso) e del mestiere che finirà per prevalere.
Se
dunque la musica degli Opeth non è in senso stretto etichettabile come cantautoriale,
essa esprime, tramite il medium dell’heavy metal, e senza ostentazioni e
ricatti emotivi, il mondo interiore del suo principale autore. Torniamo dunque
alla musica: alzando la testa e gettando lo sguardo sul brano per abbracciare
una visione più ampia possibile, scorgiamo la superficie increspata di un fiume
che fluisce, ora placido, ora impetuoso, ma sempre in modo armonioso. Sotto un taglia-e-cuci
oramai d’autore, batte il cuore di uno schema a maglie larghe che,
pur lasciando grandi spazi di azione e sviluppo, argina in modo costruttivo le
energie creative del quartetto. Aperta e chiusa da una degna cornice
(quei fraseggi elettroacustici di cui si parlava prima), “The Drapery Fall” è suddivisibile
sostanzialmente in tre parti.
Nella
prima essa assume le sembianze di una ballata dal gradevole retrogusto
settantiano (con tanto di piccolo ritornello elettrificato) in cui spicca
la vellutata voce di Akerfeldt, leggermente “megafonata” come spesso capitava
negli album dei Porcupine Tree. La seconda porzione presenta partiture più
intricate, dove le due asce si danno da fare sotto i colpi tentacolari
della batteria: è in questo frangente che torna l’avvolgente growl di
Akerfeldt, che certifica la degna appartenenza del brano alla categoria del
metal estremo. Ed è questa la parte più squisitamente progressiva, animata da
un dinamismo ritmico che sfocia in momenti di cervellotica follia che ricordano
certi labirinti sonori delle suite visionarie dei Van der
Graaf Generator. Nella terza parte, infine, la tempesta si placa e si torna
di colpo alle atmosfere intime dell’inizio, con un Akerfeldt nuovamente
pulito alle prese con arpeggi e melodie strictly seventies. Il
tutto, come detto prima, viene fagocitato dalle bellissime note introduttive,
senza che i Nostri si facciano mancare le variazioni del caso, si
veda, per esempio, l’azzeccata doppia cassa che interviene a sottolineare la
drammaticità del passaggio.
Proprio
la doppia cassa di Lopez nel finale è un esempio di come la band abbia
imparato, probabilmente sotto la guida di Wilson, a valorizzare ogni singola
idea, ponendola al posto giusto e facendola risaltare degnamente. Cosa che non
sempre accadeva in passato.
Dieci
minuti e cinquantatre secondi di eleganza, potenza e capacità di esprimere sentimenti
che non è sempre facile far sopravvivere nella loro autenticità, laddove il
tasso tecnico dei musicisti si alza e la voglia di “divertirsi” è un pericolo
concreto. Senza niente togliere al capolavoro minimalista dei Katatonia, né
alle arditezze melodic-death dei primi Opeth, “The Drapery Falls”
sintetizza, in fondo, le due istanze, superandole in un equilibrio formale che
sa mettere insieme intelligenza compositiva e slancio tecnico, razionalità di
forme e viva emotività.