Quanto
un cantante conta in un gruppo? Molto, troppo: la storia ci insegna che la
voce spesso non è un elemento al pari degli altri. E sebbene nel rock da sempre
il simbolo sia la chitarra elettrica, il cantante, nonché frontman,
ha spesso incarnato l'identità di un gruppo, forse perché alla fine la voce
rimane l'elemento più riconoscibile di un particolare sound. The
Doors, Queen, Nirvana sono solo pochi esempi di band che non
hanno saputo sopravvivere alla dipartita del proprio cantante. E se i Deep
Purple vi sono riusciti (ma cazzo! Coverdale e Hughes non
sono mica gli ultimi arrivati!), di certo questa non è stata un'impresa a
portata di tutti. E lo dimostra il fatto che, per esempio, sarebbe molto
difficile immaginarsi i Led Zeppelin senza Robert Plant!
Il metal
rispetto all'hard-rock, da cui deriva, tenderebbe in molte sue forme (si pensi
al thrash ed al metal estremo in generale) a sminuire il ruolo del cantante, ma
è innegabile che soprattutto nel metal classico questo processo di
identificazione fra band e singer/front-man continui a
sussistere. Eppure, nonostante ciò, gli avvicendamenti dietro al microfono sono
stati frequenti, non impedendo in molti casi a band, anche leggendarie, di
poter proseguire sulla propria strada e a volte di poter persino reimpostare
carriere fiorenti date per spacciate. Senza pretese di esaustività, andiamo a
vedere gli episodi più clamorosi.
Partirei
dai padri Black Sabbath, che il 25 aprile del 1980 davano alla
luce il loro primo album senza Ozzy Osbourne. Vero è che i Nostri
venivano da un periodo di forte crisi con almeno un paio di album trascurabili
("Technical Ecstasy" e "Never Say Die!"), ma
non è solo per contrasto che "Heaven and Hell" si affermò come
uno delle opere fondamentali dell'heavy metal tutto. Il cambio di rotta fu
drastico, e dal doom dai contorni freak-psichedelici dell'era-Ozzy,
si passò di colpo ad un robusto e dinamico heavy metal dalla forte carica epica
e dai bei testi fantasy.
Molto
del merito di questo cambiamento fu del nuovo ingresso Ronnie James Dio,
che veniva dai grandissimi Rainbow e che portò energia e grinta,
laccando l'impareggiabile estro della band con la sua particolarissima voce. I
Sabbath cambieranno poi altri cantanti trovando il baricentro nel solo
imprescindibile Iommi, ma l'era-Dio rimane una esaltante fase
artistica per la band che aveva "inventato" il metal e che dopo dieci
anni lo rivoluzionava ancora una volta con questo (ennesimo) capolavoro. Senza
niente togliere al buon Ozzy ed alla sua brillante carriera solista, con la
quale il Madman fece una brusca marcia-indietro verso i lidi di un
visionario hard-rock.
Nel
medesimo periodo, dall'altra parte del mondo, succedeva un prodigio simile.
Anche gli AC/DC cambiarono cantante, ahimè non per screzi interni. Il 19
febbraio 1980 Bon Scott viene trovato morto sul sedile anteriore
di un auto, soffocato dal proprio vomito dopo una notte di eccessi. Lasciava i
suoi compagni all'apice del successo, con alle spalle una doppietta di album
che avrebbero fatto epoca come "Let There Be Rock" e "Highway
to Hell" che li aveva imposti fra i gotha dell'hard rock mondiale.
Eppure il 25 luglio successivo, appena cinque mesi dopo, usciva come se niente
fosse "Back in Black" che divenne il secondo album più venduto
di tutti i tempi e il primo in ambito hard-rock.
Cosa
successe? Merito del nuovo arrivato Brian Johnson? Un burino in
canotta e coppola e con la voce di Paolino Paperino? Vogliamo bene a Brian
Johnson, che ci sta veramente tanto simpatico, ma laddove Ronnie James Dio fu
protagonista di una vera operazione di rilancio che vedeva risorgere una band
annaspare nelle paludi dell'incertezza, in questo caso egli non fu altro che un
valido gregario trasportato dalla forza travolgente del treno AC/DC. Un
treno che, una volta azionato il pilota automatico, avrebbe macinato
imperterrito chilometri per molti altri anni ancora, e che avrebbe saputo
sopravvivere anche alla dipartita dello stesso Johnson, rimpiazzato a spregio
per qualche data dal vivo da un improbabile Axl Rose in sedia e rotelle:
la dimostrazione che è la formula ad essere invincibile a prescindere da chi la
interpreta, fatta eccezione ovviamente per quel mitico scolaretto che ama instancabilmente
sgambettare sul palco.
Abbiamo
fatto due esempi eclatanti di come una situazione potenzialmente tragica si
possa essere trasformata in un clamoroso successo, eppure non sempre le cose
sono andate bene a chi ha provato a sostituire figure leggendarie. Prendiamo
due altre grandi band: Iron Maiden e Judas Priest.
L'annuncio
dell'abbandono di Bruce Dickinson è stato scioccante per tutti: non che Harris
non avesse le palle per proseguire da solo, ma come fare a rimpiazzare una voce
così particolare, per certi aspetti unica, divenuta nel frattempo leggenda, che
ha marchiato a fuoco più di dieci anni di classici degli Iron Maiden? La
scelta operata non fu in teoria sbagliata, sebbene rischiosa: optare per un
cantante così diverso come Blaze Bayley alla fine è stato coraggioso e
lodevole. Il problema era che Blaze, onesto artigiano di medio livello, non
aveva evidentemente la caratura per unirsi ed essere il front-man di una
formazione così leggendaria. "The X Factor", rilasciato nel 1995,
non era malaccio, con i suoi umori dark e con le propensioni progressive; esso
anzi era sicuramente meglio dei due fiacchi predecessori ("No Prayer
for the Dying" e "Fear of the Dark"), tanto che nel
tempo verrà persino in parte rivalutato. Ciò tuttavia non può farci dimenticare
tutti i malumori che quell'album si portò dietro al momento della sua uscita.
Da un
lato c'era l'effetto delusione che avrebbe innescato anche il miglior cantante
di questo mondo che non fosse stato Dickinson (che nel frattempo stava avviando
una carriera solista che si sarebbe rivelata persino superiore rispetto alla
produzione degli ex compagni). Dall'altro il lento e bolso Blaze generava un
effetto straniante, per certi aspetti surreale, come se band e cantante
suonassero a due velocità diverse. Certo l'album pagava lo scotto della
parabola discendente che gli Iron percorrevano da diversi anni, ma Blaze rimane
un cantante inadeguato a ricoprire un ruolo così iconico.
Ma
se Dickinson è insostituibile, cosa è Rob Halford, la voce dell'heavy
metal per eccellenza? I Judas Priest tentarono una via diversa
rispetto a quella battuta da Harris e soci, giocando la carta del giovane
talentuoso. Necessità di freschezza? Di energia? Di gioventù? Fatto sta
che, dopo anni di silenzio, quale successore del capolavoro "Painkiller"
(un compito ingrato, a ben vedere), viene dato alle stampe nel 1997
"Jugulator", un album particolare nella discografia dei
Nostri, perché oltre a vedere dietro al microfono Tim “Ripper” Owens,
mostrava un sound moderno e tagliente, ai limiti del thrash, quindi di una
pesantezza inedita per i Metal Gods.
Che
dire, i Nostri hanno puntato tutto sulla massima "nel dubbio, sii metal
il più possibile", ed infatti il lavoro fu salutato con entusiasmo da
critica e fan-base. Un effetto solo momentaneo, però, visto che
quell'album non supererà la prova del tempo ed oggi comprensibilmente gode di
scarsa considerazione. La colpa non è né dei Judas, che operarono con onestà,
coraggio e sufficiente ispirazione, né tanto meno di Owens, che fece il suo
sporco lavoro con grande professionalità e convinzione. Il problema è che non
c'era Halford: qui la mera storicità conta e i Judas senza di lui, e per giunta
con un cantante giovane con poca personalità e tanta devozione nel suo
predecessore, non potevano che non assomigliare ad una cover band di
loro stessi.
Scendiamo
di livello, scrolliamoci di dosso la storicità e andiamo a vedere sostituzioni
di sostanza con cavalli di razza come Michael Kiske e Geoff Tate.
Entrambe le formazioni, rispettivamente Helloween e Queensryche,
sembrano uscirne indenni. Come è possibile dover rimpiazzare da un lato la voce
che ha "inventato" il power metal e quella che dall'altro ha ispirato
il prog-metal? Gioco di squadra, evidentemente, è stata la tattica di entrambe
le compagini.
Gli Helloween
nel 1994 risalivano lentamente la china con il mediocre "Master of
the Rings", niente più che un album appena sufficiente, ma che ebbe il
merito di rassicurare i fan sul ritorno a sonorità più classiche dopo la
sbandata sperimentale di "Chameleon": un cambio di rotta che
non fece breccia nei cuori e che vedeva proprio Kiske come primo firmatarioa.
L'abbandono di Kiske fu dunque accettato, e questo per vari motivi: i fan
erano già "allenati", avendo già affrontato la dipartita di Kay
Hansen; il cantante, da parte sua, come solista non ha combinato
praticamente nulla, esprimendo una categorica volontà di allontanarsi dal
metal, e per questo dimenticarlo è stato più semplice. Non solo: bisogna anche
capire che Kiske presentava uno stile di canto facilmente emulabile, e il fatto
che i suoi cloni fossero proliferati nel corso degli anni novanta, ha fatto sì
che sentissimo di meno la sua mancanza.
C'è
infine da dire che la band seppe intraprendere una direzione artistica e
sociologicamente giusta, con dietro al microfono un focalizzato Andi Deris
che, sebbene non sia lontanamente paragonabile al suo predecessore, ha saputo
incarnare con simpatia e spirito positivo la "fase due" degli
Helloween che dal successivo "Time of the Oath" e soprattutto con
"Better than Raw" sapranno consolidare fama e notorietà.
Per
quanto riguarda i Queensryche, c'è da dire che, per quanto siano stati grandi
ed imprescindibili per la storia del metal, a partire dalla seconda metà degli
anni novanta non se li è più filati nessuno. Ad un certo punto, semplicemente,
la magia si è interrotta. A partire dal controverso "Hear in the New
Frontier" del 1997, con il quale la band di Seattle virò
inaspettatamente verso sonorità grunge, le gesta dei Nostri successivamente
echeggiarono in sordina, adombrate da altre mode, ed infine infangate dalle
squallide dispute legali per la contesa del "marchio" che hanno
accompagnato la separazione con Tate.
Magari
fino a dieci anni prima parlare dei Queensryche senza il loro storico singer
sarebbe stato inconcepibile, eppure l'ingresso di Todd La Torre nel 2013
con l'album "Queensryche" non provocò sollevazioni popolari,
tanto che anche dal vivo il giovane viene apprezzato senza nemmeno qualche
sospiro di nostalgia per chi lo ha preceduto. Un po' perché Tate in tutte
queste vicende non ha mostrato il suo lato migliore; un po' perché i
Queensryche non sono solo Tate ma un manipolo di professionisti con i
controcazzi. Inoltre l'altro album pubblicato nel medesimo anno dai Queensryche
di Tate (e si, si arrivò anche questo...) non fu un granché e poi, come si
diceva, il "marchio" era uscita un po' di scena e dunque dalla sfera
irrazionale del sistema percettivo del metallaro: situazione, questa, che
permise alla band di muoversi con libertà, senza combattere con pressioni e
pregiudizi.
Chiudiamo
questo giro di grandi nomi con i Savatage. All'indomani dell'uscita del
capolavoro "Streets: A Rock Opera", Jon Oliva decise di
cedere il microfono a Zachary Stevens, pur rimanendo a supportare il
fratello Cris da dietro le quinte, al piano ed alla scrittura dei brani.
"Edge of Thorns", pubblicato nel 1994, fu un album di
classe e dalla bellezza cristallina e la title-track diverrà uno dei
massimi classici della band, ma non poteva rivaleggiare con le prove recenti
dei Savatage, che a partire da "Gutter Ballet" avevano avviato
una fase virtuosa della loro carriera a base di sinfonismi e struggenti ballate.
È questo non facilitò certo il lavoro al buon Stevens, il quale aveva una
timbrica molto diversa da quella di Jon Oliva, ugola corrosiva e spaccata dalle
sigarette.
In
un certo senso i Sava si presentavano con un nuovo volto, più poetico se
vogliamo, che se certo non faceva dimenticare il passato, era l'espressione di
un tentativo di provare una via diversa, che negli album successivi, ed in
particolare con il capolavoro "Dead Winter Dead", avrebbe
acquisito consistenza. E la bella voce pulita di Stevens, i cui cori polifonici
diverranno un nuovo standard stilistico per i Savatage, ne sarà il
perfetto compendio, tanto che piangeremo la sua uscita dalla band all’indomani
di "Wake of Magellan". Sì, ci eravamo proprio affezionati ai
nuovi Savatage ed al loro cantante.
Problemi
di spazio ci impongono di fermarci adesso e dover rimandare nuovi ulteriori
spunti al post successivo: vedremo situazioni analoghe in band minori,
ma che offrono esempi significativi ai fini della comprensione del tema dai noi
trattato.
To
be continued...