Aaaahhh, finalmente! Sapevo che
prima o poi sarebbe dovuto accadere! Mica potevano continuare così, a sfornare album
meravigliosi uno dietro l’altro! Manco fossero gli Opeth…(per i quali abbiamo
dovuto aspettare addirittura il nono album, "Watershed", per averne uno soltanto “buono”).
Che poi i Moonsorrow non mi
stanno neppure troppo simpatici. Sarà per sta mania di suonare dal vivo sempre
con il volto e il corpo irrorato da succo di pomodoro (dai ragazzi, siamo nel
2017…basta con sti effetti da quattro soldi! Vi rendete ridicoli...); o sarà per la consuetudine di
Ville Sorvali di cantare a torso nudo non avendo il phisyque du rôle per farlo, con
quella panza da bevitore di birre e le spalle cadenti (certe cose, Ville, lasciale
fare a gente come Matthew Barlow che è meglio). O ancora per l'atteggiamento dello stesso Ville poco
rispettoso nelle video-interviste che ho visto in rete, nelle quali si presenta davanti al
giornalista di turno ostentando lattine di birra e ingollandosele senza ritegno mentre l'interlocutore gli parla (come se non potesse
aspettare dieci minuti per bersele…).
A cura di Morningrise
Ecco, a parte queste cazzate, tra
me e i Moonsorrow è stato amore a primo riff. Da subito mi hanno stregato, conseguentemente catturato e non
mi hanno mai deluso, tanto da farne una delle mie band metalliche preferite di
questo terzo millennio.
Piccola parentesi per chi fosse
vissuto negli ultimi 15 anni su Marte e non li conoscesse ancora: a costoro
possiamo dire che la formula vincente dei cuginetti Sorvali (Ville e Henri) è alquanto
semplice. Si parte da spunti e spirito bathoryiano, lo si intinge per benino nelle
elettrificate lezioni “circolari” impartite da Burzum, e si completa il tutto
con quelle corpose venature folk che ai finlandesi piacciono tanto (e che li
rende così diversi, e immediatamente riconoscibili, dagli altri vicini
scandinavi).
Il sound dei Nostri quindi
procede per accumulo di sezioni: ne parte una, poi viene intervallata da momenti ambient/folk, oppure da partiture da colonna sonora cinematografica, o ancora da arpeggi riflessivi su un
sottofondo di rumori “naturalistici”, fino all’incedere circolare della sezione
successiva. Sezioni che a volte riprendono stilemi black, altre volte
epic/viking, altre ancora classicamente heavy. Facile capire come si faccia
presto a sforare i 10-12 minuti per canzone, in cui il muro delle chitarre,
corpose ma taglienti assieme, sono accompagnate da una sezione ritmica potente
e caracollante e che rendono il tutto più “rotondo” e maestoso.
Semplici e complessi, diretti e progressivi, malinconici e trascinanti, sempre maledettamente epici e con un’aura tragica soverchiante, per chi scrive i Moonsorrow non hanno mai suonato
viking/pagan metal tout court (nonostante quello che si legge in rete sui siti specializzati). Forse solo nella loro prima accoppiata iniziale,
“Suden Uni” e “Vojmasta Ja Kunniasta” possiamo prendere per buona questo "incasellamento". Perché dal loro terzo full-lenght in poi,
l’enorme “Kivenkantaja”, hanno
inanellato una serie di carichi da 90 davvero incredibili e sfaccettati e per questo difficilmente etichettabili. Quattro
capolavori in fila, tutti fottutamente marchiati col su descritto
moonsorrow-style, ma uno diverso dall’altro, ognuno riconoscibile per un
atmosfera peculiare. E che, elemento
non trascurabile, crescevano enormemente con il numero dei giri nel lettore.
Non è un caso che spesso, dopo i primi due/tre ascolti, mi dicessi: hmmm,
questa volta non mi emozionano…questa volta hanno mezzo toppato. Poi la voglia
di schiacciare "play" ed ascoltarli di nuovo non mancava. Anzi, era quasi
un’impellenza. E alla fine, cogliendo le diverse
sfumature, i particolari degli
arrangiamenti, l’emozionalità del tutto, dovevo ammettere che di nuovo
avessero tirato fuori un album straordinario. Mi è successo così, ad esempio, per “Verisäkeet” (2005) e per “Varjoina Kuljemme Kuolleiden Maassa” (2011).
E speravo succedesse così anche
per “Jumalten Aika” (2016), ultimo nato in
casa Moonsorrow e settimo studio-album della band, il primo per il colosso
Century Media (i precedenti sei erano stati licenziati per l’ottima etichetta
finlandese Spinefarm).
Come prima cosa va detto che il concept che vi sta dietro appare un po’ stantio: è la “solita” storia per la quale, agli inizi del Tempo, gli Dei crearono gli Uomini ma, nel momento in cui quest’ultimi impararono a scrivere e a raccontare storie, inventarono a loro volta gli Dei finendo poi per rigettarli e fare a meno di loro. Ma la ricchezza e il progresso raggiunti, simboleggiati da Ferro e Oro, porteranno a Fuoco e Morte e alla conseguente fine dell'Età dell'Uomo. A questo punto il ciclo ricomincia…carina l'idea per carità, ma poco originale.
Ma il problema non è questo: sul versante musicale, dopo ripetuti e ripetuti ascolti, ho dovuto ammettere a me stesso che qualcosa non funziona, che alcune parti sono un po’ stanche; che gli epici cori di ”Ihmisen Aika”, o i suggestivi intermezzi cinematografici a-là-UltimodeiMohicani di “Ruttolehto” (peraltro bellissima) sono tutto sommato prevedibili; così come il grezzo mid-tempo viking di “Suden tunti” è privo di quello scatto di reni imprevedibile che in passato mi aveva sempre spiazzato.
Come prima cosa va detto che il concept che vi sta dietro appare un po’ stantio: è la “solita” storia per la quale, agli inizi del Tempo, gli Dei crearono gli Uomini ma, nel momento in cui quest’ultimi impararono a scrivere e a raccontare storie, inventarono a loro volta gli Dei finendo poi per rigettarli e fare a meno di loro. Ma la ricchezza e il progresso raggiunti, simboleggiati da Ferro e Oro, porteranno a Fuoco e Morte e alla conseguente fine dell'Età dell'Uomo. A questo punto il ciclo ricomincia…carina l'idea per carità, ma poco originale.
Ma il problema non è questo: sul versante musicale, dopo ripetuti e ripetuti ascolti, ho dovuto ammettere a me stesso che qualcosa non funziona, che alcune parti sono un po’ stanche; che gli epici cori di ”Ihmisen Aika”, o i suggestivi intermezzi cinematografici a-là-UltimodeiMohicani di “Ruttolehto” (peraltro bellissima) sono tutto sommato prevedibili; così come il grezzo mid-tempo viking di “Suden tunti” è privo di quello scatto di reni imprevedibile che in passato mi aveva sempre spiazzato.
Attenzione, non voglio
assolutamente dire che la band si sia adagiata sugli allori. Perchè se così fosse,
gli sarebbe bastato fare mosse più commerciali, comporre pezzi di 6-7 minuti,
passare alla lingua inglese (e invece il tutto è cantato rigorosamente in finnico) e poco più.
No, i Moonsorrow non si sono mai
“venduti”, non hanno mai optato per l’opzione più semplice. Sono sempre quelli
che, dopo due botti come i già citati “Kivenkantaja” e “Verisäkeet”, a quel punto potendo davvero "rilassarsi" un attimo, se ne sono
usciti al contrario con un disco complesso, coraggiosissimo e anti-commerciale come “Viides Luku – Hävitetty”
(2007), composto da appena due-dico-due
canzoni per 56 minuti di durata (per chi scrive, peraltro, il loro disco più
riuscito).
"Semplicemente" qua siamo davanti a
un disco che, seppur senza pecche evidenti, appare leggermente meno ispirato
del solito; che ripropone, rimescolandoli, tutte le caratteristiche del loro
sound (con una strizzata d’occhio maggiore per quello degli esordi rivisitato
con una produzione più moderna), come detto in maniera prevedibile, forse un
po’ troppo “calcolata”, senza avere quel quid (che fosse di epicità o di
sofferenza; di spirito guerriero o di tragica melanconia) che avevano segnato,
rendendoli unici, i dischi del passato.
Insomma, date retta a Metal
Mirror: questo è senza ombra di dubbio il peggior disco di sempre dei Moonsorrow.
Nonchè una delle migliori uscite del
2016…
Voto: 7,5
Canzone top: “Mimisbrunn”
Momento top: l’epica coda di “Jumalten Aika”
Canzone flop: nessuna
Etichetta: Century Media