Settembre ricade per due terzi nell'estate e per uno
nell'autunno, ma nell'immaginario collettivo è senza dubbio un mese più
autunnale che estivo. L'afa, la noia di agosto sembrano uno sfumato ricordo,
riflessi di luce opaca che vengono da un altro mondo. La città riprende a
brulicare, le strade si riempiono nuovamente, si torna a scuola.
Settembre
è un mese decisamente attivo, tonico, vibrante, nonostante, nel procedere del
"ciclo della natura" si stia andando verso il freddo, le
tenebre, il letargo. Le giornate si accorciano, ma proprio perché sentiamo che
la luce ci sta sfuggendo di mano, apprezziamo di più ogni singolo raggio di
sole. Da un punto di vista psicologico siamo quasi contenti di ripartire,
sebbene una lieve malinconia ci accompagni in questo cammino, perché le foglie
iniziano a cadere e il mondo inizia a tingersi di giallo, rosso, arancione.
Settembre
è il mese dei contrasti, un mese speciale, forse il più particolare e denso di
significati di tutti i mesi. Quando in redazione mi è stato assegnato il
compito di occuparmi di settembre e mi si è presentata l'occasione di parlarne
tramite la musica e le parole dei Type O Negative, mi sono sentito
eccitato all'idea, perché secondo me non vi è band che possa meglio incarnare
questo mese ricco di sfumature, malinconico ma vitale al tempo stesso.
"October
Rust", a scapito del titolo, fu per me un grande protagonista del
settembre di quell'anno, il 1996: mi ricordo ancora di quella splendida
giornata di inizio settembre (l’album uscì a fine agosto) quando montai sul
treno per recarmi al negozio di dischi e poi lo comprai insieme a "Theli"
dei Therion, altro "discone"
dell'epoca. Ero ancora troppo succube delle atmosfere criptiche/orrorifiche di
"Bloody Kisses" per farmi piacere fino in fondo il suo
successore, che trovavo più leggero e dispersivo. Capiamoci: fui rapito subito
dai brani di "October Rust", ma mi ci volle del tempo per comprendere
l'opera in tutto il suo potenziale: un album portatore di un sound che si scrollava di dosso le varie
irruenze hardcore e industrial per farsi romantico, avvolgente, introspettivo.
Emergeva,
in altre parole, l'anima cantautoriale
di Peter Steele, sempre meno interessato a provocare o a
trattare temi sociali, e meglio disposto a denudarsi ed aprire la propria anima
al suo pubblico. Le dolcezze dei Beatles confluivano nella maestosità
sabbathiana, si coverizzava Neil
Young (il padre dei mesti solitari)
ma si guardava a quella melanconia tipica della dark-wave meno
nichilista, che sapeva mettere insieme fragilità e disperazione, tristezza e
fanciullesco stupore. Dico darkwave ma penso ai Cure, quelli maturi di
"Kiss Me Kiss Me Kiss Me", "Disintegration" e
"Wish", album in cui miele e lacrime erano continuamente
mescolati e dove vi si potevano trovare brani dagli umori differenti, a volte
opposti, che passavano con disinvoltura dalla disperazione all'allegria, dalla
speranza alla rassegnazione, come "The Kiss" e "Just
Like Heaven", "Pictures of You" e "The Same
Deep Water as You", "Apart" e "Friday I'm in
Love".
La
band di Robert Smith non è mai stato un riferimento esplicito dei Type O
Negative (che non hanno mai fatto segreto dei loro gusti musicali), ma come non
ritrovarne l'attitudine, il mood,
quella capacità di mischiare pesantezza e leggerezza, fragilità e vigore,
voglia di smetterla e voglia di vivere? Mi riferisco a brani come
"Love You to Death", "Burnt Flowers Fallen",
"In Praise of Bacchus". E
poi c’era "Green Man", che iniziava con chitarre acustiche e
il canto degli uccellini, un brano fortemente autobiografico in cui (citazioni
della cultura celtica a parte) Steele guardava con nostalgia al periodo in cui
lavorava nel Parks Department.
Esiste del resto un teatro migliore di un parco per
assistere allo spettacolo di settembre?
Parchi, una panchina fra gli alberi, il crepitio di foglie secche calpestate in
una bella giornata di autunno: questa è l'immagine ricorrente che porta con sé
l'ascolto di un album come "October Rust", forse semplificando
visto che momenti assai "oscuri" i quattro ne dispensavano ancora,
zavorrati da quel passato ostentatamente gotico che d'altra parte li aveva
lanciati alla ribalta. Ma ben più complessa e contraddittoria è la materia
emotiva di un artista come Peter Steele, il cui bacino di influenze stilistiche
è vario (e poco metallico) e che va a comporre un mosaico che, provocazioni ed
eccessi a parte, è stato uno dei più particolari che il metal abbia mai avuto.
Quale migliore autore, dunque, per celebrare le
contraddizioni, la bellezza di settembre ed attraversare il varco di foglie
secche ed alberi variopinti che ci conduce all'autunno? "September Sun" è stata uno dei
due singoli di "Dead Again", l’ultimo album dei Type O
Negative (correva l’anno 2007). Il brano è stato editato anche in
versione breve (su di esso è stato girato un video), ma per il momento ci concentreremo
sulla versione originale della durata di 9:46.
Che
dire, parto dal presupposto che "Dead Again" non lo avevo nemmeno
ascoltato, perché i Type O Negative mi avevano da un po’ stufato. Avendolo
ascoltato in questi giorni per intero, posso dire che l'intuito non mi aveva
messo del tutto sulla cattiva strada: "Dead Again" (noto solo adesso
il palese riferimento a "Born Again" dei Black Sabbath)
non è un brutto album, ma non brilla per particolari guizzi di ispirazione e a
tratti dà l'impressione di essere un interminabile polpettone con i soliti
ingredienti e con le solite soluzioni. Fra le altre cose, viene resuscitato il
vecchio modus operandi che prevedeva l’assemblaggio, più o meno sensato, di più
brani in lunghe suite. A
differenziarlo dagli album precedenti (ma "Life is Killing Me"
già si avviava verso quella direzione), un ripescaggio significativo
dell'attitudine hardcore delle origini che non ho mai gradito (con persino
qualche growl sparso qua e là,
complice la recente riesumazione dei Carnivore): un indurimento dei
suoni ed un approccio "more rock
oriented" che, volendo, può costituire una sorta di chiusura del
cerchio, ma che, ahimè, non verrà coronato da un adeguato impegno a livello di
scrittura.
"September
Sun", in un contesto di dispersione, futilità assortite e taglia-e-cuci di solite frattaglie sabbathiane/beatlesiane, è un mattone
di quasi dieci minuti in cui possiamo trovare, condensati, tutti i cliché della band: l'incipit di
pianoforte e voce baritonale di Peter Steel, il ritornello elettrico con voce
aspra e raschiante di Kenny Hickey, l'interminabile corpo centrale con
prevedibile alternarsi di vuoti e pieni, e persino uno scambio di assoli (più
elaborati del solito) fra chitarra e organo, che tuttavia esplicitano la
pochezza tecnica dei Nostri. Ma il peccato maggiore è che si manifesta una
stanchezza compositiva ed esecutiva che giustifica quasi la fine della band,
che avverrà di lì a poco.
La
band, come noto, si scioglierà non per la consapevolezza di essere giunti ad un
capolinea artistico, ma in seguito alla morte di Peter Steele, dovuta ad un
arresto cardiaco per un'overdose che
puzza di suicidio lontano un miglio. La tristezza è trovare un artista in un
tale stallo creativo proprio nel momento in cui, fra le crepe di un mondo
interiore in disgregazione, avrebbero dovuto divampare le ultime fiammate di
talento, alimentate dalle contraddizioni della “fase terminale”, che di
solito è benzina sul falò sopito dell'ispirazione. La band invece mostra poche
idee, le solite, e suona stanca. Quasi come la copia sbiadita dei tempi che
furono.
Il testo,
da parte sua, è un chiaro riferimento ad un fatto della vita privata di Steele:
la separazione con la sua fidanzata, avvenuta qualche tempo prima. Un evento
che, a leggere le note biografiche del cantante, pare essere stato vissuto
decisamente male e sfuggito un tantino di mano, visto che il Nostro arrivò,
complice l'uso crescente di droghe, ad aggredire il nuovo compagno della
stessa: da qui la diffida, la successiva violazione della libertà vigilata e la
reclusione (un mese di galera). Eppure, sebbene il carico emotivo messo sul tavolo
fosse stato notevole, sicuramente il Nostro si è rivelato, come paroliere, più
incisivo altrove: le parole, i concetti sembrano uscirgli a fatica dalla mente,
evidentemente appannata dall’abuso di droga (ma io vi percepisco anche aria di
resa, una mancanza di motivazione e di energie).
Il
"sole di settembre" si limita a simboleggiare, come nel più
scontato dei copioni, il travaglio interiore del cantante: da un lato uno
sguardo nostalgico ad un passato radioso (il primo verso recita "September sun glowing golden hair"),
dall’altro la consapevolezza che questo stesso passato stia marcendo per
lasciare spazio a qualcos'altro (successivamente verrà detto: "September
sun rotted Flatbush porch").
L'ambivalenza settembrina finisce così
per ospitare i vettori contrastati di un faticoso percorso di accettazione e a
rappresentare dunque un presente in cui sono ancora vivide le tracce del
passato e nel quale, al tempo stesso, il processo di deterioramento è già in
atto. Del resto, come successo altre volte, per Steele dedicare un brano ad una
ex è un modo per apporre un sigillo finale su una persona ed un periodo
turbolento, per lasciarsi tutto alle spalle e procedere oltre.
Il video,
che ovviamente non fa testo perché confezionato a scopo promozionale, ci
racconta, sulla stessa falsa riga, la storia di una giovane coppia che si sta
separando: lei che va via di casa (fra l’altro sosterà su una panchina in un parco) e lui che si reca sul tetto per
suicidarsi. In realtà, una volta sopra, troverà i Type che suonano (ancora un
richiamo ai Beatles?) ed un bambino che provvidenzialmente, prima del salto
fatale, gli farà capire (forse) che il suicidio non è la soluzione migliore. Un
segnale di speranza che contraddice la tragica morte di Steele, ma non ci
stupiamo se pensiamo al nerboruto cantante come ad un uomo affetto da
depressione che per molti anni, a fasi alterne, ha pensato di farla finita ed
alla fine (direttamente o meno) ci è riuscito.
In
tutto questo c'è però uno scoop
e non c'entra nulla con settembre: i
Black Sabbath hanno rotto i coglioni. Attenzione a cosa sta dietro a
questa provocazione: i grandissimi e seminalissimi (e da noi amatissimi)
Sabbath saranno per sempre una fonte di influenza per il metal e per il rock in
generale. Il fatto è che negli ultimi cinque lustri, dall'esplosione dello stoner
in poi, è stato un inarrestabile crescendo di uso ed abuso di stilemi sabbathiani, in particolare nella loro
accezione settantiana: con lo sludge, il post-hardcore, il post-metal,
il drone-ambient di marca Sunn O))), fino al dilagare dei riff sabbathiani in un contesto di
ricerca che ha visto molte giovani band abbracciare il verbo doom-psichedelico. Ma ad ascoltare
questo "Dead Again", ormai vecchio di dieci anni, a sentire questi riffoni elefantiaci fra l'acido e
l'oppressivo (buona comunque la produzione, fatta finalmente di suoni vivi e
meno artefatti), mi rendo conto che l'era
del sudore e della sporcizia sonora sta forse per finire. Chissà, magari
per lasciare spazio a suoni più puliti, patinati e la riscoperta di una ricerca
che si fa tanto concettuale quanto melodica. Che sia questo (il presente che
stiamo vivendo) il settembre a
cavallo fra due ere musicali? Che Peter Gabriel (non Steele…) possa
divenire il nuovo nome di riferimento anche per il metal, sempre più orientato
verso un neo-progressive sofisticato e dai profili minimali? Il guru Steven
Wilson, con il suo ultimo lavoro "To the Bone",
sembrerebbe indicarci questa direzione...