Cambiamo fronte, e dall'Africa meridionale ci spostiamo nel Maghreb. Partiamo senza motivo alcuno dall'Algeria. Noi non giudichiamo i popoli se non in termini metallici e in questa sede ci limitiamo a segnalare un altro nonsenso politico di Wikipedia, ovvero: l'Algeria non era un paese libero fino al 2010, ma poi, con la Primavera Araba, finalmente il popolo si è ribellato, ed ha rieletto il presidente che c'era prima (!).
Sul piano metallico
invece, la situazione è stata definita “la silenziosa avanzata
dell'heavy metal algerino”, a differenza della situazione di altri
paesi, come Angola e Botswana, in cui si racconta di scene risicate ma
ribollenti.
Un tentativo di
censimento dei gruppi metal algerini ci fa individuare una
cinquantina di nomi, alcuni dei quali con solo un demo all'attivo,
una ventina con almeno un album.
Ci piace citare i due
casi più geniali. I primi, dovendo scegliere un nome, per non essere
confusi hanno scelto Dark Angel (e così siamo a tre, anche dei tizi
della Repubblica Ceca hanno avuto la stessa idea), ma poi per
eliminare ogni ambiguità si fanno chiamare nell'ambiente D.A.
Puntare sul nome a volte è tutto.
Se doveste trovarvi ad un
concerto death-grind in Algeria, occhio a non confondere i Vomit Gore
con i Vomygore (se ve ne intendete saprete naturalmente che i secondi
si sono sciolti e solo i primi sono attivi): il nome d'altra parte è
uno di quelli che attira, e che ti viene in mente subito, strano anzi
che non ci siano altri gruppi che lo scelgano simile. Peccato non sia
disponibile “L'Harem delle donne decomposte” dei Vomygore,
rimarrà sempre una curiosità inappagata.
I generi prevalenti sono
quelli estremi: qui c'è un solo nome di metal classico, a differenza
che nell'Africa del Sud.
Partiamo dal black
algerino, con i Barbaros. Direte: ha senso parlare di Satana dalle
parti di Allah? In teoria sì, perché nella teologia islamica Satana
e Lucifero ci sono, sebbene più in regime di libera concorrenza che
di contrapposizione. La cosa può comunque essere marginale, perché
il black che si mastica in Algeria riporta più alla poetica della
ferocia e dell'ombra che non al satanismo in senso religioso. Con
questo gruppo è parzialmente soddisfatta la prima delle aspettative
che avevamo menzionato nell'introduzione al metal africano: metal con
elementi etnici integrati.
I Barbaros riescono a
proporre un black grezzo, ma ordinato, con propaggini nel metal
classico, con un tappeto dissonante che ha la sua originalità. Le
ritmiche, a tratti alla Hellhammer, sono integrate con spunti di folk
arabo. Mayhem con miscela arabica. Già dalla grafica si respira un'aria
black esotica, dal motivo ornamentale laterale alle arborescenze del
logo.
Tornando alla questione
ideologica, Barbaros è come dire Vikings in Scandinavia,
ovvero sono gli indigeni pre-islamizzazione. Nonostante non si faccia
un riferimento esplicito alla religione islamica come “nemico”,
il carattere etnico-identitario del black metal si conferma anche in
questo caso. Stando alle loro dichiarazioni, Barbaros è da
intendersi non nel senso di Conan il Barbaro, ma nel senso di
Berberi, variante del nome (barbaroi) con cui i greci chiamavano
tutti i popoli dalla parlata per loro incomprensibile e probabilmente
anche rumorosa (i molesti blateranti, potrebbe essere tradotto). E'
un concetto troppo difficile da spiegare per esempio ai Manowar, ma i
lettori di Metal Mirror sono di ben altro spessore.
Se una delle anime del
movimento metal è quindi questa, non dissimile dai suoi analoghi
nordici, l'altra è un'anima che si propone come anti-tradizionale,
quantomeno se la tradizione è intesa come gusto dominante e valori
imposti. A questo modello fanno riferimento i gruppi dell'arco che va
dal metal classico al grind, come i Lelhahell (nome che più arabico
non si può).
Contestazione non
significa comunque avversione per la cultura madre, poiché gli
stessi Lelahell, consapevolmente o meno, riescono a incastonare
qualche melodia araba nel loro death-grind. Se il giudizio che
esprimono sulla musica popolare algerina è “dei ratti che
squittiscono dentro un tombino”, evidentemente però rivendicano e
fanno proprie le peculiarità musicali della loro terra,
valorizzandole con un nuovo registro.
Apprezzati nel circuito
death europeo, a Maggio risultano aver suonato anche a Milano. Dalla
loro biografia si ricava per esempio che il fondatore è al suo
quinto gruppo (e sono tutti nomi della nostra lista), per cui
probabilmente i veri animatori della scena nono sono così numerosi.
Da questo punto ampliamo quindi la nostra rete di conoscenze death, e
scopriamo anche i Devast, death acrobatico che coniuga tecnica e
brutalità. La batteria macina in avanti, le chitarre riavvolgono con
movimenti a gambero, e contrappuntano, con un suono stridulo, il
grugnito del basso. Due EP da ascoltare con attenzione.
I Litham poi suonano un metal
poliedrico, strutturalmente incentrato su soluzioni techno-thrash, ma
inquieto nello svolgimento. Non mancano neanche qui le melodie
arabiche, sia nei solismi che in alcuni riff portanti. Sprazzi
jazzati, così come nei Devast, avvicinano questo disco a tutta
quella serie di dischi thrash-death sperimentali che a inizio anni 90
rappresentò la faccia “riflessiva” ed esplorativa dell'estremismo
sonoro, come epilogo di un death metal che andava a esaurirsi e senza
continuità con un movimento black che partiva da altre esigenze
espressive. I Litham quindi riprendono quel discorso, tenendosi
lontani dalla forma-canzone, e vanno avanti per quasi 40' in “Dhal
Ennar” con fluidità e varietà.
Entropy: una galleria del
thrash, con uso versatile dalla voce che va dal growl al timbro
stridulo. Nessuna fretta di sfuriate, nessun imbarazzo nelle parti
strumentali, nessuna difficoltà nell'alternare i “vuoti” delle
parti acustiche o lente ai “pieni” aggressivi del pestaggio
thrash. Anni 80 e duemila fusi in una continuità spiazzante. Del
resto è normale che nelle sacche isolate la piega delle
contaminazioni proceda per auto-inoculazione, con il rischio di
produrre una serie di mostruosità genetiche, ma anche nuovi ceppi
funzionali.
Una delle lezioni di
questo viaggio africano, che prende corpo sempre più, è che chi
oggi vuol suonare thrash deve reiniziare dai paesi “minori”, o
comunque da una scena nuova che si sta dando da fare nella povertà
di mezzi e riscontri. I grandi “ritorni” delle vecchie glorie
europee, si fanno venire l'ernia per ricordarsi come facevano a
“pestare”, mentre questi sono già avanti, anche se a pezzi e
bocconi.
A cura del Dottore