Il
22 settembre uscirà "Deep Calleth Upon Deep", ultima fatica
discografica dei Satyricon. Non siamo certo quelli che la vigilia di
quella data si ritroveranno a grattare la vetrina del negozio di dischi, ma un
po' curiosi siamo, tanto più che siamo quasi sicuri che in autunno andremo a
vedere come se la caverà sul palco la premiata ditta Satyr/Frost.
Per
ingannare l'attesa, abbiamo rispolverato gli "album della vergogna",
ossia quelli appartenenti alla seconda fase della carriera dei norvegesi: fase
che li ha visti abbandonare i tratti stilistici che li avevano resi noti e
fatti apprezzare al mondo, ma che rappresenta fieramente quello che sono oggi
i Satyricon, non disposti affatto a rimangiarsi la parola. Lecito pensare che “Deep
Calleth Upon Deep” non si discosterà molto dalle coordinate in cui la band si è
mossa negli ultimi quindici anni.
I
Satyricon sono fra i nomi storici della gloriosa era del black metal norvegese degli anni novanta e con tre album si sono assicurati un posto a
vita nell'Olimpo del Metal Estremo.
Sul finire della decade d'oro e con la crisi che ha investito il genere, anche
loro tuttavia dovettero in qualche modo adeguarsi. Ed ecco che tirarono fuori
dal cilindro un lavoro come "Rebel Extravaganza": un album di
forte rottura con il passato (anche a livello iconografico) e per certi aspetti
avanti con i tempi (correva l'anno 1999). Esso costituì senz’altro un tentativo
importante per dare forma concreta ad una idea di post black metal che
doveva giocoforza essere plasmata, ma come album in sé non è da considerare un
capolavoro. A me per esempio non ha mai fatto impazzire, lasciandomi una amara sensazione
di incompletezza: la voglia di lasciarsi alle spalle il black metal
tradizionale era evidente, ma alla fine lo slancio non fu sufficiente per
approdare a qualcos'altro.
Questa
dinamica del "vado-non vado"
è rinvenibile anche negli album successivi, i quali, se hanno un difetto, è di
non mostrare abbastanza sicurezza, in quanto ogni volta la band sembra dover
fare i conti con i propri sensi di colpa e quindi sentirsi in dovere di compiere
parziali passi indietro che vanificheranno ogni salto in avanti, a prescindere
dalla direzione di volta in volta intrapresa.
"Rebel
Extravaganza" è stilisticamente ed attitudinalmente più vicino a quello
che seguirà rispetto a quello che lo ha preceduto, ma nell'immaginario
collettivo questo album si colloca ancora nella prima parte della carriera dei
Satyricon, quella virtuosa. Eppure, se si va a vedere il successivo "Volcano",
saranno più i punti di contatto che quelli di discontinuità, sebbene vi fosse
una differenza fondamentale: la presenza di un brano come "Fuel for
Hatred". Con questa "hit"
(peraltro una commistione riuscitissima fra black metal e "punk" motorheadiano) i Satyricon approdarono a
quel black'n'roll con cui sarebbero stati in seguito identificati: un
black metal piacione, semplice, da
molti visto come "musica da intrattenimento" che tuttavia rimarrà, da
un punto di vista meramente quantitativo, una parte minoritaria nella
produzione artistica dei Nostri, visto che mai il legame con il metal estremo
verrà reciso.
Questi
tre minuti e cinquantotto secondi sono il vero spartiacque nella
carriera dei norvegesi, almeno dal punto di vista dell'immaginario collettivo.
Nel 2017 ci sentiamo di affermare: peccato che la band non abbia creduto fino
in fondo in questo percorso, perché in definitiva è dell'altro lato della
musica dei Satyricon che non avevamo bisogno, ossia quella del revival di thrash metal, death metal e
proto-black metal che ogni volta ha zavorrato e reso banali i lavori dei
Nostri, non manchevoli certo di spunti interessanti. E così, come molte altre
carriere di "ex grandi" con le idee poco chiare, il cammino dei
norvegesi è divenuto il classico percorso tentennante fatto di continui passi avanti
ed indietro, tanto che ogni album (quattro, fra poco cinque...) può essere
descritto, rispetto al precedente, un pochino meglio ed al tempo stesso un
pochino peggio. Insomma, un girare intorno alle cose che sostanzialmente
manifesta una insicurezza ed una mancanza di forti intenti che ha
reso non esaltante il cammino di una band in possesso di un potenziale
artistico che poteva essere meglio sfruttato. Vediamo nel dettaglio se c'è
qualcosa da salvare...
"Volcano"
(2002)
Come
si diceva prima, molti sono i punti di continuità con "Rebel Extravaganza",
ma è bastata una copertina ed un titolo insoliti ed un paio di riff più orecchiabili per rendere "Volcano"
l'album dello scandalo. In verità il
prodotto rimane sostanzialmente estremo e, data la maggiore vicinanza con il
periodo d'oro della band, ancora assai ispirato e sicuramente meno
manierato/artificioso dei tomi successivi. A fare la differenza con il passato
è un approccio più semplicistico e diretto e nel complesso l’album lascia
di sè la medesima impressione del predecessore, ossia di genio sprecato, di
scelta non portata fino in fondo, di spunti interessanti spersi in un contesto di
banalità assortite inframezzate a fasi in cui la band sente la necessità di
tornare nella sua comfort zone, senza
però la magia di un tempo. Peccato, perché la chitarra estrosa di Satyr
è portatrice di una cifra stilistica non indifferente e il drumming impeccabile del compare
Frost è un bollino di certificazione di qualità che non tutte le band possono
sfoggiare. Così da un lato ritroviamo sterili sparate intramezzate da prolissi
rallentamenti di matrice noise/industrial, dall'altro ci dovremo sorbire
la fiera delle vecchie glorie del thrash degli anni ottanta. A
certificare lo stato confusionale vissuto dalla band, giunge il trittico finale
di brani in cui si rispolverano atmosfere epiche e chitarre zanzarose, fra l'altro con risultati
esaltanti. Ma anche quando si entra nel mood
giusto, i due sembrano comunque perdere la bussola per la strada abbandonandosi
a minutaggi troppo elevati per il quantitativo di idee a disposizione (è il
caso degli interminabili quattordici minuti di "Black Lava").
In questo contesto i colpi di genio (come per esempio l'idea di impiegare la
voce della talentuosa cantautrice norvegese Anja Garbarek, che si muove leggiadra
fra jazz ed hip-hop in contrasto con il metal furibondo dei Nostri) sono
stillati con il contagocce e non riescono ad elevare concettualmente una musica
che rimane sostanzialmente fisica. Allora ben venga "Fuel for Hatred",
che con la sua verve rock'n'roll porta quella freschezza di cui il black
metal aveva bisogno ad inizio millennio.
(Voto: 7)
"Now,
Diabolical" (2006)
Già
il titolo puzza di fica e questo poteva essere un buon segnale, facendoci
presagire l'uscita dell'album che avrebbe rotto gli ultimi indugi, lanciando
definitivamente il duo nell'empireo del "cool metal", ossia
quel metal da paraculi che si poteva già assaporare con il singolone "K.I.N.G.", sulla falsa riga di
"Fuel for Hatred". Invece anche "Now, Diabolical",
come il predecessore, mostra molti volti, forse troppi, consegnandoci una band
ancora più disorientata ed indecisa sulla via da intraprendere, in più
infiacchita da una ispirazione che va e viene. Nel complesso i Nostri mostrano
una maggiore attenzione per i temi orecchiabili e lo dimostra un trittico di
brani come la già citata "K.I.N.G.", "The Pentagram Burns"
e "A New Enemy" (con addirittura l'utilizzo di voce pulita ed atmosfere
dark-wave): brani scorrevoli, semplici ma efficaci, dove la chitarra
di Satyr mantiene nei riff uno stile
decisamente riconoscibile (a tratti evocando ancora quelle trionfali melodie
medievaleggianti delle origini) ed un Frost forse un poco sacrificato dietro
alle pelli, ma che, pur non esprimendo tutto il suo potenziale tecnico, mostra
di sapersi calare con maturità in schemi semplici e lineari, fra pomposi mid-tempo e momenti addirittura
ballabili. Il resto dell'album (salvo gli umori western di "Delirium") si appiattisce però sul
solito repertorio dal forte fetore old
school, dove qua e là spuntano dei graditi riferimenti ai grandi Celtic
Frost, andando ad anticipare quella che sarebbe stata l'involuzione successiva
della band.
(Voto: 6,5)
"The Age of
Nero" (2008)
Quasi
inaspettatamente i Satyricon tornano a pestare (con l'opener violentissima "Commando" che riscopre
persino il blast-beat), indurendosi e
tornando in scena con un album quadrato, compatto, asciutto, privo di
sbavature ed inutili dispersioni di energie. Alla luce dei difetti dei due
(tre...) album precedenti, questa potrebbe essere una buona notizia, peccato
che, imboccando questa strada, si siano perduti tutti quei guizzi di genio che
avevano illuminato, seppur a sprazzi, il cammino dei Nostri nel recente
passato. Un indurimento dei suoni nel 2008, inoltre, non coincide per i
Satyricon con un ritorno ai fasti del black metal degli anni d'oro, bensì con
il rafforzamento di quella manifestazione di intenti nel voler tributare quelle
band che, a cavallo fra anni ottanta e novanta, prepararono la strada al black
metal. Fra riffoni e doppia cassa in
stile Morbid Angel e sontuosi passaggi atmosferici ereditati dalla
visione artistica dei Celtic Frost e dei Bathory, "The
Age of Nero" si mostra un album solido e coerente, volendo un bel compendio
di musica estrema in cui poter trovare sia momenti più serrati che oscuri
rallentamenti, con qualche slancio progressivo che è tipico del modus operandi
dell'accoppiata Satyr/Frost. A tal proposito, da sottolineare i continui
richiami ad una band come i Coroner (la voce digrignante di Satyr li
ricorda spesso), cosa che non dovrebbe stupire più di tanto, visto che oramai i
Satyricon suonano una malefica forma di thrash metal, inasprita a tratti da
virate death/black, smussata in altri da passaggi più ragionati. Peccato che la
personalità della band, più che altro interessata a seguire le gesta dei propri
antenati, in questa operazione ci risulti un po' appannata. Il risultato è che
non emergeranno episodi degni di nota (potremmo citare solo "Black Crow
on a Tombstone", la più diretta ed orecchiabile) e che risulteranno
drasticamente ridotte quelle pulsioni punk e black'n'roll che nel nuovo corso
della band erano servite, talvolta, a smorzare la "seriosità” metal"
e ad offrire utili variatio per gettare sale su pietanze altresì un po'
insapori.
(Voto: 5,5)
"Satyricon"
(2013)
Quando
una band in fase discendente decide di dare il proprio nome al titolo di un
album, può significare solo due cose: o ci troviamo al cospetto di un
capolavoro capace di rilanciare un'intera carriera, oppure di artisti ormai
alla frutta e a corto di idee. Pur non essendo "Satyricon" un
passo falso totale, di sicuro non è quel capolavoro di cui la band aveva
bisogno per rialzare le quotazioni di un nome in altre epoche glorioso. Con
questo ottavo full-lenght Satyr gioca
la carta del sound lento ed
evocativo, ed in effetti percepiamo un vago ritorno alle atmosfere epiche ed
evocative degli esordi, a scapito dell'approccio thrash/death abbracciato più
recentemente. La chitarra solenne dell'introduttiva strumentale "Voice
of Shadows", con tanto di tamburo rituale a scandire i tempi, è il
biglietto da visita ideale per comprendere i contenuti di questo album di
approccio sostanzialmente doom, via via rischiarato da tastiere e chitarre
acide di estrazione seventies. La doppia cassa imperante richiama ancora i Morbid
Angel, come del resto la maestosità dei riff,
ed infatti spesso vengono in mente le manifestazioni più atmosferiche dell’Angelo Morboso. Sebbene il risultato sia
nel complesso un po' prolisso (poche idee, semplici e ripetute allo sfinimento),
si registra con piacere il ritorno di qualche episodio più facilmente
memorizzabile, come la ballata blues/western (?!?) "Phoenix",
marchiata dalla voce magnetica (molto in stile Nick Cave) del cantautore
norvegese Sivert Hoyem (già leader dei Madrugada), oppure i tre
minuti di "Nekrohaven" che ci riconsegna quei Satyricon
spacconi che un po' ci mancavano. Anche le divagazioni prog-psichedeliche
della lunga "The Infinity of Time and Space" non ci
dispiacciono, ma nel complesso l'album non è altro che l'evoluzione melodica e
dilatata del suo monolitico predecessore. Con esso la band dimostra di guardare
al popolo metallico piuttosto che ad un pubblico più ampio. Cosa che da un lato
fa onore al buon Satyr (fra l'altro ottimo il suo lavoro dietro al mixer), ma che dall'altro certifica un
disorientamento che di album in album si è fatto sempre più evidente.
(Voto: 6)
Eccoci
dunque a definire la scaletta di “Now, Parakul”, l'album che i Saryricon
avrebbero dovuto scrivere negli ultimi quindici anni di carriera:
"Fuel
for Hatred" ("Volcano")
"The
Pentagrams Burns" (Now, Diabolical)
"Black
Crow on a Tombstone" ("The Age of Nero")
"Phoenix"
("Satyricon")
"K.I.N.G."
("Now, Diabolical")
"Repined
Bastard Nation" ("Volcano")
"The
Infinity of Time and Space" ("Satyricon")
"Black
Lava" ("Volcano")
Insomma,
questa è la deludente storia di una band che, contrariamente ad altre realtà
coeve (penso ad Enslaved e all’ex Emperor, Ihshan), non è
riuscita dopo gli anni novanta a trovare la quadratura del cerchio. Peccato
(ancora una volta!), perché i Satyricon, prima di molti altri, avevano compreso
la freschezza e il potenziale di gradimento del black metal, l'appeal che come genere avrebbe avuto nei
circoli intellettuali e fra le nuove generazioni: l'idea di verniciarlo a nuovo
e renderlo più leggero e fruibile, appellandosi ai numi del rock'n'roll,
non era stata una cattiva pensata. Perché prima di tutti gli altri i Satyricon
avevano capito che con il black metal si poteva trombare: mi auguro che questi
quattro album siano serviti almeno a Satyr per rimorchiare un po' di più
a fine concerto (puzzo di ascelle di Frost permettendo...).