Metal Mirror ne aveva parlato in
occasione del post sulle barbe a confronto. In quel contesto ci si
era soffermati sulla grandissima figura di Robert
Wyatt, citandone l’importanza sia in relazione alle band di appartenenza (Soft
Machine e Matching Mole), che alla
sua lunga carriera post-incidente che lo ha costretto a vita sulla sedia a
rotelle.
Oggi torniamo proprio sui Soft Machine, la più importante band
della celebre Canterbury Scene
(assieme ai The Wild Flowers e ai Gong). E in particolare su un album unico
nella carriera dei Nostri. E cioè “Bundles”,
anno di grazia 1975.
“Unico” perché, dopo ben sette
dischi in studio senza chitarrista, l’unico superstite della line-up originale,
il tastierista Mike Ratledge, decise
di assoldare Allan Holdsworth. Fino
a quel momento la band aveva forgiato il loro seminale prog-rock/fusion
appoggiandosi alla voce e alla batteria di Wyatt, al basso di Kevin Ayers e al
genio di Ratledge. Ebbene si: avevano fatto a meno di un chitarrista, scelta
peraltro non isolata all’epoca.
Forse a tanti metalheads il nome
non dirà granchè, ma Holdsworth è considerato, da molta critica e da molti
colleghi, il più grande chitarrista del
suo tempo (e da alcuni il più grande di sempre, anche sopra a Berry e
Hendrix) sotto tutti i punti di vista: tecnico, compositivo e di “visione”.
Oggi il nostro Blog vuole rendere
omaggio ad Allan che ci ha lasciati
quest’anno, il 15 aprile, a 70 anni per un maledetto attacco cardiaco.
Per farlo, in mezzo a tutta la
sua sterminata discografia composta di innumerevoli collaborazioni, oltre che
di ben undici album solisti in studio, scegliamo appunto “Bundles” dei SM in
quanto in quel lontano 1975, ad appena trent’anni, il chitarrista di
Bradford espresse in modo mirabile tutte le caratteristiche che avrebbe
sviluppato nei 40 anni successivi di carriera. Vale a dire un uso della
chitarra incredibilmente innovativo, sia per il complesso intreccio di scale che per le sequenze di accordi usate. Potenza da un lato, gusto e inventiva dall’altro:
la chitarra di Hodlsworth esprimeva, anche alle orecchie di un profano
ascoltatore, tutto questo e molto altro.
Premetto che a me la fusion non
piace; dopo dieci minuti mi annoia, pur riconoscendo le incredibili capacità
tecniche di chi la suona ad alti livelli. Ma Allan no; lo guarderei suonare a
tempo indeterminato. E capisco che non poteva che essere proprio il jazz rock, rigorosamente strumentale,
il veicolo migliore per esprimersi appieno.
Allan
incanta, ammalia. Vedere quelle dita che si spostano sulla tastiera della
chitarra, producendo il suono che producono, è un’esperienza unica. E capisci
immediatamente che hai davanti agli occhi un musicista
speciale, un fenomeno assoluto. Un Maradona delle sei-corde che può nascere
una volta ogni 50 anni…
E in “Bundles” quanto detto
finora, se può apparire esagerato, trova riscontro già nei primi 20’ del disco,
formati dai cinque movimenti in cui è suddivisa la splendida opening track,
“Hazard profile”. Una canzone sensazionale, da far tremare i polsi per tecnica
e soluzioni melodiche. Tutte caratteristiche riprese in altri brani jazz-rock
del disco, dalla title track a “Land of the Bag Snake”, fino ad arrivare
all’incestuoso coacervo di chitarra, tastiera e sassofono dell’accoppiata “The
man who waved at trains” + “Peff”. Un
uno-due da far girare la testa anche al più sgamato dei rockettari cresciuti in
quei magici seventies.
Chiaro che per tutta la durata
dell’album, la fantasia e l’ego di Holdsworth dovrà scendere a patti con le
esigenze di una band che aveva già al suo interno musicista di prim’ordine tra cui due grandi compositori: il tastierista/sassofonista Karl Jenkins e il solito Ratledge. Ma il suo contributo, al di là
dell’aspetto di scrittura, è talmente evidente dal lato esecutivo che “Bundles”
per larghe parti è profondamente chitarrocentrico.
Però, in maniera fisiologica, la
collaborazione coi Soft Machine di Allan durerà il tempo di un amen e già dal
successivo full lenght, “Softs” (1976), il posto come chitarrista verrà
ricoperto da John Etheridge (altro “mostro”, peraltro) mentre il Nostro
debutterà proprio nel ’76 con il suo primo disco solista, “Velvet darkness”.
Per tornare all’aspetto “metal”
di Holdsworth, che giustifica l’esistenza stessa di questo post sul nostro Blog,
basti dire che il suo modo di fare musica ha stregato, e quindi influenzato,
tanti guitar hero del mondo metallico: da John Petrucci a Michael Romeo, da
Malmsteen a Tom Morello. E se ne potrebbero citare molti altri.
Eredità enorme quindi quella
lasciata da Holdsworth; e anche difficile da raccogliere. Non soltanto per
l’aspetto puramente tecnico (che già di per sé risulta alquanto “scoraggiante”
per chi si volesse cimentare a farlo) quanto per tutta l’abnorme conoscenza
musicale che vi sta dietro e che ha lo ha portato a realizzare musica unica e
avanti anni luce rispetto al resto della “concorrenza”.
A noi semplici fruitori non resta
che aspettare, magari “solo” per qualche altro decennio, un nuovo Allan Holdsworth…
A cura di Morningrise