Nei Depeche Mode la testa pensante è sempre stata Martin Gore, compositore principale, nonché artefice primo del sound della band inglese. Le sue prove
soliste sono sempre state pregevoli, ispirate e curate nel dettaglio, eppure
rispetto ai lavori dei Depeche Mode ad esse manca qualcosa: il carisma di Dave Gahan. Con le dovute proporzioni
possiamo affermare la stessa cosa per i fratelli
Gallagher degli Oasis (Noel, il chitarrista/compositore, e Liam, il front-man/interprete), ma anche per altri due fratelli inglesi, che
francamente ci interessano di più: Daniel
e Vincent Cavanagh degli Anathema, of course.
Nell'ottobre del 2017,
peraltro a pochi mesi di distanza dalla pubblicazione di "The Optimist", usciva "Monochrome", primo album solista di Daniel Cavanagh: un lavoro che io definirei inspiegabile.
Se pensiamo ad una carriera
solista come una boccata d'aria fresca,
un luogo dove poter respirare e liberarsi da altre personalità ingombranti (mi
viene in mente un Bruce Dickinson in
fuga dal dispotico Steve Harris...),
anche in questo caso ci chiediamo cosa abbia spinto il buon Daniel a muoversi
al di fuori del pianerottolo di "casa sua": una band che, più che un
progetto artistico, è una famiglia (non solo in senso figurato, dato che il
Nostro opera in una assoluta confort zone
in compagnia dei fratelli Vincent e Jamie, senza poi contare altri due
fratelli veri, nonché amici di vecchia data, ossia John e Lee Douglas).
Se, infine, una dimensione
solista è l'occasione per uscire fuori dalla luce accecante dei riflettori,
potremmo chiederci di quali riflettori stiamo parlando visto che gli Anathema
non hanno mai operato sotto grandi pressioni, agendo sempre liberamente,
cambiando continuamente pelle a seconda dell'ispirazione del momento, curandosi
ben poco di critica e pubblico (basti pensare all'incuranza con cui la band si
ostina a non riproporre dal vivo i brani più datati che sarebbero invece molto
graditi ai loro fan).
Insomma,
perché allora Daniel Cavanagh ha sentito la necessità di realizzare "Monochrome"?
Noi vogliamo tanto bene a
Daniel Cavanagh e lo apprezzeremmo anche in veste di neomelodico napoletano, ma l'identità di "Monochrome", che stentiamo ancora a definire, è più vicina
alla categoria "scarti degli
Anathema" che a quella di "imprescindibile espressione di una
personalità artistica altrimenti sacrificata".
Quello che troveremo in questa
prova solista, fra ballate
strappalacrime, spunti neo-prog
e dilatazioni ambient, è
perfettamente in linea con quanto gli Anathema hanno saputo proporre
nell'ultimo decennio, senza però quell'alchimia fra musicisti che la band ha
saputo trovare come ensemble, album
dopo album, a partire dal lavoro della rinascita "We're Here Because We're Here".
Non basta il consistente
contributo di Anneke Van Giersbergen
(protagonista in più di un brano), che, da parte sua, pare aver perduto per
sempre la bacchetta magica.
Capiamoci: è sempre un piacere imbattersi nella divina Anneke, che fra l'altro aveva già collaborato con gli Anathema
ai tempi di "Falling Deeper",
ma la splendida voce dell'olandese non riesce quasi mai a rianimare brani assai
ripetitivi e tappezzati dalle medesime frasi reiterate in modo quasi patologico
(vi capiterà di sentire così tante volte "Can you feel me?" che alla fine sarete costretti a domandarvi
di quali scompensi emotivi e carenze di affetto il Nostro possa mai soffrire…).
Daniel Cavanagh perde dunque
il confronto con la band madre e questo accade sotto molti punti di vista.
Intanto il Nostro si fa carico di tutti gli strumenti (fatta eccezione per i
già citati contributi della ex voce dei Gathering e per il violino di Anna
Phoebe) e la cosa non giova alla resa finale del prodotto che, alle
orecchie dell'ascoltatore, si offre come un’opera assai statica, sguarnita sul
fronte ritmico, priva di quelle policromie che sono tipiche degli Anathema e
che siamo soliti associare al song-writing
di Daniel.
Sebbene inoltre il Nostro,
consapevole dei propri limiti, riduca al massimo i suoi interventi dietro al
microfono, la sua voce, assai piatta e monocolore, non può rivaleggiare in
nessun modo con quella del fratello. Siamo infatti certi che con la voce di
Vincent questi pezzi, così anathemiani
nella vocazione e nell'impianto, avrebbero maggiormente brillato (una
convinzione che si accresce quando l’attenzione viene focalizzata sui testi, i
quali richiamano continuamente le smancerie
degli ultimi Anathema).
Si sente inoltre la mancanza
di una mano sapiente dietro al mixer:
laddove uno Steven Wilson o (meglio
ancora) un Tony Doogan erano
riusciti a dare profondità alla musica degli Anathema, la produzione di "Monochrome"
risulta penalizzata da un sound scarno
e da arrangiamenti poco elaborati che cozzano con le ambizioni. E per ambizioni
intendiamo brani anche assai lunghi (in certi casi di otto e nove minuti) che
da un lato sembrerebbero guardare alla magniloquenza pinkfloydiana, ma che dall'altro si rivelano mosaici mal composti
di passaggi di pianoforte (lo strumento ormai prediletto da parte del
musicista) e intarsi di chitarra che non rendono giustizia a chi ha apposto la
firma su un album monumentale come "The
Silent Enigma".
Peccato, perché a momenti si
ha come l'impressione che Daniel avesse voluto in qualche modo recuperare
certe atmosfere "universalizzanti" che appartenevano agli Anathema
prima che prendessero la sbandata per i Radiohead.
Purtroppo invece, il più delle volte, dovremo dolorosamente constatare come
anche buone intuizioni (che ci sono) non vengano poi adeguatamente sviluppate.
Un esempio potrebbe essere la lunga strumentale "The Silent Flight of the Raven Winged Hours": un brano che nei
suoi saliscendi sa a tratti coinvolgere (il montare della cassa, le linee di synth squisitamente prog che ricordano
certe prelibatezze dei tempi di "A
Natural Disaster"), ma senza mai sfociare in un climax convincente,
come se il brano si andasse a spegnere proprio in quei momenti in cui sarebbe
dovuto decollare.
A salvare l'intera operazione
(e forse a darle un senso), rimane l'opener
"The Exorcist", a cui
torniamo con amarezza ad ascolto terminato: l'album era infatti partito
decisamente bene con questa ballata-capolavoro
che avrebbe potuto trovare felice collocazione nel prossimo album degli
Anathema (vengono i brividi ad immaginaria cantata da Vincent), ma che il buon
Daniel ha voluto tenere tutta per sé.
E forse è proprio questo il
motivo per cui il Nostro ha deciso di gettarsi in un'avventura solista:
verrebbe infatti da pensare che questo brano, ad alto tasso emozionale, sia un
qualcosa di così profondamente intimo e personale che il Nostro lo abbia voluto
associare forzatamente alla sua sola persona. Cazzo - avrà detto - scrivo
da anni musica per gli Anathema, ma questo brano lo tengo tutto per me!
E come dargli torto....
"Can you feel me?
Can you see me?
Can you feel me now?
Can you see me somehow?"