“Honky Reduction” con i suoi ventisei brani non toccava i diciotto minuti di durata; “Frozen Corpse Stuffed with Dope”, trentotto brani in tutto, non arrivava a trentaquattro minuti. Venne poi “Altered States of America” che probabilmente ha battuto ogni record mettendo in fila novantanove tracce in solo ventun minuti. Con “Agorapocalypse”, ventotto minuti e mezzo per "solo" tredici brani, sembrava quasi di respirare. Se questa era la cifra stilistica espressa nei quattro “full-lenght” rilasciati dai “cyber-grinder” Agoraphobic Nosebleed nella loro carriera ventennale, cosa era lecito aspettarsi dall’EP “Arc”, composto da soli tre brani?
In verità “Arc”, contro ogni previsione, si avvicina alla mezzora, sfoggiando un sound che poco o nulla ha a che spartire con l’universo espressivo del grind, percorrendo piuttosto in senso opposto il range delle sonorità estreme per approdare alla lentezza ed alla dilatazione di una opprimente e malata forma di sludge-doom: un’auto-negazione stilistica che non è altro che l’ennesima beffa targata Agoraphobic Nosebleed.
Chi del resto conosce la band americana sa che da essa può aspettarsi qualsiasi cosa. Se il grindcore già di per sé nasce sotto il segno della provocazione, immaginatevi cosa possa accadere se di questo medium espressivo si voglia fare un uso scellerato e fuori da ogni convenzione. Prima di “Altered States of America” (anno 2003) non era concesso immaginare che fosse possibile pubblicare un album di un centinaio di tracce dalla durata complessiva di ventun minuti (una media per traccia di tredici secondi, giusto per dare un’idea), e che un prodotto con queste caratteristiche fosse qualcosa di ascoltabile: un putiferio di schegge sonore infarcite di campionamenti e drum-machine sparate a velocità insostenibili che invero poteva ricordare, dal punto di vista concettuale, certi esperimenti avanguardisti dei Residents (si abbia in mente “Commercial Album”, quaranta tracce per appena quarantadue minuti di durata complessiva).
Del resto Scott Hull, colui che sta dietro al progetto, non è uno qualunque: nome di culto negli ambienti del grindcore a stelle e strisce (ha militato anche in Pig Destroyer, Japanese Torture Comedy Hour e, solo per lo spazio di una collaborazione, nei seminali Anal Cunt), Hull è uno di quei musicisti che incarnano l’accezione più nobile del grindcore, da intendere come forma oltranzista di avanguardia sospesa fra metal e free-jazz. A conferma dello spessore del nome in questione, basti guardare alla sezione “influenze” della sua pagina Wikipedia, dove possiamo trovare nomi mutuati dal thrash sperimentale (Voivod), dallo sludge/alternative metal (Melvins) e persino dal jazz-fusion (John McLaughlin e Allan Holdsworth).
Egli è da sempre anima e corpo degli Agoraphobic Nosebleed, occupandosi di chitarra, basso, programming e produzione. Attorno a lui, nel corso degli anni, si sono avvicendati vari collaboratori (fra cui spicca il nome di Jay Randall, che ha militato per un certo periodo negli Isis). E quando la formazione pareva stabilizzarsi con quattro membri, ecco che spuntò l’idea di una tetralogia di EP dedicati a ciascuno di essi, di cui “Arc”, pubblicato nel 2016, è il primo della lista, nonché l’unico dei quattro ad oggi rilasciato. La protagonista dell’operazione è la cantante Katherine “Kat” Katz (oggi non più in organico), chiamata a rappresentare un mini-concept avente come oggetto la malattia e la morte della madre.
I fan della band, tuttavia, avranno almeno un paio di motivi per rimanere delusi dalla release: il primo è che questo lavoro poco ha in comune con quanto espresso nei lavori precedenti, preferendo percorrere, come si diceva, territori sludge-doom, più vicini ai Salome, la precedente band della Katz. Il secondo è che la genialità compositiva che aveva animato in passato i lavori della band ha ceduto il testimone ad un tipo di sound decisamente meno originale. In altre parole potremmo sostenere che da campioni del grind, gli Agoraphobic Nosebleed si sono tramutati in ordinari amministratori di sonorità doom e sludge. Ciò tuttavia non toglie nulla alla forza emotiva e disturbante di un lavoro che non perde un grammo di intransigenza rispetto ai lavori del passato.
C'è anzitutto la voce della Katz, che in niente possiamo ricondurre ad un esemplare del gentil sesso: uno screaming frustrato che ben si sposa con le tematiche trattate su disco. Musicalmente Hull dà sfogo a tutto il suo amore per il riffing sabbathiano, che certo ha avuto modo di emergere anche in passato, ma che a questo giro si pone al centro di tutto. L’incedere fangoso e l’ugola riottosa della Katz richiamano continuamente alla mente gli Eyehategod in un quadro deprimente che viene inappuntabilmente incorniciato da drum-machine e basso distorto.
Piace inoltre poter scorgere una struttura su cui si possono disporre gli ingredienti di questa pietanza molesta: cosa che ci si poteva aspettare da chi ha saputo dare un senso ad album composti da tracce dalla durata di pochi secondi. Lo si capisce dall'oculatezza con cui sono disposti i cambi di tempo dell’opener “Not a Daughter”: un pugno in faccia di sette minuti che tradisce, fra le sue pieghe, persino le fattezze di un ritornello. Con “Deathbed” (che di minuti ne dura otto e mezzo) il passo rallenta e, complice un growl ottenebrante, l’atmosfera si fa ulteriormente asfissiante, con riff granitici che passano in rassegna le svariate sfumature dell’universo sabbathiano, dai Melvins ai Celtic Frost. Ed infine “Gnaw”, un delirio post-hardcore di quasi dodici minuti in cui possiamo individuare tre sezioni, intervallate da magmatiche pause di feedback ed angoscianti campionamenti evocanti la freddezza di una camera di ospedale.
A dare spessore all’operazione sono infine le liriche laceranti della Katz, che a pieni polmoni descrive il suo delicato rapporto con la madre nella fase terminale della sua malattia, fra rabbia e dolore, sensi di colpa ed inadeguatezza, desiderio di distacco e paura per lo stesso.
Da qui non passa la Storia, né siamo al vertice della produzione degli Agoraphobic Nosebleed, ma nella nostra rassegna sui migliori EP del metal, “Arc” costituisce un ottimo esempio di contro-cultura: una provocazione al quadrato in cui una realtà che già di per sé nasce per destabilizzare, sceglie scientemente di auto-flagellarsi nel nome della libertà di espressione. Più oltraggiosi di così...