In tempi in cui il depressive black metal ancora doveva nascere, c’era chi cantava “in nome della sofferenza”. Costoro erano gli Eyehategod, che sarebbero passati alla storia come una pietra angolare dello sludge, ma che in un’epoca in cui le etichette non erano poi così importanti, si imponevano fra i più efficaci alfieri del disagio nel baldanzoso mondo del metal degli anni novanta.
Cos’è poi lo sludge? La versione sudista del doom?? La versione “fangosa” del metal??? Ma fatemi il piacere! Come sotto-genere ha davvero poco senso lo sludge, quando nei fatti gli Eyehategod erano decisamente avanti nei tempi: lenti, sporchi, slabbrati, dilanianti, dissonanti, anni prima che si imponesse il post-hardcore come genere a sé stante. Perché dunque perderseli visto che passano in città un tranquillo giovedì sera?
La notizia più sensazionale, tuttavia, è che fra il pubblico ci sono delle ragazze (quegli “strani esseri”...). Pensavamo (speravamo, quasi) che fosse una serata fra di noi, in cui si potesse scorreggiare in libertà, ruttare senza sensi di colpa, circondati dagli individui più brutti, trascurati, puzzolenti, disadattati della città. E certo, credetemi, costoro non mancheranno affatto all’appello, ma a stupirmi è la discreta quantità (direi un buon 8% del totale) di membri del gentil sesso, di cui alcuni in possesso di un innegabile sex appeal. Cioè, belle ragazza a vedere gli Eyehategod: incredibile ma vero!
Aprono la serata i Gurt, una di quelle band su cui tacere è bello. Una riflessione però la inducono anche questi inglesotti di poco conto. Chi ha inventato la ruota è stato un genio e ha prestato un grande servizio per l’umanità; tuttavia se oggi vediamo una ruota per la strada (e ne vediamo milioni quotidianamente) non ci facciamo nemmeno più caso, e mai ci fermeremo un attimo per esclamare “toh, ecco una ruota!”. La stessa cosa si può dire per l’universo post-sabbathiano: tanto di cappello per Tony Iommi, che ha inventato i riff più seminali dell’heavy-metal; quegli stessi riff, tuttavia, li abbiamo sentiti così tante volte nella nostra vita che oggi non li apprezziamo quasi più nel loro reale valore, in particolare se ce li ripropongono un gruppo qualsiasi come i Gurt. Ma il problema più grave della band sta nello screaming asettico di un cantante che non brilla neppure per simpatia: barba e birra di ordinanza, il Nostro monta sul palco quasi annoiato, guardandosi attorno perplesso, apparendo più che altro interessato ad individuare fra il pubblico possibili prede femminili da lavorarsi dopo il concerto. Per il resto ci troviamo alla sagra delle banalità sabbathiane in salsa sludge (quindi suoni sporchi e zero virtuosismi): fortunatamente il tutto si conclude in mezz’ora scarsa.
Decisamente meglio i Dvne, che, definiti “progressive sludge” (?!?), sono quel “tutto-e-niente” che oggi va tanto in voga. Ma meglio il “tutto-e-niente” dei Dvne che il niente dei Grut, questo è poco ma sicuro. Gli scozzesi non si fanno mancare niente: prog, post-rock, stoner e death-metal sono gli ingredienti di una proposta che può contare su passaggi davvero vincenti. Il front-man, sebbene abbia un pulito atroce, sfoggia una buona tecnica alla sei corde, dando l’impressione del classico bravo ragazzo super-dotato che, laureato in economia ed impiegato nel dipartimento finance di una multinazionale, accoppiato da anni con la più bella ragazza del liceo ed ex prodigio dalla squadra di rugby del quartiere, ha anche il tempo di imparare a suonare la chitarra elettrica e portare avanti una band che potrebbe anche affermarsi nel sottobosco estremo del metal odierno. Bravini, ma niente in confronto a quanto combineranno gli headliner: gente, montano sul palco gli Eyehategod!
Adoro l’Underworld, locale raccolto e dal fascino squisitamente underground, ma esso ha un fondamentale problema: ha una cazzo di colonna in mezzo alla sala, proprio davanti allo stage, una cazzo di colonna che ti costringe a stare o a destra o a sinistra rispetto al palco, limitandoti non poco la visuale. Stasera tuttavia quella colonna ha avuto una valenza quasi concettuale, sottolineando i due aspetti speculari dell’arte proposta dalla band di New Orleans: da un lato il doom liturgico di Jimmy Bower, dall’altro il punk iconoclasta di Mike Williams, quasi due film diversi che vedremo proiettati in contemporanea per tutta la serata.
Bower ha il classico physique du role del musicista sludge: stazza imponente, barba sbiancata, sudore/fetore, maglietta dei Black Sabbath, fischione in bocca e birra sempre a portata di mano poggiata sull’amplificatore. Mike Williams, smilzo e sghembo, è invece uno di quei classici personaggi “voglia di studiare zero, voglia di lavorare anche meno” che senza la musica chissà dove sarebbero oggi: un pupazzo di droga per cui la droga ormai, lungi dal far male, sembra costituire l’elemento naturale di sopravvivenza. Un po’ come Iggy Pop e l'Ozzy Osbourne di qualche tempo fa, dei quali il Nostro pare essere una riuscita via di mezzo. Un dualismo che viene rappresentato dai due ciondoli che pendono dal suo collo: una catena con il lucchetto, molto punk-style, ed un grande crocifisso à la Black Sabbath. La sua voce forse non buca più come venti anni fa, ma la prestanza scenica è per lo meno conturbante.
Il Nostro si presenta sul palco come una persona normale: non è certo il ritratto della salute, ma parla, sorride, fa battute, interagisce come fanno le persone normali. Dopo appena tre canzoni sembrerà invecchiato di trenta anni: si aggrappa al microfono, caracolla, sputa continuamente sul palco, la testa gli ciondola senza posa e quando la alza, nel suo volto stravolto, nei suoi occhi vuoti, si dipinge l’inferno di un tossico. Ma gli si vuole bene lo stesso, e poi, a dirla tutta, da un certo punto in poi le sue doti di front-man conteranno ben poco, visto che l’azione si trasferirà dal palco alla platea con energumeni ubriachi che si gettano come pioggia dal palco e che vengono sballottati a destra e a sinistra (non si capisce secondo quali leggi della fisica, visto che non si parla certo di pesi-piuma), mentre il pogo violento impazza un po’ dappertutto, fra nasi sanguinanti e pancioni pelosi.
Il Nostro si presenta sul palco come una persona normale: non è certo il ritratto della salute, ma parla, sorride, fa battute, interagisce come fanno le persone normali. Dopo appena tre canzoni sembrerà invecchiato di trenta anni: si aggrappa al microfono, caracolla, sputa continuamente sul palco, la testa gli ciondola senza posa e quando la alza, nel suo volto stravolto, nei suoi occhi vuoti, si dipinge l’inferno di un tossico. Ma gli si vuole bene lo stesso, e poi, a dirla tutta, da un certo punto in poi le sue doti di front-man conteranno ben poco, visto che l’azione si trasferirà dal palco alla platea con energumeni ubriachi che si gettano come pioggia dal palco e che vengono sballottati a destra e a sinistra (non si capisce secondo quali leggi della fisica, visto che non si parla certo di pesi-piuma), mentre il pogo violento impazza un po’ dappertutto, fra nasi sanguinanti e pancioni pelosi.
Il set, fra classici ed estratti dai lavori più recenti, è un’onda melmosa dall’andamento sinusoidale, un flusso elettrico dove i pastosi riff di Bower sono pugni in faccia assestati con una certa intensità. Inutile segnalare l’esecuzione di un brano piuttosto che un altro: senza voler niente togliere al canzoniere degli Eyehategod (non me ne vogliano i fan sfegatati), ma quale potrebbe mai essere, vi domando, la differenza fra la peggiore e la migliore canzone degli Eyehategod? Ed affermando questo non voglio affatto sminuire la portata artistica dei Nostri, ma semmai celebrare un'attitudine che stasera ha prevalso su tutto il resto: un carisma, un magnetismo che sono propri solo dei veri campioni. La band non si impegna nemmeno più di tanto ad aizzare il pubblico, il quale per tutta la durata dell’esibizione si mostrerà su di giri e pronto a combinare cose pazze. È la musica che funziona, lo stesso Williams pare subirla piuttosto che esserne l’artefice: continuamente scosso dai colpi della batteria (ottima, per l’altro, la sezione ritmica) il Nostro agisce reagendo, spegnendosi durante gli asfissianti rallentamenti, riaccendendosi in occasione delle brusche accelerazioni, per poi smaterializzarsi nuovamente nei feedback della chitarra e negli svariati “vuoti” che la musica degli Eyehategod sa creare. Fino a scomparire definitivamente nella travolgente jam strumentale, dove tornano protagonisti Bower e il lato più sacrale del doom (momenti sublimi per le orecchie del sottoscritto).
Ci sarà tempo solo per un bis, ma francamente orecchie, braccia e gambe ne avevano già avuto abbastanza da un pezzo: degna di nota rimarrà la soddisfazione di portarsi sotto al palco e stringere la mano moscia di un disponibile Williams, che ai miei complimenti gridati da spettatore esaltato risponde con una espressione fra il sorpreso e il terrorizzato, la stessa che hanno certi senzatetto quando porgi loro due spiccioli per l’elemosina...
Old school rules…