"Parlare di Musica è come ballare di architettura" Frank Zappa

4 nov 2019

COSA E' METAL E COSA NON LO E': I DAUGHTERS NON LO SONO, MA QUANTO FANNO MALE! LIVE AT ISLINGTON ASSEMBLY HALL, LONDON (31/10/2019)


Ci si è spesso chiesti in redazione cosa possa essere definito metal o cosa no, se per esso si debba intendere un insieme di suoni pesanti e minacciosi, come i buoni Black Sabbath iniziavano già ad insegnare nel 1970 (dando di fatto l'avvio, da un punto di vista stilistico, alla stagione metal), oppure una attitudine ben precisa e, soprattutto, la consapevolezza di essere e suonare metal. 

Una band come i Daughters, che pure nasceva dalle ceneri degli As the Sun Sets (descritti come grindcore), non può essere inserita nel calderone del metal, per attitudine ma soprattutto per suoni, men che meno la reincarnazione post-reunion del 2013, che iniettava in un assalto frontale a base di noise-rock ed industrial certe atmosfere più tipicamente no-wave.

E allora perché parlarne? Perché Metal Mirror, per missione, da sempre ama invitare i propri lettori ad ampliare le proprie vedute, vuoi mai i più annoiati trovino nuovi stimoli. E noi di Metal Mirror siamo molto annoiati: con tanta voglia di freschezza (quella freschezza che perlomeno il metal non ci sta dando in questo periodo storico) siamo a parlarvi oggi dei Daughters, poco metal nei fatti, ma con qualche argomentazione di indubbio interesse per i cultori del metallo. 

31 ottobre, la Notte delle Streghe. Stasera all'Islington Assembly Hall si scorgono magliette di Sunn O))), Immortal e Behemoth, a dimostrazione che i Daughters sanno evidentemente stuzzicare i palati di chi è solito masticare metal estremo, ed in particolare quello di ultima generazione. 

A fare da spalla troviamo i veterani Jeromes Dream, dicono gruppo seminale in ambito screamo. Ma se in quarantuno anni di esistenza non ho mai ascoltato screamo un motivo ci sarà stato. Il problema, per quanto mi riguarda, sta proprio nelle basi del genere, in particolare nell’uso scriteriato che viene fatto della batteria, che detta sistematicamente il tempo che non richiedi: o troppo veloce o frenata nelle continue stoppate (e io i ritmi singhiozzanti li perdono solo a Pete Sandoval), tanto che i momenti più belli sembrano proprio essere quelle lunghe fasi in cui il batterista si cheta, lasciando fluire le distorsioni delle chitarre, quasi poetiche nel loro incedere dissonante. 

Vige il linguaggio della destrutturazione: i Jeromes Dream offrono anche soluzioni accattivanti, le quali tuttavia, private di quella compostezza che il linguaggio sabbathiano è in grado di dare ancora a realtà alternative come Godflesh e Neurosis, risultano ben ostiche all’orecchio del metallaro. La musica dei Jeromes Dream implode così, senza strutture apparenti, fra math-rock, scorie grind e il gracchiare monotono del cantante/bassista Jeff Smith. A proposito: si legge su Wikipedia che i Nostri divennero un gruppo di culto proprio perché Smith cantava dal vivo senza microfono, e forse proprio i problemi alla gola del cantante comportarono lo scioglimento della band nel 2001. Il ritorno sulle scene nel 2018, dunque, è nel suo piccolo un evento, considerato che dopo quasi venti anni i Jeromes Dream si sono ripresentati sui palchi di Stati Uniti ed Europa supportando umilmente giovani musicisti che in essi hanno probabilmente visto una fonte di ispirazione. 

Oggi sulle assi campeggia un microfono, cosa che ci fa pensare che Smith si sia ravveduto in merito ai riguardi da dare alle proprie corde vocali, ma in compenso egli volterà le spalle tutto il tempo al pubblico, confermando che certo la band non vuole assolutamente scendere a compromessi ed accattivarsi le simpatie della gente. Beh, diciamo che ho avuto la conferma che lo screamo non mi piace. 

Passiamo ai padroni di casa, quei Daughters che registrano un prevedibile sold out. Prevedibile perché, insieme ai dublinesi Girl Band, la band sta riscuotendo un successo crescente nei salotti della musica bene, divenendo il nome del momento in fatto di sonorità che incarnino il mal-de-vivre della contemporaneità (e stando a queste raffigurazioni artistiche, sembrerebbero tempi davvero duri quelli che viviamo). 

I Nostri si presentano in sei sul palco (con l’aggiunta di un secondo chitarrista e di un secondo percussionista, chiamato a curare anche le parti di elettronica), a dimostrazione che la band vuole mantenere sulle assi la ricercatezza del suo suono, piuttosto che puntare esclusivamente sull’impatto, che peraltro non mancherà. Quanto al front-man Alexis Marshall, mi aspettavo un cranio rasato, pelle, ossa e nervi tesi, invece ci si para di fronte un dandy in completo nero e capello leccato: questa inaspettata eleganza, associata alla follia delle sue gesta ed all’attitudine auto-distruttiva, mi farà venire in mente il Joker di Joaquin Phoenix. Sarà lui il personaggio chiave della serata, intrattenitore indispensabile per una compagine di musicisti che preferisce concentrarsi sugli strumenti. 

Con la doppietta iniziale “The Reason They Hate Me”/“The Lord Song” sono subito dolori, con un pogo che si scatena da subito violentissimo e con Marshall già nel secondo brano fra la folla, trascinato in un rovinoso stage-diving, cosa che avverrà molto di frequente (è a dir poco surreale vedere un uomo in completo che viene trascinato, rivoltato e sobbalzato da un lato all'altro del locale come l'ultimo dei derelitti punk). Ma anche sul palco il Nostro non scherza: sembra avercela con il microfono che viene letteralmente seviziato: sventolato in aria, sbattuto a terra, percosso violentemente contro testa e petto, persino cosparso di quella bava filamentosa da conato di vomito che il cantante ad un certo punto abilmente produce ficcandosi le classiche due dita in gola, forse per dare un suono più ovattato e vischioso alla voce. Più che un cantante Marshall è un decantatore, e un po’ per la stanchezza, un po’ per le condizioni in cui viene ridotto il microfono, quella voce si farà di brano in brano sempre più alterata, unendosi tragicamente alla tensione montante delle chitarre: un temibile muro di nevrosi ispessito ulteriormente dalle bordate di elettronica e dai colpi micidiali del comparto ritmico, un sound sfaccettato in bilico fra tentazioni avanguardiste, rumor bianco e furia hardcore. 

La scaletta si incentra principalmente sull’ottimo “You Won’t Get What You Want” (pubblicato l’anno scorso), da cui vengono estratti addirittura otto pezzi. I rimanenti quattro in scaletta sono invece pescati dall’album omonimo del 2010: ottime, al riguardo, le riproposizioni della bombastica – quasi ai limite del nu-metal korniano – “The Hit” e della velocissima “Our Queens (One is Many, Many are One)”, che mostra il lato più selvaggio e “in your face” della band. 

Non saranno tuttavia soltanto ritmi martellanti e chitarre sferraglianti: i Nostri si concedono anche un paio di parentesi di relativa calma. Una è rappresentata dalla lunga ed ipnotica “Satan in the Wait” (uno dei pezzi forti dell’ultimo album) dove Marshall sfoggia movenze sciamaniche che lo avvicinano al migliore Nick Cave. L’altra è la semi-balladLess Sex” (nonché singolo), nella quale il cantante, nonostante gli ingenti sforzi (sia vocali che fisici con le continue scorribande fra palco e folla), è ancora in grado di controllare un bel pulito in stile Dave Gahan. Citiamo il cantante dei Depeche Mode non a caso, in quanto verrà spesso in mente assistendo al progressivo imbarbarimento di Marshall durante il set: partito in versione gentleman con completo nero e capelli pettinati indietro, ce lo ritroveremo a fine concerto con l’espressione stravolta, la capigliatura scomposta e a torso nudo (con un vistoso tatuaggio sul petto a svelare la sua natura bestiale). 

Con l’apocalittico finale di “The Ocean” il concerto termina dopo appena un’ora di musica, che, data l’intensità dell’esibizione, basta ed avanza. Marshall, oramai in un bagno di sudore, ciondola privo di energie, si concede un ultimo tuffo nel pubblico, per poi risalire sfiancato sulle assi, mentre le luci blu lo incorniciano in pose eroiche fra i droni e i feedback delle chitarre, anch’esse esauste. Il “toc” violento del microfono che viene scaraventato a terra un’ultima volta, il cantante che volta le spalle e si congeda senza salutare, segnano la fine senza appello dell'esibizione. 

Forse questo non è metal, ma quanto ci hanno fatte male stasera i Daughters!