“Thrash Till Death” cantavano i Destruction. Testualmente: “Colpisci fino
alla morte”, che può essere tranquillamente tradotto come “Thrasheggia
fino alla morte” (o anche "finché puoi", aggiungiamo noi). Interpretazione avvalorata da un testo che, senza troppi veli,
va ad inneggiare con fierezza alla solita fratellanza metal. Con “Thrash Till
Death” si apriva “The Antichrist”, del 2001, punta di
diamante della produzione recente dei teutonici, rinati a seconda vita nel 2000
con l’ottimo “All Hell Breaks Loose”.
In
verità i Destruction non si sono mai sciolti, ma il ritorno dello storico frontman
Marcel “Schmier” Schirmer, dopo i deludenti lavori degli anni novanta,
costituì una vera e propria resurrezione per la storica band tedesca!
Correva
appunto l'anno 2000 e c'è da dire che tutto il decennio precedente non
fu felice per il thrash metal in generale. Le vecchie glorie avevano sparato
gli ultimi colpi prima di suicidarsi definitivamente con produzioni di uno
squallore inarrivabile. Parlo ovviamente dei padri Metallica e Megadeth
che con due mosse di fioretto stesero il genere intero: prima ammorbidendo il sound
con lavori che guardavano a fasce più ampie di pubblico (il "Black
Album" per quanto riguarda i primi, l'accoppiata "Countdown to
Extinction"/"Youthanasia" per quanto riguarda i
secondi). Poi rilasciando album che con il thrash non avevano praticamente più
niente a che fare (“Load”, “Reload”, “Risk” ecc.). Il
genere si ritrovò così in un vicolo cieco, costretto a snaturarsi o a rimanere
uguale a se stesso (con l’aggravante che, quanto a violenza, era stato
sorpassato nel frattempo da nuovi sottogeneri come il death e il
grind). La mazzata finale la diedero prima i vari Pantera, Machine
Head e tutte quelle band che, pur continuando a suonare thrash, vennero in
seguito raggruppate sotto l’etichetta groove-metal. Poi il fiorire del
movimento nu-metal, che face grande incetta degli stilemi del thrash,
stravolgendone però l’attitudine, e contaminandolo con l’hip-hop, la new-wave ed
altre tendenze non proprio simpatiche al metallaro vecchia maniera.
Molti
nomi storici sparirono schiacciati dal Nuovo e dall’incapacità di
rigenerarsi stilisticamente; al contempo una nuova generazione di fenomeni
stentava ad emergere. Nonostante questo, il thrash-metal classico
rimaneva profondamente radicato nel cuore dei metallari di tutto il mondo, in
quanto aveva rappresentato un passaggio troppo importante (stilisticamente
parlando, forse il più importante) per l'heavy metal tutto. Cosicché si generò
uno strano paradosso: il thrash metal sopravviveva senza le band!
Neppure
i malvagi Destruction uscirono indenni da questo periodo di crisi. Nel 1989
Schmier fu addirittura cacciato per il suo tentativo di opporsi al processo di
commercializzazione che intendeva avviare la band, in linea con il metal di
quegli anni (gli stessi Sodom avrebbero rilasciato nel 1990 “Better
Off Dead”, il loro album più commerciale di sempre e pesantemente
influenzato dall’hard-rock; quanto ai Kreator, abbiamo già visto come
essi avrebbero dedicato tutta la decade novantiana alla sperimentazione). Il
risultato per i Destruction furono due album di merda come “Cracked Brain”
e “The Least Successful Human Cannonball” (alzi la mano chi li
possiede!). Logico, dunque, che il ritorno di Schmier fu salutato con gioia, a
maggior ragione se coincideva con un album potente come “All Hell Breaks
Loose”: un’opera violentissima che recuperava il sound delle
origini, valorizzato finalmente da suoni al passo con i tempi (grazie a Mamma
Nuclear Blast ed alla sapiente produzione di Peter Tagtgren).
Schmier
tornava dunque a starnazzare dietro al microfono con quella voce stridula che
con la vecchiaia sembrava essere divenuta ancora più acida e tagliente. Il suo
basso era corposo e tutt’uno con la chitarra affilata di Mike Sifringer,
che come al suo solito continuava a macinare riff come se non ci fosse
un domani. Il nuovo batterista Sven Vormann iniettò velocità e
precisione come mai era successo in un album dei Destruction: vederli dal vivo
fu un piacere, freschi come delle rose, con i nuovi pezzi che si confondevano
con quelli storici. Con il successivo “The Antichrist” fecero ancora
meglio: la macchina era oramai rodata e nessuno sembrava essere più in grado di
fermare i tre vecchiacci, i quali riaffermarono il loro status di maestri
indiscussi del genere in un contesto di mezze cartucce. Quello che fecero i
Destruction con quell’accoppiata di album fu una vera impresa: resuscitare il
thrash metal nella sua accezione più vintage, riportando grinta,
genuinità, raddrizzando la schiena a tutti coloro che non avevano assistito
alla rivoluzione thrash quindici anni prima. Riemergeva prepotentemente un gran
bisogno di thrash e quei mirabili prodotti seppero calamitare le forze della
restaurazione in un mondo che non sembrava avere più punti fermi.
Il
thrash, tuttavia, non offrendo grandi margini di manovra, non è un giochetto
che si può riciclare all’infinito e tolta l’attitudine (che ai Destruction di
certo non mancava) può rischiare di impantanarsi nelle paludi dell’immobilità.
E così fu: gli album successivi (“Metal Discharge”, “Inventor of Evil”,
“DEVOLUTION” – un titolo un programma!), fin troppo autocelebrativi
(persino le copertine richiamavano sfacciatamente quelle del passato), non
seppero tenere alta l’attenzione sulla band, relegandola in una
zona di interesse a cui avevano accesso solamente i fan più intransigenti.
Probabilmente
il ritorno dei Destrucrion non è collegato in modo diretto a quanto nel
medesimo periodo accadeva dall’altra parte dell’oceano, ma sicuramente quella
serie di focolai thrash che iniziarono ad avvampare all’inizio del terzo
millennio sono stati espressione di un unico movimento tellurico propagatosi
sotto la superficie del mondo metal. L'11 agosto del 2001 si celebrava a
San Francisco il Thrash of the Titans, evento benefico organizzato per
raccogliere fondi e dare supporto economico a Chuck Billy e Chuck
Schuldiner che all'epoca erano entrambi impegnati in una strenue lotta
contro il cancro. Per l'occasione montarono sul palco vecchie glorie della
scena della Bay Area: Exodus, Anthrax, S.O.D., Flotsam
and Jetsam, Death Angel, Sadus, Vio-lence e persino i Legacy,
l'embrione originario di quelli che poi in seguito sarebbero divenuti i Testament.
Tutta gente che aveva visto tempi migliori, certo, ma che gioia deve'essere
stata ritrovarsi sul palco tutti insieme come venti anni prima: un'ondata di
entusiasmo che portò alla reunion di diverse di quelle compagini. C'era
dunque voglia di thrash nell'aria e la Vecchia Scuola era pronta per
tornare!
Purtroppo
in molti casi non si seppe andare oltre il semplice revival, essendo
improntata la produzione discografica di quelle band sulla pura nostalgia:
la nostalgia per un periodo irripetibile che evidentemente non poteva più esistere.
Le scosse elettriche sono state utili solo a rivitalizzare le salme per un
istante.
Capitolo
Exodus: memorabili quanto vi pare, ma tutta la loro storia si è basata
sul mito di “Bonded by Blood”, folgorante debutto targato 1985. Su
quell’opera seminale la band imposterà la sua seconda vita: una vita fortemente
voluta dal chitarrista Gary Holt, che negli anni si è posto come il
punto fermo di una formazione che non ha mai trovato pace. E così, scioltisi nel
1992, già nel 1996 erano nuovamente insieme per una serie di date auto-celebrative
(che poi verranno catturate nel live-album “Another Lesson in
Violence – un titolo che già di per sé non faceva presagire grandi novità e
voglia di osare!).
L’agognato
album del ritorno, tuttavia, non fu di immediata gestazione, complice anche la
morte improvvisa del singer storico Paul Baloff, avvenuta nel
2002. “Tempo of the Damned” vedrà dunque la luce nel 2004 con
dietro al microfono Steve Souza, non proprio l’ultimo arrivato visto che
aveva accompagnato la band dal secondo album in poi. L’operazione venne accolta
con entusiasmo sia da critica che da pubblico, considerata l’importanza del
nome sulla copertina. La vecchiaia tuttavia non portò saggezza né stabilità
agli Exodus, che dovettero continuare a fare i conti con i soliti problemi di
droga e con una formazione in continuo mutamento. Souza va e viene come un
uccel di bosco, sostituito da Rob Dukes (roadie e tecnico del
suono per la band), che a sua volta lascerà nuovamente spazio a Souza. Ma nella
sostanza, la musica degli Exodus non cambia, rimanendo ancorata a quel thrash
di cento anni prima che sinceramente ha finito per stancare anche gli stessi
fan degli Exodus. Il problema è dunque il medesimo dei Destruction: tanta voglia di thrash a
supportare il ritorno di nomi storici che tuttavia, messi fuori dal contesto
originario, mostrano scarsa inventiva e grosse difficoltà di tenuta nel lungo
periodo.
Stessa
sorte è toccata ai Death Angel: scioltosi nel 1990 dopo solo tre album,
i Nostri tornarono in studio nel 2004 per dare alla luce “The Art
of Dying” (strano titolo per
rinascere, vero?). Ma nemmeno questo atteso ritorno cambierà il corso della
storia del metal: i Death Angel non sapranno rendere onore alla loro stessa
fama, sfornando una serie di album mediocri di cui certo non sentivamo il
bisogno.
Onde
evitare di sparare sulla Croce Rossa, chiuderei questa breve dissertazione con
una nota positiva: i Testament. Certo, anch’essi hanno sofferto non poco
nella prima metà degli anni novanta, ma contrariamente ad altri hanno saputo
riemergere da tutte le difficoltà e mantenere negli anni successivi un alto
profilo. Riassunto delle puntate precedenti: sulla scia del “Black Album”
anche i Testament decisero di ammorbidire il loro sound, rilasciando nel
1992 “The Ritual”, opera controversa che ampliò il divario nel gruppo fra
coloro che volevano un indurimento e chi invece intendeva dirigersi verso lidi
più melodici. La disputa finì con lo scioglimento della band (per la cronaca: Alex
Skolnick passerà ai Savatage, ed è tutto dire quanto alla
motivazione che il chitarrista poteva avere nel proseguire a suonare thrash
metal). Fu la determinazione di Chuck Billy ed Eric Peterson a
far sì che il progetto ripartisse e potesse mantenersi longevo nel tempo,
nonostante tutte le disgrazie affrontate (continui cambi di line-up e,
fatto non secondario, la grave malattia del cantante).
Vinse
dunque il partito dell'Estremo e album come “Low” (1994), “Demonic”
(1997) e “The Gathering” (1999) esprimono in maniera egregia un
crescendo di focalizzazione verso suoni duri (ai limiti del death metal!)
e sempre meglio calibrati. L’ultimo dei tre rappresenta indubbiamente l'apice
artistico di questa seconda giovinezza, grazie ad una formazione strepitosa che
si componeva, oltre che dei due membri originari, di pezzi da novanta come James
Murphy, Steve DiGiorgio e sua maestà Dave Lombardo. Il sound
pertanto guadagna potenza e precisione con un Chuck Billy che si dà persino al growl
(scelta insolita per un cantante della vecchia scuola). Con l’album successivo
“First Strike Still Deadly” (rivisitazione di vecchi brani) tornerà
persino all'ovile Skolnick: il tempo di rodarsi ed ecco che il chitarrista contribuirà
con il suo estro superlativo alla buona riuscita di “The Formation of
Damnation” (2008), altra grande prova da studio. Certo, fa un po’ strano, dopo
così tante vicissitudini, vedere dal vivo Skolnick con il suo bravo ciuffo bianco
che pare Riccardo Fogli, al centro della scena, sorridente e disinibito ad
officiare con la sua impareggiabile chitarra classici come “Over the Wall”
e “Burnt Offerings”. Come se non fosse accaduto nulla negli ultimi venti
anni e lui fosse stato sempre lì: in questa circostanza, tuttavia, è doveroso
rendere onore alla costanza ed alla dedizione di grandi persone come Chuck Billy ed Eric Peterson,
che hanno saputo tener duro contro ogni avversità.
Applausi
in piedi quindi per i Testament che con umiltà e convinzione (ma anche con audacia, visto che non è da tutti spostarsi verso il death metal!) sono riusciti ad
arrivare ai nostri giorni poggiando su un solido passato, ma senza scadere in
patetiche operazioni-nostalgia. Ma nonostante
le prodezze di qualche caso isolato, il thrash rimane un ambito sostanzialmente
morto. Voltiamo dunque pagina e vediamo, sul medesimo campo da gioco (quello
delle reunion) come il metal classico si è saputo muovere...