I 10 MIGLIORI ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI ’90)
FUORI CONCORSO: i KING’S X
Se c’è una definizione controversa e spiazzante, tra le
mille coniate dalla stampa specializzata nel corso degli anni, per indicare un determinato sottogenere metallico, per il sottoscritto questa è senza ombra di dubbio Alternative Metal.
Anche perché il c.d. Alt-Metal è una “categoria”
dove dentro ci può stare di tutto e di più. Infatti negli ultimi 25 anni e passa, cioè più o meno da quando si è sviluppato e affermato nel
panorama mondiale, sotto questa definizione abbiamo visto inserire dalla
critica band che suonavano nel modo più svariato: funk, rock, industrial, noise, rap,
nu…bastava aggiungere a questi prefissi il sostantivo “metal” e tutto, ma
proprio tutto (ad esempio anche lo stesso “grunge” è considerato come un genere alternative), sembrava poter essere
annoverato sotto il grande “cappello” dell’alternative.
A cura di Morningrise
Il numero di gruppi che si possono
definire alt-metal, quindi, è talmente elevato che abbiamo deciso di NON
considerarne nessuno all’interno della nostra Rassegna sulle cult band anni
’90.
Magari, chissà, un giorno tireremo fuori una classifica ad hoc anche per
loro.
Ci sembrava giusto però, prima di
cominciare il nostro Elenco vero e proprio a partire dal 1990, celebrare fuori
concorso una band che, se non totalmente rappresentativa dell’alt-metal
(e questo proprio per la succitata varietà degli stilemi), ne incarna però lo spirito di
contaminazione e sperimentazione, che sta poi alla base del sottogenere stesso.
Il perché di questo post è presto spiegato: la
band capitanata dal lungagnone mulatto Doug Pinnick,
oggi 55enne, ha saputo spesso e volentieri esprimersi ad altissimi livelli,
senza raggiungere mai picchi di notorietà e responso commerciale clamorosi (al
contrario di molte altre band alt-metal che hanno davvero sfondato in tal senso
come, ad esempio, Jane’s Addiction, Faith No More, Biohazard o Nine Inch Nails).
La scelta per questa Appendice è
caduta su di loro anche perché il meglio da un punto di vista compositivo
riuscirono ad esprimerlo proprio a cavallo delle due decadi che abbiamo voluto
trattare. E quindi, anche se avessimo voluto inserirli nella Rassegna “ufficiale”,
sarebbe stato difficile scegliere se farlo nella decade ottantiana oppure in
quella successiva.
Si, perché sono stati proprio i
primi quattro platter della band, licenziati tra il 1988 e il 1992, ad
assegnargli di diritto un posto di primo piano nella Storia dell’Hard Rock/Alt-Metal.
Se l’alternative ha la sua
peculiarità nel saper coniugare stilemi diversissimi tra di loro, sperimentando
in modo non convenzionale partiture propriamente heavy con svariati elementi
mutuati dal vasto mondo del Rock, i King’s X lo rappresentano pienamente e
brillantemente.
I primi due dischi infatti (“Out
of the Silent Planet” e il loro capolavoro assoluto “Gretchen Goes to
Nebraska”) sono senza dubbio da tramandare ai posteri, in particolare per la
loro capacità davvero unica di coniugare in uno spiazzante potpourri melodie
rock, riffoni hard n heavy, spruzzate soul e funk, un uso sapiente dei cori e una
peculiare propensione progressive, riscontrabile in particolar modo in un’intelligente
destrutturazione del formato-canzone e nell’utilizzo non conforme dei tempi
(grandioso in tal senso il lavoro del batterista
Jerry Gaskill).
Tutti aspetti su cui gravita la calda voce soul di Pinnick,
capace però, quando vuole, anche di graffiare.
Onestamente, parlare dei King’s X
e non spendere poche righe su "Gretchen Goes To Nebraska" (ma che bel titolo!) sarebbe un delitto. E quindi non possiamo
davvero esimerci dal farlo. In realtà ce ne vorrebbero ben più di “due”, di
parole…perché descriverlo è davvero difficile e complesso. Nella mia testa me
lo rappresento come una sorta di “ossimoro
concettuale messo in musica”, visto che nei suoi 52 minuti coabitano in
modo fluido parti ricercate e raffinate, altre scanzonate e apparentemente
sconclusionate. Ma in ogni caso, ciò che emerge e rimane fisso in mente è sempre un’ispirazione profondissima che ha dato vita a gemme melodiche da urlo, come le emozionanti “Summerland” o la
conclusiva “The Burning Down”. Il resto del disco peraltro è un saliscendi di
sensazioni: si passa con nonchalance da irresistibili tempi funkeggianti (“Over
my head”, “Everybody knows a little bit of something”) a pezzi sognanti, come
la meravigliosa “Pleiades”. Brani già di per sé straordinari ma resi ancora più
efficaci da un lato dalla versatilità esecutiva del chitarrista Ty Tabor, e dall’altro dalla
prestazione monstre dell’ugola di Pinnick. Un capolavoro assoluto dell’hard
rock più onirico.
Ma la grande caratteristica della
band è stata quella di non sedersi mai sugli allori. E così, entrati negli anni
’90, hanno continuato a sperimentare, non ripetendosi mai pur mantenendo un
trademark peculiare sia nel sound che nell’attitudine.
Ed ecco così spiegata la
qualità che contraddistingue anche dischi come “Faith Hope Love” (1990) e “King’s
X” (1992), dove i Nostri spaziano dal progressive spinto fino a sconfinare
a tratti in territori psichedelici (richiami quest’ultimi portati a maggior
compimento in “Please Come Home…Mr.
Bulbous” del 2000).
Insomma, ecco perchè ci sembrava corretto dare spazio a questa band che ha fatto della sperimentazione e della contaminazione (cioè i nostri "termini guida" che ci eravamo prefissati di seguire nella nostra Anteprima sulle cult band anni '90) i propri criteri per una credibile ricerca musicale. Dopo 30 anni di carriera, possiamo sicuramente dire che la band statunitense ha lasciato dietro di sè diverse "piastrelle" che sono andate a formare un'ideale strada di raffinata inventiva e geniale creatività. Imperdibili.