CLASSIFICA
DEI DIECI MIGLIORI ALBUM DEATH METAL USCITI NEL 1991
4° CLASSIFICATO: "TESTIMONY OF THE ANCIENTS" (PESTILENCE)
4° CLASSIFICATO: "TESTIMONY OF THE ANCIENTS" (PESTILENCE)
Abbiamo
visto, nel corso della nostra classifica, quanto il 1991 sia
stato un grande anno per il death metal. Ma è con il poker di opere che
abbiamo posto in cima alla nostra graduatoria che il genere si esprime ai
massimi livelli. Il primo del quartetto è “Testimony of the Ancients”
degli olandesi Pestilence.
Abbiamo
già parlato della band di Patrick Mameli in occasione del nostro special dedicato alle reunion delle band death metal. Ed abbiamo visto come il
corso artistico della formazione abbia toccato il suo zenit sperimentale con il
capolavoro “Sphere”, nel 1993, per poi arrestarsi bruscamente con
l’inaspettato scioglimento della band. Prima di quell’album fantastico, in cui
i Nostri sparavano il loro death metal nello spazio condendolo con
elementi jazz e fusion, il già superlativo “Testimony of the
Ancients” ci consegnava una band capace di dare espressione alla propria
creatività con un sound personale e maturo, sebbene ancora riconducibile
ai ranghi di un death metal classico.
Il
salto di qualità rispetto al precedente “Consuming Impulse” fu
gigantesco e lo si può evincere confrontando le due copertine. Da un lato l’immagine
fumettistica del volto stravolto dal terrore di un uomo divorato dalle formiche;
dall’altro il raffinato artwork del geniale illustratore Dan SeaGrave,
ideatore delle “antiche sfere meccaniche” che ritroveremo protagoniste
nella copertine di “Spheres” e della raccolta-epitaffio “Mind
Reflections”. Sfere che già vediamo enigmaticamente sospese nel vuoto in
uno scenario fantastico di grande suggestione: l’interno di un misterioso
edificio probabilmente costruito da una ignota civiltà superiore (Atlantide?), al
centro del quale si erge un pozzo (della conoscenza?) apparentemente senza
fondo. Una torre che si inerpica verso l’alto o un tunnel sotterraneo che si
spinge in profondità? Le allegorie di sprecano, ma resta indubbio il
fascino di una rappresentazione grafica che rispecchia in pieno le atmosfere
ospitate da quest’album: atmosfere che oscillano continuamente fra umori arcani
e fantascienza. Per questa sua forte valenza concettuale, l’opera permette agli
olandesi di iscriversi alla lista dei migliori esponenti del death metal più
intelligente: filone capitanato di diritto dai Death di Chuck
Schuldiner, che (attenzione), avrebbero rilasciato l’inarrivabile “Human”
quasi due mesi dopo l’uscita di questo “Testimony of the Ancients”.
I
Death, inutile dirlo, dettavano legge, lo facevano con album come “Leprosy”
e “Spiritual Healing”, che certo costituivano un punto di partenza per
il death metal feroce e dinamico dei Pestilence. I quali però fin dall’inizio
mostrarono i tratti di una personalità forte e con questo “Testimony of the
Ancients” seppero portarsi addirittura avanti rispetto ai loro stessi maestri.
A tal riguardo basta andare ad ascoltare la porzione centrale del brano “Land
of Tears”, con i suoi intrecci di chitarra che vanno ad anticipare pari
pari certi passaggi di “Human”. E poi l’assolo melodico che segue, con tanto di
sottofondo elettroacustico: si era mai sentito un death metal così elegante prima
di allora?
Momenti.
“Testimony of the Ancients” vive di momenti. I brani, nonostante la complessità
che li anima, si muovono entro durate tutto sommato contenute, conservando persino
il classico formato canzone (strofa/ritornello), eppure la bellezza dell’album
si dischiude poco a poco, in dettagli, epifanie sonore che repentinamente
aprono incredibili scenari. L’intelligente uso delle tastiere (suonate
dall’ospite Kent Smith) è un fattore fondamentale, dato che esse, in
modo misurato ma efficace, vanno a condire i passaggi più significativi. Non
fraintendiamoci: le chitarre ispirate di Patrick Mameli e Patrick Uterwijk
e il drumming terremotante di Marco Foddis sono la materia di cui
si compone “Testimony of the Ancients”, che certo non è un “The Key” dei
Nocturnus, rilasciato l’anno precedente, in cui le tastiere avevano un
ruolo ben più preponderante.
Le
tastiere sono dunque un valido indicatore che ci può guidare laddove l’album
esprime il meglio di sé. A noi che il track by track non piace, ci
basterà elencare i momenti che più di altri ci sono rimasti impressi: i bellissimi
assolo di “Twisted Truth”, intrigante mid-tempo impreziosito
appunto dal talento melodico prima di Uterwijk e poi di Mameli (assolo iper-melodici
accompagnati da ariose tastiere che spalancano quelle dimensioni che andremo ad
esplorare con “Spheres”); i ritornelli di “Prophetic Revelations” e “Testimony”,
dove la voce disperata di Mameli viene avvolta da tappeti di tastiere che danno
ai brani una perversa carica visionaria; il break centrale di “Presence
of the Dead”: quattro quarti solenne, ricami di pianoforte ed ancora una
volta eteree tastiere che si materializzano improvvisamente aprendo un varco
fantastico in mezzo alla brutalità del death metal dei Pestilence. L’opera vive
di momenti, si diceva, di colpi di genio disseminati per tutto l’arco della sua
durata, e sono tanti, chiamati ad impreziosire dei brani che già da soli
funzionano benissimo, in quanto ben strutturati e messi insieme da musicisti
fantasiosi e competenti.
I
musicisti: l’anno precedente se n’era andato il carismatico Martin Van
Drunen (per abbracciare la causa degli Asphyx), lasciando vacante sia
la posizione di bassista che quella di cantante. Per quanto riguarda la prima,
verrà ingaggiato all’ultimo minuto il virtuoso Tony Choy, già militante
in Cynic ed Atheist, il quale però, nonostante la sua elevata
preparazione tecnica, ben poco influirà sugli esiti dell’opera, in pratica già
composta ed assemblata al suo arrivo. Dietro al microfono, invece, presenzierà lo
stesso Mameli, postazione che conserverà per tutto il resto della carriera. La
sua voce è forse meno particolare del farfugliare agonizzante di Van
Drunen, tuttavia si presterà perfettamente allo spirito visionario dei testi di
Marco Foddis, intelligente paroliere della band. Il binomio Mameli/Foddis
toccherà qui (e ancor di più nell’album successivo) vette degne dell’accoppiata
Battisti/Mogol, quanto a sinergia fra interpretazione e contenuto del
testo. Il growl di Mameli è infatti intellegibile e ben di presta, con
la sua raucedine da death-metaller sull’orlo di una crisi di nervi,
ad interpretare le riflessioni esistenzialiste descritte da Foddis, le quali esprimono
lo stupore del Fanciullino pascoliano (con la voce di uno scaricatore di
porto) innanzi a nuove e sconcertanti verità.
I
testi, di ispirazione lovecraftiana, si distaccano dalle classiche
tematiche del death, per spostarsi in terreni che potremmo descrivere
filosofici: essi rappresentano un percorso di ricerca epistemologica che
vede al suo centro il dubbio. Un dubbio che serve a minare certezze e a
sfondare l’impenetrabile muro della Verità, ammesso che essa esista. Le parole
di Foddis esprimono sbigottimento in questo viaggio allucinante, forse compiuto
in stato di trance, forse condotto da un malato di mente, in cui visioni,
rivelazioni, profezie, manifestazioni del Divino e di spiriti dall’Oltretomba
si materializzano, sconvolgendo la concezione dell’esistenza così come eravamo
soliti conoscerla. Giusto per
dare un assaggio, mi limito ad elencare le frasi poste all’inizio di ogni
brano, chiamate ad introdurre l’argomento di volta in volta trattato: 1)
“An unknown dimension revelead to man”, 2) “Views from a twisted mind”, 3)
“What happens to the soul after it has left a human body?”, 4) “Fear of
all evil that controls mankind”, 5) “Ancient wisdom in present reality”,
6) “Seeking life-answers by using dark powers”, 7) “Seances to
summon (and communicate with) the dead”, 8) “Branded, for making the
wrong choices in life”.
A fare
da didascalia ai temi affrontati, accanto agli otto brani ufficiali, troviamo
altrettanti intermezzi che vanno a saldare le diverse tracce in un unico flusso
sonoro e concettuale. I Nostri non si fanno mancare davvero niente, rischiando
però a tratti di sforare nel kitsch: orchestrazioni incalzanti (“Bitterness”),
passaggi tastieristici degni di un film thriller/horror con tanto di finale da
infarto à la Psycho (“Darkening”), un cuore che pompa
faticosamente sangue (“Blood”), una agghiacciante preghiera/supplica
fatta di sussurri e voci agonizzanti (“Free Us From Temptation”), orge
impure dal retrogusto ritual/sacrificale (“Impure”), velocissime scale
di basso (“Soulless”), scarabocchi di chitarra espressionista su un
sottofondo sci-fi (“Mindwarp”), solenni chitarre e tastiere che sfumano
in una dissolvenza che fa presagire una vaga via d’uscita (la conclusiva “In
Sorrow”), come se nel dolore di una ricerca affannosa, forse votata
all’insuccesso, l’Uomo trovasse comunque un senso alla propria esistenza. Un
apparato “sonoro” che va ad aggiungere ulteriore fascino alla fruizione di un
album impenetrabile, sfuggente, che riesce a dare sempre nuove emozioni ogni
volta che lo si ascolta.
Di
carne a fuoco ne hanno messa i Pestilence, che al loro terzo album già ci
appaiono forti di una maturità compositiva e di una arditezza concettuale che
li pongono una spanna al di sopra del panorama medio death dell’epoca. E con
“Testimony of the Ancients” essi ci consegnano il loro capolavoro death
metal, prima di spingersi ulteriormente oltre nel loro arduo cammino volto
ad abbracciare una Verità probabilmente irraggiungibile.