Torneranno. Chi prima, chi
dopo, torneranno tutti. Nel metal non si va in pensione, strano no? Tutti
oggi vorrebbero andarci e non si può. Nel metal, dove la pensione per certi
personaggi sarebbe cosa opportuna oltre che necessaria, proprio non se ne parla.
Con i fisici imbolsiti, con
le rughe sul viso e i capelli sempre più radi, s’indossano i vecchi giacchetti
di pelle, ci si mette il mascara e si torna sul palco: senza voce, senza forza,
senza ispirazione. Senza voglia? Ma allora perché lo fate? Per i soldi?
Per inconsapevolezza dei vostri limiti? Fatto sta che tornano tutti,
senza eccezioni, chi sul palco, chi, ahimè, in studio…
Breve parentesi sull'universo glam-metal. Motley Crue, Twisted Sister, Guns
N’Roses: tre grandi nomi che hanno prosperato nel fermento di un’epoca
irripetibile, sociologicamente parlando. I Motley Crue, dopo i fasti
degli anni ottanta, ebbero l’ardire di ripresentarsi nel 1994,
in
piena era grunge, con un album come “Motley Crue”, con tanto di sonorità
moderne e metalleggianti. Ed un cantante nuovo di trinca: John Corabi,
voce roca e strascicata. C’è chi ha anche apprezzato la mossa, ma sinceramente
parlando i Moltley Crue in versione Pantera/Alice in Chains potevano
anche risparmiarceli. Il ritorno di Vince Neil qualche anno dopo fu
dunque salutato con sollievo, sebbene quella musica che celebrava una vita
fatta di vizi ed eccessi calzasse meglio ad un gruppo di giovani scapestrati,
piuttosto che ad un manipolo di signori di mezza età mal ridotti ed imbottiti
di Viagra. Gli album che seguirono furono prevedibilmente quanto di più inutile
potessimo aspettarci da gente che avrebbe fatto meglio ad aprire una tabaccheria:
“Generation Swine” (1997), “New Tatoo” (2000) e “Saints of Los
Angeles” (2008) aggiungono poco o nulla alla carriera dei Crue, che
continueranno a calcare i palchi forti degli antichi cavalli da battaglia. Ma che
tristezza, aggiungiamo noi, Vince Neil flaccido e con il trucco che gli cola
lungo le guance.
I Twisted Sister sono
riusciti a far peggio, concependo le patetiche operazioni “Still Hungry”
(2004), ri-registrazione del classico degli anni ottanta “Stay Hungry”,
e “Twisted Christmas” (2006), un'evitabile raccolta di cover di
canzoni natalizie (ohibò!). C’è da dire almeno che dal vivo la Sorella
Schizzata continua a spaccare di brutto, e certo il carisma di Dee
Snider (che andrebbe preservato sotto la giurisdizione dell’Unesco) è merce
troppo rara di questi tempi per essere disdegnata. Fra tutti, però, i più
ridicoli sono indubbiamente i Guns N’Roses, che hanno avuto il coraggio
di ripresentarsi con Axl Rose come unico membro superstite del nucleo
originario. Beato rock, beato metal, che potete contare sempre sulla fedeltà
incondizionata dei vostri fan! Dopo quindici anni dal pessimo “The
Spaghetti Incident?”, nel 2008 usciva finalmente “Chinese Democracy”,
quando oramai non ci sperava più nessuno. Ma il parto discografico più
rimandato della storia (il produttore affermò, in un momento di scoramento, che
si sarebbe instaurata prima la democrazia in Cina), non tiene ovviamente fede
alle aspettative, prestandosi solo come scusa per affrontare nuovi tour mondiali, con una band, però, che non c’entra più niente con quella del
periodo d’oro. Ad eccezione, ovviamente, del poco credibile Rose (uno che se arriva in fondo
ad un concerto è già un mezzo miracolo – si pensi a quella volta che l'amico Sebastian
Bach, montato sul palco per cantare “Dont' Cry”, dovette portare a
termine il concerto al posto del titolare...). Vediamo se le cose miglioreranno con Slash
e Duff McKagan, che proprio quest’anno hanno ufficializzato il loro
rientro nei Guns.
Meno male che l’heavy metal è
altra cosa rispetto al glam! Judas Priest ed Iron Maiden, insieme
ai Black Sabbath, sono le entità più rappresentative del genere. Chi
attraversa i decenni deve necessariamente passare dal fuoco di mille peripezie,
per questo non ce la sentiamo di infierire se, dopo un passato glorioso, certe
compagini di musicisti hanno deciso di adagiarsi sugli allori. Discorso a parte
merita la creatura di Tony Iommi, che negli anni, sebbene a risultati
alterni, ha sempre mostrato di essere animata da una ferrea volontà di ricerca.
Ne hanno viste i Black Sabbath, di vicende, di stili, di cantanti: Ozzy,
Dio, Gillan, Hughes, Martin, di nuovo Dio,
di nuovo Martin, di nuovo Ozzy. L’annuncio infine dell’uscita di
un nuovo album con Mr Osbourne dev’essere stato un vero tuffo al cuore
per gli affezionati del Sabba Nero. E così nel 2013, dopo quasi
vent’anni dall’ultima testimonianza in studio, e dopo trentacinque dall’ultimo
album con il Madman al microfono, usciva “13”, che avrebbe visto nuovamente
insieme coloro che dettero origine al Mito (e al metal), fatta eccezione di Bill
Ward. L’effetto amarcord è
forte (quella voce, su quegli accordi di chitarra e basso…), ma sarebbe
ingiusto liquidare il tutto come una semplice operazione nostalgia. “13”, concepito come l’epitaffio
finale dell’epopea sabbathiana (in verità uscirà tre anni dopo l’EP “The
End” ad apporre per davvero la parola Fine), finisce per assumere contorni sacrali (basti
pensare al temporale ed ai rintocchi di campana che chiudono l’album e che vanno
ad evocare l’intro dell’esordio, chiudendo simbolicamente un cerchio lungo più
di quarant’anni). Quando Metal e Leggenda si confondono, del
resto, difficile ci è fare valutazioni obiettive, ma per noi i Black Sabbath
hanno indubbiamente vinto.
Diverse, e con altri esiti,
sono state le calamità che hanno dovuto affrontare Judas Priest ed Iron
Maiden.
Inutile ricordare che i Judas Priest non solo hanno fatto la storia dell’heavy
metal, ma incarnano l’idea stessa del genere. E Rob Halford non
è un semplice cantante, ma la Voce dell’heavy metal. Come fare dunque
senza di lui? E’ la domanda che si è posta la band all’indomani
dell’uscita di “Painkiller” (rilasciato nel 1992), quando per motivi
poco chiari il vocalist decise di andarsene. Mentre i Nostri si celarono
dietro un silenzio durato diversi anni, Halford cambiò pelle fondando i Fight,
dediti ad un metal moderno in stile Pantera.
Il silenzio fu di lì a poco rotto
dall’annuncio shock dell’ingresso nella band di un giovane sconosciuto, tale Ripper
Owens. Non abbiamo nulla contro il povero Owens, di cui anzi apprezziamo le
eccelse doti vocali, e che ci sta pure simpatico, ma la gravosa missione a lui
assegnata era votata all’insuccesso fin dall’inizio. Chi avrebbe potuto sostituire il “Metal
God”? Nessuno, per questo non ce la sentiamo di
colpevolizzare il buon Owens se “Jugulator” (del 1997) non ci è piaciuto
un granché. Solo cinque anni lo separano da “Painkiller”, ma sembra uscito un’eternità
dopo: il mondo del metal in quei cinque anni era
totalmente cambiato e i Nostri presero la palla al balzo per riverniciare il loro sound,
avvicinandolo ai lidi del thrash metal e rivestendolo di quel groove modernista che
sembrava essere divenuto il medium espressivo privilegiato di quegli anni. Una
produzione potente andava a supportare un album fatto di riff granitici,
chitarre spigolose, una sezione ritmica devastante, vocalità corrosive.
Apprezzabile il tentativo, l’ambizione di voler suonare al passo con i tempi ed
aggiornare il proprio stile a nuovi standard di violenza, ma per una
band così storica è sempre rischioso snaturarsi in quella maniera. Con il
successivo “Demolition” (del 2001) si provò a fare un parziale passo
indietro, cercando di recuperare delle sonorità più classiche, ma tolto l’effetto-curiosità
di cui si era giovato “Jugulator”, l’era Owens si esaurì nell’arco di due
album che fecero presto ad uscire dal cuore dei fan. I quali, semmai, invocavano
a viva voce il ritorno del leggendario Halford.
Il pelato borchiato, da parte
sua, era nel frattempo tornato al vecchio amore: l’heavy metal. Egli aveva
infatti avviato una carriera solista che guardava palesemente all’era Judas del
periodo “Painkiller”. Nel 2000 usciva “Resurrection” (eddaje) a
rinverdire l’entusiasmo dei fan. Ma tornare sui palchi di tutto il mondo e
riproporre il repertorio dei Judas fu inizialmente cosa non proprio semplice:
affetto da problemi alla memoria, il Nostro era limitato nei movimenti perché
costretto a guardare i testi scorrere su dei monitor posti sulla
superficie del palco. Ma la cosa peggiore era che la voce semplicemente non
c’era più (dalla seconda metà del set in poi, il Dio del Metallo spesso versava
in condizioni pietose, costretto a rivolgere il microfono verso il pubblico che
invece cantava, eccome). Ma fu solo una questione di rodaggio, perché già nel tour
di supporto del successivo “Crucible” (2002), il Nostro appariva maggiormente
in palla ed in grado di reggere una scaletta piena zeppa di classici (e di
acuti…). Più che altro capì che “Painkiller” non poteva non essere fatta:
meglio dunque presentarsi in moto, riproporla all’inizio dell’esibizione nel
pieno delle forze e togliersi il pensiero.
Il ritorno del Metal God
a sonorità classiche generò comunque entusiasmo: come quando la nostra ex torna
a salutarci e a gradire la nostra presenza, seppur per il tempo di un caffè, il
metallaro medio sentiva dentro di sé che il ricongiungimento fra Halford e i
Judas era imminente. E così, come se fosse la cosa più naturale del
mondo, nel 2003 il lieto evento fu finalmente annunciato. La reunion dei
Judas Priest è del resto un concetto che va al di là del Bene e del Male: così
doveva essere, inutile giudicarne gli esiti. Tanta era la gioia di riveder
cantare Halford accanto a Tipton e a K.K. Downing che gli aspetti
contenutistici e qualitativi di un nuovo album da studio passarono in
secondo piano: cosa aspettarsi da una band con trenta anni di carriera sul
groppone? Ed in effetti lavori come “Angel of Retribution” (2005), “Nostradamus”
(2008) e “Redemeer of Souls” (2014), non così pessimi da intaccare la
Leggenda, raccolsero tiepidi consensi, rivelandosi, fra un brivido ed uno
sbadiglio, né più né meno di quanto fosse lecito aspettarsi da delle cariatidi.
Esperienza analoga è stata
vissuta dagli Iron Maiden. Contrariamente ai Judas che chiudevano il loro
periodo migliore con un grande album come “Painkiller”, gli Iron iniziarono a
battere la fiacca un po’ prima con opere poco a fuoco come “No Prayer for
the Dying” (1990) e “Fear of the Dark” (1992): una perdita di brillantezza
che coincise con l’uscita di scena di Adrian Smith, ma fu l’abbandono
del front-man Bruce Dickinson a costituire la mazzata finale. Steve
Harris, che non è certo tipo da scoraggiarsi, decise di non indugiare
nemmeno un istante e già nel 1995 dava alle stampe “X Factor” che vedeva
la presenza dietro al microfono del misconosciuto Blaze Bayley (già
ugola degli Wolfsbane), signore di mezza età con una voce ed uno stile
molto diversi da quelli del suo predecessore. Scelta rischiosa, ma per certi
aspetti apprezzabile: l’album non risultò malaccio, portando il classico sound
della band su lidi più dark e progressivi. E il timbro tenorile di Blaze,
che sulle prime poteva generare un effetto straniante, nel complesso aveva il
suo fascino. Il problema è che Blaze è un personaggio statico, sia
artisticamente che fisicamente: semplicemente, sta fermo. Per chi era abituato
ad ammirare le scorribande di Dickinson su e giù per il palco, vedersi
quell’energumeno piantonato nel suo mezzo metro quadrato di autonomia motoria dev’essere
stato un vero trauma. “Virtual XI” (del 1998) fu invece un vero flop,
non tanto per colpa di Blaze (innocente capro espiatorio), ma per uno stallo
creativo che ammorbava Harris & soci da un bel po’ di tempo.
Nel frattempo Dickinson stava
tirando su una carriera solista di tutto rispetto, coadiuvato dal talentuoso Roy
Z (chitarrista e produttore) e dal redivivo Adrian Smith. Dopo infatti una
serie di tentativi a vuoto, proprio con l’aiuto del vecchio compare, egli trovava
la quadratura del cerchio, prima con il buon “Accident of Birth” (1997)
e poi con il capolavoro “The Chemical Wedding” (1998). La sfida a
distanza con gli ex colleghi fu dunque vinta, in quanto il Dickinson solista si
faceva promotore di un sound fresco, granitico, epico, suggestivamente sabbathiano, che faceva incetta
del metal classico quanto della miglior tradizione dell’hard rock settantiano:
un quadro portentoso che faceva da degno sfondo, non sole alle già note doti
canore del cantante, ma anche al suo spessore come autore. I tempi sembravano
dunque maturi per un pronto ritorno a casa del figliol prodigo…
Al riguardo io ho una teoria:
secondo me tutta la faccenda è stata combinata ad arte. Ce lo vedo Harris,
all’indomani dell’uscita di “Fear of the Dark”, prendere da parte Dickinson e
dirgli: “Caro collega, al di là che mi stai sul cazzo, avrai capito che
navighiamo in un mare di merda. Non sappiamo più cosa inventarci ed allora
facciamo un patto: tu ti togli dai piedi per un po’, ti diverti, fai i tuoi
album, quello che cazzo ti pare e sparisci dalla mia vista. Noi prendiamo un altro
cantante, diverso da te, forse anche peggio di te, e ci facciamo un paio di
album. Se piaceranno, bene: tutto grasso che cola. Se non piaceranno, meglio:
saremo avvantaggiati dall’effetto reunion al tuo ritorno. Beninteso:
continueremo a proporre la solita solfa, ma la gente non ci farà caso, accecata
dalla convinzione di essere tornata ai bei tempi che furono. Siamo intesi?
Allora metti una firma qui”.
Chissà se è andata davvero
così (da una vecchia volpe come Harris c’è da aspettarsi anche questo), fatto
sta che l’esperienza Blaze si stava rilevando fallimentare più del previsto e
solo un coup de theatre poteva risollevare le quotazioni della band.
Dickinson tornò, ma dato il suo stato di forma in confronto a quello dei suoi ex compagni, potette tornare
dettando le condizioni: “O rientra anche Adrian o niente!”. E così si giunse
alla famigerata formazione a sei, con i tre chitarristi in prima fila che in
verità poco aggiungevano al sound della Vergine. L’album della reunion,
“Brave New World” (2000), venne salutato trionfalmente, presto seguito da una tournee
ancora più trionfale. Dickinson dal vivo sembrava un alieno sceso da un disco
volante: gli anni non sembravano pesare a quell’incredibile front-man
che con i suoi acuti continuava a far sognare e che dal vivo teneva in pugno
platee oceaniche. Anche l’album in sé non era male, confermandosi il miglior
parto discografico dai tempi di “Seventh Son…”, sebbene con il tempo,
svanito l’effetto momentaneo, esso verrà a svalutarsi.
La nuova era degli Iron, in
effetti, si risolverà in una sequela di album non proprio eccezionali che, se
da un lato hanno avuto il merito di espandere le creazioni della band verso ambiti
più smaccatamente progressivi, dall’altro non hanno mai convinto appieno,
riproponendo soluzioni più che sperimentate in un formato a dir poco tediante,
considerata l’insana e senile tendenza della band a scrivere brani sempre più
lunghi, lenti e prolissi. “Dance of Death” (2003), “A Matter of Life
and Death” (2006), “The Final Frontier” (2010) e l’addirittura
doppio “The Book of Souls” (2015) si salvano grazie a qualche sprazzo
dell’antica classe che emerge ancora qua e là diluita in un mare di manierismi.
Alla fine della fiera c’è
comunque da dire che l’opportunità di rivedere periodicamente dal vivo Judas Priest
ed Iron Maiden (quest’ultimi ancora oggi fenomenali) viene compensata dal fatto
che non siamo costretti a comprare ed ascoltare i loro ultimi lavori. Ma non tutto il metal (più o
meno) classico si è limitato a fare il compitino: per taluni una prolungata
assenza dalle scene ha giovato a livello di ispirazione e freschezza
compositiva.
Un esempio sono stati i Fates Warning: “Darkness in a
Different Light” (ottimo titolo, peraltro) del 2013 segue di nove anni il
mezzo passo falso di “FWX” (dopo la cui uscita la band si sciolse) e
rialza le quotazioni di una band troppo significativa per sparire nel nulla. Un
lavoro che, guardando indietro e non in avanti, ha deluso coloro che si
sarebbero aspettati qualcosa di più coraggioso dai pionieri del prog-metal. Ma
tolti i palati più esigenti, il prodotto si è rivelato più che soddisfacente
per chi sentiva la mancanza della gloriosa band di Jim Matheos.
Ci sono poi gli Armored
Saint. Tutti amano gli Armored Saint, tutti li idolatrano, anche se poi
nessuno li ha mai ascoltati. Lo posso gridare? Degli Armored Saint
non me ne frega un cazzo! Però tutte le volte che m’imbatto in una loro
recensione, sembra di trovarsi al cospetto di qualcosa di imprescindibile per
la storia della musica. Ok, vi accordo il beneficio del dubbio: gli Armored
Saint sono dei grandi! Dissoltisi all’inizio degli anni novanta per una serie
di circostanze sfortunate (una su tutte: la morte per leucemia del chitarrista David
Prichard, a seguito della quale in cantante John Bush confluì negli Anthrax
e il bassista Joey Vera nei Fates), rialzeranno la testa agli albori del
nuovo millennio con una serie di album (“Revelation”, “La Raza” e
il recente “Win Hands Now!”) che non deluderanno le aspettative dei fan
ancora molto affezionati.
Cito infine la cult-band
italiana per eccellenza: i Death SS, protagonisti di uno dei ritorni più
graditi degli ultimi anni. Dopo lo scialbo “The Seventh Seal” del 2006, Steve
Sylvester decise di chiudere una fase e prendersi una pausa di riflessione:
scelta quanto mai azzeccata, visto che nel 2013 il Nostro tornerà in forma
smagliante con “Resurrection”, bell’album davvero che raccoglie il
materiale scritto e registrato nel corso degli anni precedenti. Quando si dice:
c’era bisogno di staccare e cercare nuovi stimoli per raccogliere una rinnovata
ispirazione.
E con queste buone notizie ci
avviamo verso un’altra ottima notizia, che però tratteremo nella prossima
puntata, che sarà anche la tappa finale nel nostro viaggio all’interno delle resurrezioni
nel metal…