In
una ipotetica classifica dei dieci migliori album di post-black
metal (che forse un giorno stileremo) non
metteremmo di certo questo “Return to Annihilation” dei
Locrian. Un po' perché la componente black metal è
decisamente periferica rispetto alla proposta dei Nostri, un po'
perché questo lavoro del 2013, mano a mano che lo ascoltiamo,
assume le sembianze di un palloncino che si sgonfia: splendente e
rigoglioso all’inizio, poi via via sempre più inconsistente.
L'opera
non a caso tocca il suo zenit con la copertina. Quando la
vedo, quel che mi viene da chiedermi è come
mai tutte le copertine degli album usciti dal 2010 in poi non siano
così. Come mai non ritraggono un carrello della spesa
nel parcheggio deserto di un supermercato. Minimalismo, urbano
nichilismo, un clic d'autore: una scelta che potremmo definire
ulveriana, visto che proprio i Lupi di Oslo sdoganarono
nel black-metal i fascinosi scorci della metropoli, le luci al neon,
le gallerie d’arte (sebbene gli Ulver in “Perdition City” già non suonassero più black da un bel pezzo).
Un
immaginario che palesa però anche il vuoto che spesso si nasconde
dietro alle accattivanti produzioni dei nostri anni: meno cuore, meno
sostanza, più attitudine. Un’attitudine diversa rispetto a quella
dei “duri e puri” di una volta, appannaggio prima di certi rocker
ortodossi (basettoni e capello lungo con pelata) e poi dei defender
nel metal. Giunti nel nuovo millennio, il pericolo più grande sta
nell’essere fighi, intellettuali, guardare di traverso le copertine
piene di mostriciattoli e color pastello e suonare drone-ambient,
post rock e black metal messi insieme.
Il
sole inizia la sua discesa, ma è ancora alto, altissimo. L’opener
“Eternal Return” è una bomba e, in un contesto di brani
assai lunghi e “silenti”, si rivela una scelta quanto mai
azzeccata quella di partire ex abrupto con una scoppiettata di manco
tre minuti che ci immerge in pastosi e frizzanti suoni shoegaze:
pochi secondi di sintetizzatori, un bel riff che sembra
uscire dalle mani di Kevin Shields, suoni impastati, scenari
tronfi di una “malinconica spensieratezza” che sembrava
prerogativa di band come My Bloody Valentine (appunto), Sonic
Youth, Smashing Pumpkins ecc. A ricordarci dove siamo è
il latrato burzumiano che infesta il pezzo nei suoi tormenti
finali, prima che un bell’assolo dissonante chiuda la partita.
Con
“A Visitation from the Wrath of Heaven” si cambia
completamente passo, ma se possibile lo scenario si fa ulteriormente
più integrante. Minimali trame elettroniche, l’incalzare dei beat
ossessivi delle percussioni e apocalittici chitarroni nel
finale che esplodono all’improvviso: i Locrian sono un power
trio composto da André Foisy (chitarre, basso), Terence
Hannum (voce, sintetizzatori, piano, mellotron) e Steven
Hess (batteria e percussioni) e sulla carta non si pongono
limiti. Eppure, se il telegiornale non parla dei Locrian, un cazzo di
motivo ci sarà, no?
Il
fatto è che il metallaro non è scemo e in certi giochetti non ci
casca. O almeno non ci casca fino in fondo. Io che sono un vecchio ed
oscuro signore che ha attraversato le decadi alla ricerca del Male in
musica, ho le mie soddisfazioni, però anche io capisco che tolto
l’effetto sorpresa le soluzioni adottate dalla band americana
non sono né così nuove né così esaltanti. Come spesso capita ai
giorni nostri (e succede anche nel cinema e in letteratura), gli
album diventano dei contenitori in cui l’artista, in particolar
modo quello che si definisce avanguardista, butta dentro un po’ di
tutto, con l’unica preoccupazione che i vari pezzi stiano bene
insieme. Pieno vuoto/vuoto pieno, tensione & rilascio
e così via.
Per
esempio la terza traccia, “Two Moons” è un’innocua
escursione acustica che, con la sua batteria blanda e gli squarci di
sintetizzatori, rientra nei canoni classici del post-rock strumentale
più quieto. Non è niente di speciale, ma venendo dopo una doppietta
di brani strepitosi, ci può anche stare. Un brano interlocutorio
atto a far riprendere fiato all’ascoltatore, perché con la
title-track le quotazioni si rialzano improvvisamente.
Del resto anche il più squallido regista sa che, dopo un dialogo
insulso, c’è subito bisogno di alzare la tensione con una bella
scena di violenza o di sesso. Ed ecco infatti che spunta fuori il
black metal, ma non subito. Prima frustate di percussioni che
incalzano ossessivamente come se dietro gli strumenti vi fossero gli
Swans e poi una lunga fase di chitarre in tremolo lasciate a
friggere come insegna la migliore tradizione burzuminana, fino
allo scontato ma necessario epilogo: nuova detonazione collettiva,
batteria solenne, riff paesaggistici, melodie strappalacrime
mitigate da suoni da cantina norvegese ed accelerazioni a supportare
lo screaming agonizzante.
E’
lo schema ambient/metal a rivelarsi come sempre vincente. I
Locrian non fanno altro che compiere il loro dovere, più come
sound-designer che come musicisti, a dirla tutta. Ma se i
contenuti mancano, l’attitudine non basta e si rischia di tirare
troppo la corda. “Exiting the Hall of Vapor and Night” (ma
che titoli inutili!) è un’altra pausa ambientale di cui
sinceramente non si sentiva il bisogno: il sole è sempre più basso,
ecco perché bisogna buttare nel camino l’imponente ciocco di
quercia per riattizzare il fuoco. In “Panorama of Mirrors”
(chissà perché anche i titoli, tutto ad un tratto, appaiono così
banali e fastidiosi) ritornano provvidenzialmente le chitarre, questa volta sotto forma di incubo cosmic-kraut, ma con quel sentore black metal a cui
ancora una volta non sappiamo resistere. La musica dei Locrian è per
lo più strumentale con delle vocalità black metal che, più che
veicolo di un messaggio lirico, sono pura astrazione sonora: un altro
“rumore” da buttare nel calderone. La conclusiva “Obsolete
Elegies” riprendende nei suoi dodici minuti lo schema della title-track, deliziandoci però questa volta con un inizio neo-folk a base di chitarre acustiche, pianoforte e dissonanze
assortite: il finale, invece, è l'immancabile crescendo trionfale, con tanto di batteria
galoppante a ricordarci che è sempre metal quello che stiamo ascoltando.
Si
vorrebbe volare alto, ma oramai il sole è quasi celato dietro alle
montagne. L'ultimo raggio del crepuscolo si è spento, come il nostro
entusiasmo. Il fatto è che le idee si sono esaurite nell’arco
delle prime due tracce. Tutto il resto, più o meno, vive di rendita.
Troppi vuoti e pochi significati per nemmeno cinquanta minuti di
musica (fosse stato un doppio album di centosessanta minuti,
sarebbe stato un altro discorso...). Per carità, il dischetto si fa
ascoltare, però permettetemi una metafora per rendere l'idea.
Immaginate
la seguente scena: siete in un bar riversi sul bancone a bere. Ad un
certo punto vi cade l'occhio su una ragazza che, qualche tavolo più
in là, vi sembra attraente: occhiale fashion, capello
asimmetrico, trucco marcato ma carismatico, nonché belle gambe. Sola
e al telefono. Provate ad origliare e vi capita di sentire cose tipo
“New York”, “Andy Warhol”, “l'altro
giorno alla mostra” ecc. Segretamente vi state innamorando,
pertanto, complice l'alcool che avete in corpo, decidete di provarci.
Andate al tavolo, intratterrete una conversazione, ve la porterete a
letto.
Sorvoliamo
sui dettagli, il fatto è che, mentre ci parlate, vi renderete conto
che il suo sguardo è più vacuo di quanto sembrava da lontano. Ogni
tanto coglierete qualche lieve inflessione dialettale che nel
complesso stona. Infine noterete che non ha quell'aspetto così
attraente che vi eravate immaginati dopo un primo sguardo. Ma quello
che più vi amareggerà è che non c'è poi questa grande cultura,
anzi, qua e là emergono degli strafalcioni o segnali inquietanti che
palesano una certa superficialità di approccio, tipo lei che cita
programmi televisivi che ignorate e che non guardereste mai. La
vostra indignazione si accrescerà mentre lei ripetutamente
spippolerà sul cellulare o vi farà vedere le foto del suo
cane su Facebook, ma oramai sarà troppo tardi, perché siete
in corsa ed è inutile starsi a formalizzare: alla fine volevate solo
farvi una scopata. E pazienza per quei messaggi su WhatsApp
pieni zeppi di emoticon il
giorno dopo…
Menomale,
semmai, che non vi siete accorti che quella sera due tavoli più in
là c'era una ragazza moooolto carina, magari più ordinaria
nell'aspetto, anch’essa sola ed al telefono. Sappiamo di cosa
parlava perché era al telefono con noi di Metal Mirror: non
si capacitava del fatto che i Pathosray non pubblicano più
niente da anni e che il cazzo di vinile di “Live a Cattolica
5.8.1988” di Paul Chain non si trova...