E
così alla fine, picchia e mena, ce l'hanno fatta gli inglesi ad uscire
dall'Europa. Sì, gli inglesi, perché sono stati proprio gli inglesi
d'Inghilterra i promotori ed esecutori primi della Brexit, con un piccolo
aiuto da parte del Galles, e con una Scozia, invece, favorevole al Remain.
Ma è la caduta dell'Europa che osserviamo inesorabile, sia di quella
struttura burocratica malvista da molti e che viene indicata come la “causa
prima” dei mali di una crisi economica che investe da diversi anni il mondo occidentale,
sia di quell'universo culturale che per così tanto tempo è stato al centro
della Storia dell'Umanità: un'area dunque destinata alla frammentazione,
singoli staterelli schiacciati dalle superpotenze americane ed
asiatiche.
Chissà
dunque se il destino del vecchio continente sarà quello di divenire un
museo "a cielo aperto" appannaggio di ricchi e facoltosi provenienti da
tutto il mondo (visto che la vera economia si farà altrove), o quello di
rigenerarsi attraverso i singoli nazionalismi. Non sta a Metal Mirror
impelagarsi in faccende ignote persino agli analisti più accreditati, ci
limiteremo pertanto a tessere un canto metallico ad un'Inghilterra e ad
una Europa che si avviano zoppicando verso una nuova, incerta, imprevedibile
fase storica.
L'Inghilterra,
la culla dell'heavy metal. Il rock, più o meno duro, ha da sempre trovato
un terreno fertile laddove sono nati Beatles e Rolling Stones, Led
Zeppelin e Deep Purple, King Crimson e Black Sabbath, Queen,
Hawkwind e Mororhead. Una coincidenza? Un periodo fortunato?
Macché, l'Inghilterra ha continuato a prevalere, distinguendosi anche in campo
metal, tanto che una delle correnti più importanti di questo genere portava
impressa in fronte la dicitura di New Wave of British Heavy Metal. E
così il metallo, pur continuando a confrontarsi con le vecchie glorie del rock
e del progressive, progredirà per mezzo prima di Judas Priest e poi di Iron
Maiden, magari con un piccolo aiuto da parte del neonato (ma anche
neomorto) punk.
Gli
Iron Maiden: può esistere un'entità più inglese di loro? Dopo la Regina
vengono proprio loro, con il loro Eddie che impugna la bandiera
dell'Union Jack e con Steve Harris che indossa la maglietta e i polsini
del West Ham United. In questa band ritroviamo la vera natura di chi ha
votato Leave al cruciale referendum del 23 giugno scorso: l'orgoglio di
essere inglesi, di proclamarlo ad ogni piè sospinto, con quella compostezza e
quella stessa intelligenza pratica e cauta che ha portato, nel corso del
diciassettesimo secolo, allo svuotamento dell'istituzione monarchica
mantenendola in vita (la cosiddetta monarchia costituzionale), senza
spargimenti di sangue né caustiche rivoluzioni. Anche gli Iron hanno seguito un
tracciato simile, definendo un “loro modo di fare metal” che sarebbe divenuto uno
standard, presto diffuso in tutto il resto del globo (potremmo parlare
di "colonizzazione stilistica"). Ciò avvenne attraverso la
reiterazione di una formula inizialmente vincente, replicata ogni volta con
piccole variazioni che non l'hanno mai intaccata (modus operandi che è stato
esteso a tutti gli altri ambiti dell’universo maidiano: dalle copertine
degli album con Eddie in situazioni e ruoli sempre diversi, ai sontuosi
spettacoli architettati per i trionfali tour, con scenografie e dinamiche
aderenti allo stesso canovaccio).
Spero
solo che la materia di cui son fatti oggi gli inglesi non sia quella degli Iron
degli ultimi venticinque anni, perché allora l'Inghilterra andrebbe veramente
poco lontano (il fatto poi che il fronte contro l’Europa fosse ben nutrito di
anziani e pensionati, getta qualche ombra sull'effettive chance di
successo della Brexit). Ma al di là dei vecchi bolliti, sono gli inglesi in
generale ad essere degli snob: pensiamo per esempio a quando inizialmente si
rifiutarono di partecipare ai Mondiali di Calcio in quanto
"superiori" (coloro che inventarono il gioco del pallone…), per poi però
essere battuti ed umiliati ripetutamente e vincere una sola volta, per giunta
in casa...
Ma
torniamo alla musica. L'Inghilterra avrebbe potuto fermarsi anche a tutto ciò
che aveva combinato fino agli Iron e rimanere il paese più importante del metal.
Ed invece ecco che a cavallo fra ottanta e novanta si fa promotrice della
rivoluzione grind con i Napalm Death e poi, subito di seguito, con il
death metal putrescente dei Carcass, lo stra-doom visionario dei Cathedral
e l'industrial-metal di Godflesh e Scorn (tutte diramazioni delle
formazioni originarie dei Napalm): è la working class incazzata e senza
peli sulla lingua, ma anche il riemergere di quel'importante retaggio punk che
nel 1977 esplose proprio in Inghilterra con i Sex Pistols (ma quante
cose ci avrà dato la terra di Albione???).
Dal
punk sguaiato dei Sex Pistols al post-punk oscuro dei Joy Division il
passo è breve e ci ricorda che l'Inghilterra non è solo la capitale della
rivoluzione industriale e la culla del capitalismo (con tutte le sue
nefandezze!), ma anche la terra che ha dato i natali a poeti romantici come Blake
e Byron: ecco che, con il procedere degli anni novanta, anche questo
lato più gotico e decadente dell'Inghilterra prese forma nel metal. Assistemmo
così da un lato al fiorire del gothic-doom della triade Paradise Lost-My
Dying Bride-Anathema (un nuovo approccio al metal che nel corso
della decade dilagherà per tutta l'Europa), dall'altro all'affermarsi del black
metal sinfonico con i Cradle of Filth a fare da capoclasse. Ridendo e
scherzando (o meglio, piangendo e strillando) siamo arrivati alla seconda metà
degli anni novanta e l'Inghilterra, potremmo dire, tiene botta. (Nel frattempo,
a livello di mainstream, folleggiavano i vari Oasis e Blur,
portabandiera del redivivo brit-pop di beatlesiana/kinksiana memoria,
mentre erano pronti per esplodere quei Radiohead che avrebbero
rivoluzionato ancora una volta il mondo del rock, gettando semi che avrebbero
dato i loro frutti negli anni zero.)
Tornando
al rassicurante Regno del Metallo, come già detto e stradetto nella
nostra disamina sul "Nuovo Metal", quell'approccio pragmatico
che aveva da sempre animato le gagliarde formazioni inglesi, smise di
funzionare con l'avvento del terzo millennio. Lo abbiamo anche ricordato di
recente parlando degli Slipknot: nel vecchio metal avevamo messo
in conto la noia, quelle parti di canzoni o di album che dovevamo sopportare,
ma che davamo anche per scontate, come se ci dovessero per forza essere. Ma poi
il mondo ha detto “basta!” e ha preferito dirigersi verso sonorità meno
schematiche, meno razionali, meno prevedibili. In questo l'Inghilterra perse
quotazioni. Un po' meglio è andata ai paesi scandinavi, che godevano di una
vera individualità: non quella gretta dell'isolano né quella parassitaria dei
paesi colonizzatori, bensì quella che si forgia in una dimensione fatta di
fiordi, di gelo, di montagne, di foreste e di poche, pochissime persone sperse
in paesaggi ostici ed inospitali (perché il black metal non è nato a Genova?).
Tuttavia
tutto quel che di buono era stato predisposto nel corso degli anni novanta,
iniziò a sbiadire innanzi alla freschezza portata dai nuovi "colossi"
di Oltre Oceano: il melo-death dopo un pugno di album epocali iniziò a perdere
mordente, il gothic-metal si recò dalle parti di uno scialbo rock-goth dalle
mal celate ambizioni da alta classifica; il true black metal norvegese perse la
sua spinta innovatrice e si divise fra chi decise di guardarsi indietro
(recuperando le influenze dei vecchi Venom, Bathory, Hellhammer,
Destruction, Sodom e persino Motorhead) e chi optò per
uscire dal metal, se non addirittura dal rock (vedi il caso degli Ulver).
Solo Opeth e Katatonia riusciranno a mantenere i riflettori ben
orientati sui loro volti, sospinti dal movimento neo-progressive in inesorabile
ascesa. E in questo, c'è da ammettere, un ruolo di spicco è stato ricoperto
ancora una volta da un inglese, Steven Wilson, sia in veste di leader
dei Porcupine Tree, che come solista e produttore. Già pochi giorni fa,
parlando di neo-progressive, abbiamo celebrato proprio un gruppo londinese, gli
Haken, in cui abbiamo individuato una possibile soluzione per il
disorientamento che sta vivendo il metal, a dimostrazione di come l'Inghilterra
sia ancora capace di avere voce in capitolo. Ma anzitutto c’è da dire che parliamo
di Londra e non di Inghilterra (che è un'altra cosa), e poi c’è da ammettere
che i nostri discorsi sono da intellettuali, scollegati dalla realtà, perché un
gruppo pur valido come gli Haken non potrà mai ambire a raccogliere il
testimone lanciato dall'altro lato dell'oceano: dal classico prog metal dei Dream
Theater (quelli che ad oggi rimangono gli artisti più popolari del metal: gli
ultimi veri classici dopo le glorie degli anni ottanta) alle oscure
elucubrazioni dei Tool (fra post-metal e progressive: indubbiamente la
band più importante del nostro genere), dai Neurosis e il post-hardcore
agli Isis e il post-metal, dagli Agalloch, Wolves in the
Throne Room e l'U.S. Black metal alla catarsi definitiva dei Sunn O))).
Non
è solo una questione di gruppi: è l'attitudine a fare la differenza. All'Europa
rimane la classe, il vantaggio di avere la storia dalla propria parte, ma il
mondo di oggi è veloce, brutale, in continuo cambiamento: nelle megalopoli
infinite di America ed Asia si consumano compulsivamente finti cappuccini
in sintetici contenitori "take away", perché non c'è tempo per il tè
delle cinque. Mentre i giovani under 24 (che la crisi e le
criticità dei nostri tempi le conoscono bene) stanno in questi giorni
raccogliendo le firme per un nuovo referendum per rientrare a breve in Europa, e
Scozia e Londra (i centri "vivi" della Gran Bretagna)
stanno preparando il terreno per l'indipendenza, la “zattera Inghilterra” si
accinge ad affrontare questi mari tempestosi solcati dai transatlantici e le
portaerei delle economie asiatiche ed americane: vecchi ed impauriti che si
sentono sulla cima del mondo, un po' come le pulci sulla testa…