In un’ipotetica galleria di improbabili
confronti fra celebri esponenti del rock e loschi figuri dell’heavy metal,
di certo non troverebbe un facile gemellaggio un artista come David Bowie.
Ne abbiamo già parlato (ahimè) in occasione della sua morte, avvenuta lo scorso
10 gennaio, accennando a quanto pochi siano i contatti fra l’universo metal e
il mondo artistico del Duca Bianco, peraltro grandemente stimato anche
dalle nostre parti.
Tuttavia un possibile (quanto azzardato) raffronto
potrebbe inscenarsi con i Marduk, non tanto ovviamente fra le due
carriere, ma almeno per quanto riguarda due singole tappe dei rispettivi
percorsi: “Heroes” e “Nightwing”.
“Heroes”, uscito nell’anno di grazia 1977,
è una pietra miliare del rock, la cui importanza è oramai cosa nota a tutti.
Sebbene molte delle intuizioni in esso contenute fossero già state esposte nei
precedenti “Station to Station” e “Low” (secondo alcuni il
miglior album di Bowie), “Heroes” si afferma nella Storia come il più
importante crocevia del rock dopo “Sgt Pepper’s Lonely Hearts Club Band”:
se nel capolavoro dei Beatles il rock si faceva maturo e il suo cammino
si biforcava in due direzioni (psichedelia e progressive), in quello di Bowie
si celebra la fine del rock nella sua forma classica, che lascerà il posto alla
new wave, al synth pop, all’alt-rock che predomineranno negli anni ottanta. Con
una mano ovviamente del produttore/collaboratore Brian Eno, che tanto ha
influito nella gestazione di queste sonorità: suoni elaborati, sintetici, forme
minimali prese in prestito dalle sperimentazioni elettroniche dei Kraftwerk
e dell’avanguardia berlinese ed un approccio astratto che toglierà al rock
quella patina di polvere che si era iniziata a formare a partire dalla seconda
metà della decade settantiana. Ed ovviamente un Bowie in stato di grazia,
diviso fra voce (sempre più baritonale, obliqua e distante dalle vocalità
stridule e romantiche dell’era-Ziggie) e sax, tastiere e chitarre.
Come paragonare tutto questo al black metal
furibondo dei Marduk? Guardando non alla scorza esteriore, ma alla struttura che
vi sta sotto. Fra i tanti suoi meriti che non stiamo ad elencare (quanto detto
nel paragrafo precedente è da intendere solo come la punta dell’iceberg
di un mondo artistico che potrebbe essere descritto in un saggio a parte),
“Heroes” ha anche un’altra caratteristica: è un’ opera che si sviluppa
dialetticamente. E’ infatti suddivisibile in due parti, sintesi ed antitesi:
una prima composta da canzoni per certi aspetti di facile presa (fra cui
troneggia la leggendaria title-track) ed una più riflessiva e
sperimentale, praticamente strumentale, in cui dominerà il verbo ambientale che
di lì a poco sarebbe stato teorizzato dallo stesso Brian Eno nei suoi lavori
solisti.
I Marduk, dal canto loro, venivano dal loro
album "forte", quel "Heaven Shall Burn…When We are Gathered"
che li lanciava di diritto fra le stelle più promettenti della costellazione delle
black metal band scandinave degli anni novanta. Un sound che nella
manciata di pochi album si era fatto sempre più potente e veloce,
paradossalmente meno vario e melodico rispetto agli esordi. I Marduk vincevano per
lo più per un approccio professionale che superava il classico standard “raw”
delle produzioni dell'epoca: un approccio che permetteva ai nostri di esprimere
un songwriting ispirato ed oramai personale, complice l'ugola
coinvolgente di Legion, un riffing di chitarra agguerrito ed una
sezione ritmica con i controcazzi. Con "Nightwing", pubblicato
nel 1998, i Nostri riuscirono a non ripetersi, confezionando una delle
loro opere più riuscite, espressione del loro momento artistico migliore (che
si esaurirà l’anno successivo con il loro ultimo grande capolavoro “Panzer
Division Marduk”). Ma prima di approdare al sound privo di
compromessi dell’album successivo, gli svedesi videro bene di recuperare quella
varietà che aveva caratterizzato i primi lavori, rileggendola ovviamente alla
luce della maturità e dell'accresciuta padronanza sia degli strumenti che dei
medium espressivi.
Ma è la struttura, si diceva, ad accomunare
i due lavori. Anche "Nightwing", infatti, presenta uno schema
bipartito, dove la prima parte è composta da brani violenti ed aggressivi
(racchiusi dalla temibile dicitura “Chapter I: Dictionnarie Infernal” e
tutti più o meno incentrati su tematiche sataniche e sull’odio verso il Nazareno),
e la seconda invece da una serie di episodi più riflessivi ed atmosferici accomunati
in un concept dedicato a Vlad “Tepes” Drakul, fra l'altro
continuazione di un brano presente nell'album precedente ("Dracul Va
Domini Din Nou in Transilvania"). Questa bipartizione agevola
l'ascolto e, per certi versi, è destabilizzante quanto quella che caratterizza "Heroes".
Pensate al capolavoro di Bowie: dopo cinque canzoni
accattivanti caratterizzate da ritmi incalzanti e melodie memorabili, ecco che
ci imbattiamo in “V- 2 Schneider”, alienante strumentale a base di
sintetizzatori e sax dissonante, non a caso dedicata a Florian Schneider
dei Kraftwerk. Se una pausa ci può stare, “Sense of Doubt”, maestrom
ambientale di sole tastiere, rincara la dose, immergendo l’ascoltatore in
un’atmosfera tesa e funerea. “Moss Garden” (altra strumentale: una
costruzione astratta tratteggiata da strumenti etnici orientali) e subito di
seguito “Neukoln (bozzetto espressionista, ancora una volta squarciato
dal sax ululante di Bowie) sono forse davvero troppo per chi si aspettava una
speculare seconda parte dell’album fatta di hit da cantare a
squarciagola. Infine, inaspettatamente, come a voler troncare di colpo il trend
appena avviato, come un raggio di luce che fende i cieli grigi della Berlino metropolitana
e mitteleuropea, si materializza la polvere del deserto, il miraggio di un
brano solare come “The Secret Life of Arabia”, che ripristina il tutto
con ritmi e melodie pop che mai e poi mai, a questo punto, ci saremmo
aspettati.
Con le dovute proporzioni (perché i Marduk
non cambieranno le sorti del rock, ma nemmeno quelle del black metal), l’ascoltatore
di “Nightwing” si imbatte in un discorso analogo. Anzitutto un plauso alla incredibile
title-track, che, posta al centro esatto della scaletta, funge da trait
d’union fra le due facciate. Non ritengo che il leader Morgan
Steinmeyer Hakansson sia il chitarrista più ispirato delle fosche lande del
black metal, ma in questo brano si supera, sfoggiando uno dei riff più
coinvolgenti della sua produzione artistica. Su quello stesso riff si
stampa lo screaming lacerante di Legion che nella prima strofa recita
“Nightwing – Fly across the sky” e più avanti, sempre sullo stesso riff,
“Nightwing – storm through eternity”. Come a dire che il Male è ovunque, il
Male è eterno. Ed il dinamismo del pezzo (epico all’inverosimile) va a
supportare questa sensazione, facendoci immaginare il Male come un Angelo
oscuro che sfreccia in cieli notturni attraverso lo spazio e le epoche: un simbolico
ponte spazio-temporale che ci permette di accedere alla seconda parte
dell’album, quella dedicata al principe Vlad “l’Impalatore” (denominata
“Chapter II: The Warlord of Wallakia”).
Qui la nostra calata in un passato cruento e
sanguinario ha inizio: “Dreams of Blood and Iron” richiama proprio
quella “Dracul Va Domini Din Nou in Transilvania” dell’album precedente, da cui
il concept aveva preso avvio: incedere marziale della chitarra, tempi
solenni, lo strepitare furibondo di Legion (di blast-beat nemmeno
l’ombra). Se il classico “brano lento e d’atmosfera” c’è sempre stato in un
album dei Marduk, sarà una piacevole sorpresa sentir partire, senza stacchi, il
brano seguente, “Dracole Wayda”, che non accenna ad accelerare i tempi,
ma anzi li mantiene lenti e possenti, con un bell’intermezzo in stile Morbid
Angel “fangosi e schiacciasassi”. Certo, chiedere un ulteriore brano lento
ai Marduk sarebbe stato troppo e dunque, a spezzare l’atmosfera (come aveva
fatto “The Secret Life of Arabia”, questa volta però portando non sole ma
sangue!) troviamo una killer-song come “Kaziclu Bey (The Lord
Impaler)”. Il conoscitore dei Marduk del resto sa che due pezzi lenti sono
stati anche troppi e che dunque c’è da aspettarsi un finale di album senza
sconti quanto a melodia e “carinerie”, ed invece ecco che si materializza un
mesto arpeggio (elettrificato, of course) che introduce l’ottima “Deme
Quanen Thyrane”, la quale presto si impennerà in una nuova terribile
sfuriata, per poi placarsi nuovamente nella porzione conclusiva. A chiudere le
danze, a rincarare la dose per i più scettici, “Anno Domini 1476”, l’episodio più evocativo del lotto: drumming
marziale, Legion declamatorio, cori ed orchestrazioni da operetta delle
tenebre in dissolvenza, una vera chicca per palati sanguinanti!
Se dunque “Heroes” ha rappresentato
il simbolo più vivido della rinascita per un Bowie che veniva da uno dei
suoi periodi peggiori (la fase post-glam caratterizzata da droghe, cali ispirativi
ed ansia da prestazione), e se proprio nel testo della emblematica title-track
si va a celebrare la speranza, perché in fondo “tutti noi possiamo
essere eroi, almeno per un giorno”, “Nightwing”, in modo speculare, va a
celebrare il trionfo, sempre ed ovunque, del Male, perché, “io sono l’Oscurità
ed anche tu lo sarai, se con me cavalcherai l’Ala della Notte”. Insomma, nel
bene o nel male, c’è speranza per tutti, buoni e cattivi!