Il metal è morto? Il metal è
vivo? Potremmo
discuterne all’infinito, fatto sta che questo 2016 è trascorso quasi per
metà e gli unici scossoni che ci ha regalato sono stati: l’imponente doppio-album
dei Dream Theater, Axl Rose che canta negli AC/DC e un Gods of Metal che ha visto come headliner Korn e Rammstein (vabbuò,
sarebbe poi uscito anche “Arktis” di Ihsahn, che oramai pare sia
l’unico ad avere a cuore le sorti della musica contemporanea, ma questo
purtroppo non fa notizia…).
Cosa dunque pensare? La partita non è giunta
ancora alla fine del primo tempo, pertanto è presto per trarre conclusioni, ma
qualche preoccupazione insorge. Allora mi son detto: “Non ci sto! Devo trovare qualcuno,
qualcosa che ci permetta di sperare per il futuro!” Con metodo scientifico ho allora
ripercorso le recensioni degli album usciti quest'anno all’inseguimento di
qualcosa che possa essere tramandato ai posteri, cercando di non cedere alle
lusinghe delle care e gloriose cariatidi, né di immischiarmi con gruppi di
iper-nicchia o alle primissime armi. Ho così individuato un giusto equilibrio
negli Haken di "Affinity".
Incensati un po' ovunque, ho
deciso di andarmeli ad ascoltare, per misurare il grado effettivo di novità e
freschezza che una band relativamente giovane (nati nel 2007, gli
inglesi giungono quest’anno al loro quarto album) potesse apportare all’arido
panorama del metal degli anni dieci.
Test superato: le mie vetuste orecchie si
drizzano incuriosite e il cuore riprende lentamente a battere. E tutto fin dai
primi istanti, perché il sound degli Haken è frizzante e coinvolgente. Sebbene
infatti si parli di progressive e di musicisti strepitosi, il tutto non
scade nel solito sterile virtuosismo da studentelli iper-dotati appena
usciti dal conservatorio. Né si percepiscono voglia di strafare ed
esibizionismo (e chiariamo una cosa: l’esibizionismo non è un male in sé, ma il
più delle volte esso implica la perdita del focus sul messaggio che realmente
si vuole trasmettere): sebbene a tratti il sound dei Nostri divenga per
davvero intricato, nel complesso il viaggio che ci fanno vivere i sei inglesi è
emozionante nel vero significato del termine, complice le vocalità penetranti dell'ottimo
Ross Jennings.
La band dichiarerà di essersi
ispirata agli anni ottanta ed in particolare ai lavori partoriti in quella
decade da luminari del prog come Yes e King Crimson i cui volti
tanto mutarono nell’atto di affacciarsi all’era della new wave e dei new
romantic. “90125” dei primi, “Three of the
Perfect Pair” dei secondi, i Toto di “Toto IV” e persino la
colonna sonora del film “Transformers” (alla faccia dei nerd!)
sono i riferimenti che il sestetto fornisce per comprendere come si sia
sviluppato, a questo giro, il processo creativo. Ma ci piace poter sostenere
(anzi gridare!) che artisti come Tool, Steven Wilson e Meshuggah
sono oggi colonne portanti del prog-metal almeno quanto Dream Theater, Fates
Warning, Symphony X e Shadow Gallery. Le atmosfere stranianti,
le melodie circolari ed ipnotiche di album come “Aenima” e “Lateralus”,
le vocalità eteree e minimali di Maynard James Keenan, quella capacità
di integrare tradizione settantiana e modernismi (elettronica ed ambient) che è
tipica dell'ex leader dei Porcupine Tree, le sfuriate “matematiche”
degli svedesi: tutto questo messo insieme va a bilanciare alla perfezione le
atmosfere più ariose, le melodie struggenti, ma anche i passaggi più intricati
che richiamano invece la compagine di band sopra citate (in particolare i DT di
"Awake" - e direi infatti che c’è molto Moore-style
in “Affinity”, dall’uso cerebral/minimale di tastiere ed effetti, agli umori
drammatici/esistenzialisti che pervadono il platter). Del resto i temi
trattati sono quelli dell’intelligenza artificiale e del rapporto/scontro
uomo/tecnologia, per questo i suoni futuristici sono d’obbligo.
Dunque un prog intelligente
(ma esisterà poi un prog stupido?) che procede con grande senso della misura,
che sa ben spartire gli spazi fra atmosfera e passaggi più complessi, senza mai
perdere di vista compostezza, eleganza ed impatto emotivo. Non è questa una
recensione, non sto quindi a perdermi nei dettagli che potrete scoprire
navigando in rete (o, meglio ancora, ascoltandovi l’album!), ma ci terrei
comunque a sottolineare la bellezza di “The Architect”, suite di
quindici minuti posta al centro esatto dell’album, proprio quando inizi a pensare:
bravi, ma iniziano ad essere ripetitivi. Ed invece “The Architect” giunge
al momento giusto e compie una svolta indispensabile inserendo elementi inediti
ed inaspettati, come il (quasi) growl ad opera dell’ospite Einar
Solberg (cortesemente dai Leprous) che getta un ponte immaginario
fra il sofisticato prog degli inglesi e il metal estremo scandinavo (ed è
naturale che in questa commistione vengano in mente gli Arcturus).
Quindi un prog che non ha neppure la puzza sotto il naso, che guarda avanti
(non disdegnando partiture elettroniche) ed anche di lato, pescando da bacini
sonori (quello del metal estremo, per esempio) di solito snobbati dagli
ambienti prog, che semmai preferiscono guardare indietro (un vero controsenso,
se ci si pensa bene…).
Una “svolta” necessaria
perché in grado di gettare una manciata di spezie in una pietanza già saporita
di suo, ma che rischiava di divenire stucchevole (si sa, la perfezione dopo un
po’ viene a noia). I sei danno del tu ai propri strumenti: la sezione ritmica
composta dal batterista Ray Hearne e dal nuovo bassista (perfettamente
integrato) Conner Green è precisissima ed al cardiopalma a seconda delle
situazioni, mentre la triade collaudata di Richard Henshall (chitarra), Charlie
Griffiths (chitarra) e Diego Tejeida (tastiere e sound design)
è un turbine di talento melodico e buon gusto. Un eccesso di bravura che
potrebbe ritorcersi contro se la band non lo sapesse compensare con la capacità
di creare veri climax (e in questo aiuta la continua alternanza fra “pieni” e
“vuoti”) e di saper più volte sorprendere.
Come si diceva nella nostra classifica sul “Nuovo Metal”, suonare metal oggi è più difficile, sia perché
l’abbattimento di molti confini lascia a chi suona praterie infinite in cui
muoversi (e in cui probabilmente smarrirsi), sia perché chi ascolta è più
esigente e non ha più un approccio monodimensionale all’ascolto, fatto di
solide certezze ed aspettative automaticamente premiate. Se una volta bastava
infilare, in trentotto minuti di album, un’opener coinvolgente, tre o
quattro brani dai ritornelli vincenti, assolo sfornati in serie ed una
ballata che permettesse di oscillare gli accendini dal vivo, oggi è necessario
saper governare una nuova complessità e risultare personali senza annoiare.
Siamo forse nell’era del crossover per eccellenza, e certamente il
neo-progressive (un movimento che sa far convivere felicemente quattro decadi di rock e di metal, e che sa mettere accanto l'introspezione radiohediana all'eclettismo pirotecnico dei Mars Volta) è uno degli ambiti che può offrire di più nel prestarsi al “collage
dotato di senso”: in questo gli Haken vincono sicuramente la loro sfida.
La vincono risolvendo due
importanti questioni. La prima è che il loro è un metal bulimico,
un metal che non sa a fare a meno di nulla, quando in realtà è noto che i veri leader
non pensano troppo e vanno dritti al punto. Gli Haken vogliono tutto, come
tutto vuole il metallaro dalle vedute aperte di oggi: vogliono essere
introspettivi ed estroversi, dolci ed aspri, melodici e cervellotici, vintage
ma anche avveniristici. Per il momento ci riescono con naturalezza e
disinvoltura, forse baciati dal fuoco e dall’ispirazione del loro momento
migliore. Speriamo solo che conservino questa qualità anche in futuro, perché
non è un equilibrio che si mantiene con il solo mestiere.
L’altra questione è quella
sempiterna dell’innovazione. Pescando un po’ ovunque, gli Haken
appartengono a quella vasta schiera di band che si approcciano alla creazione più
con lo spirito dell’intenditore che dell’artista vero e proprio (con i suoi
pregi e i suoi limiti). Come, a seguito dell’avvento della televisione, un’intera
generazione di scrittori ha perso la capacità di descrivere (ma ne ha acquisite
altre), così oggi, nell’epoca di Wikipedia, deteniamo una maggiore conoscenza,
che però è solo orizzontale: nel senso che abbraccia le nozioni più disparate,
ma non sa (o non è più disposta) a scendere in profondità. Ogni anno, grazie agli
strumenti informatici di condivisione delle conoscenze, l’Uomo perde un
pezzetto di memoria e di capacità di attenzione: del resto diviene inutile
ricordare se in ogni momento è possibile accedere ad una fonte di informazione.
E questo ovviamente inibisce la riflessione, la capacità di mettere insieme le
cose e trarre nuove combinazioni, nuove idee, in una parola: innovare. Ma se
gli Haken non inventano nuovi stilemi, sono bravi nel cristallizzare un
altro passetto avanti collettivo del metal, istituzionalizzando quello che
è un insieme di cose che non era stato ancora del tutto formalizzato. Per
esempio calare l’introspezione wilsoniana in mezzo ai
funambolismi prog o a vere e proprie progressioni djent è una mossa che
permette di conferire profondità psicologica ad un genere che spesso preferisce
concentrarsi sull’intelligenza di scrittura e sull’esecuzione. Solo dei grandi “sarti”
come gli Haken sono in grado di ricomporre con classe e personalità questo “set
di tessuti”, e ciò potrebbe essere un nuovo punto fermo da cui poter ripartire.
Quale futuro dunque per il
metal? Gli
Haken rappresentano un bel terreno di avanguardia da poter battere, ma non saranno
di sicuro chiamati a fare gli headliner alle prossime edizioni dei
festival estivi: il loro neo-progressive, così intelligente e ben costruito in
ogni singolo frangente, ma privo di hit di facile presa, di ritornelli agilmente
memorizzabili, di brani che possono divenire classici per l’immaginario
collettivo, rischiano di rimanere un ascolto da salotto da compiere comodamente
sul divano, in cuffia, magari davanti a tè e pasticcini.
Significa dunque questo
usufruire di metal oggi?
Assaporare pietanze elaborate nelle quattro mura di casa e poi agitare i nostri
smart-phone davanti alle baracconate ed ai fuochi di artificio dei Rammstein?
Probabile. E a dirla tutta
non è nemmeno il peggiore degli scenari…