In un’ipotetica galleria di improbabili
confronti fra celebri esponenti del rock e loschi figuri dell’heavy metal,
potrebbe essere individuato un disconnesso terreno di intersezione fra le sfere
artistiche di David Byrne, leader dei Talking Heads, e Steve
Austin, deus ex machina dei Today is the Day.
La reazione da parte vostra, o nostri fedeli
lettori, sarà la solita: ma che cazzo state dicendo? Com'è possibile
associare i Talking Heads, pionieri della new wave americana, massimi esponenti
e precursori della fusione fra pop ed avanguardia, e i terroristi sonori di
Nashville, fautori di una musica che, muovendosi fra noise, hardcore, grind,
math-rock e progressive, è, a conti fatti, inclassificabile? Noi di Metal
Mirror ci siamo riusciti, e le parole-chiave sono "paura"
e "terrore".
Musicalmente le due entità non hanno niente
in comune. A beneficio dei più distratti rammento: i Talking Heads maturavano
verso la fine degli anni settanta sull'onda delle nuove tendenze punk e post
punk, anche se poi, a partire dal look da nerd del loro
istrionico leader David Byrne, niente avevano a che spartire con le crudezze e
con il nichilismo delle correnti appena citate. L'idea che Byrne e i suoi
colleghi (conosciutisi alla Rhode Island School of Design di Providence - guarda
lì i fighetti!) era quella di un rock sofisticato, dal piglio intellettuale,
che divenisse rappresentazione delle nevrosi dell'uomo (post)moderno. Le
sonorità facevano incetta di ritmi funky, elementi etnici e vocalità che
raffiguravano tutte le sfaccettature e le contraddizioni dei nostri tempi. Il
più delle volte in modo ironico, cinico, ipercritico, ma con botte di amarezza,
talvolta, che non rendevano, ad uno sguardo meno superficiale, l'ascolto fra i
più spensierati e rassicuranti. La dimostrazione è che la più grande band di
oggi, la più efficace nell'incarnare i mali della nostra contemporaneità, abbia
scelto il proprio nome ispirandosi proprio ad un brano dei Talking Heads: la "Radio
Head" contenuta in “True Stories”.
Musicalmente parlando, potremmo dire “niente
di nuovo sotto il sole”, visto che già da anni David Bowie e Brian
Eno (il primo, con la trilogia berlinese, il secondo con i suoi lavori
solisti) avevano inaugurato l'era della “proto-new wave”, riverniciando a nuovo il rock
e liberandolo dalle sue forme classiche ereditate dagli anni sessanta e settanta. La novità stava
nel talento di Byrne, geniale e bizzarro cantore dell'era post-moderna,
macchietta sempre pronta allo sberleffo, capace di saltare con disinvoltura ora
nella parte del carnefice, ora in quella della vittima: in
pratica in tutti ruoli che lo psicodramma inscenato dalla nostra società
assegna. Ecco, fissiamo un attimo l'attenzione su Byrne, rigorosamente in giacca e completo
(in totale opposizione alla figura “maschia” del rocker) che sculetta sul palco
e canta in modo farsesco il classico "Psycho Killer", teniamo
bene a mente questa scena e spostiamoci a Nashville, teatro della sconfortante
manifestazione artistica dei Today is the Day.
Steve Austin, classe 1966, figlio di due
operai della Chrisler, anch’egli andava benino a scuola, anche se noi, prima di
definirlo un secchione, potremmo vederlo
come un genio, alla luce di quello che farà successivamente in campo musicale.
Leggenda vuole che, guidando in autostrada di ritorno da un concerto degli U2,
Austin, in preda ad una improvvisa “epifania”, fu “chiamato” dalla Musica
e così decise di lasciare l’università (quelle del Missouri, che fra l’altro
frequentava con successo e con votazioni decisamente alte). Dopo varie
vicissitudini, nel 1992 riesce finalmente a fondare i Today is the Day, che,
senza esagerare, potremmo definire una delle incarnazioni più geniali del Sacro Verbo del Metallo. Austin non farà mai due volte lo stesso disco e nel corso di
una carriera più che ventennale la sua creatura assumerà forme sempre diverse, oscillando
attorno ad un baricentro fatto di furioso hardcore, riletto talvolta in modo
noise-avanguardistico, talvolta assecondando pulsioni progressive, in una gamma
di suoni che va dalla musica da camera al death metal senza compromessi. Ma a
rimanere costante in tutto questo percorso è la sensazione di fondo: terrore.
Terrore innanzi ad una società che distrugge ed aliena l’individuo, taglia a
fette la sua psiche e martoria la sua carne.
“Supernova” (1993), “Willpower”
(1994), “Today is the Day” (1996), “Temple of the Morning Star”
(1997), “In the Eyes of God” (1999), “Sadness Will Prevail”
(2002), giusto per limitarci alla prima parte della
produzione discografica della band, sono dei saggi penetranti di un mal di
vivere che raramente troviamo in altri ambiti, fuori e dentro il metallo. Al
centro delle costruzioni dei Today is the Day (siano esse sontuosi
monumenti sonori o semplici schegge impazzite) si erge in modo perverso la voce
dilaniata e dilaniante di Steve Austin. Ho utilizzato i termini
“dilaniata” e “dilaniante” non per artificio retorico, ma proprio per
descrivere l’ambivalenza psicologica dei “personaggi” da essa rappresentati.
Come si diceva prima con Byrne: vittima e carnefice.
Da questo punto di vista, lasciando perdere King
Diamond (troppo “letterario” per fare al caso nostro), nel metal vi è un
illustre precedente: Mike Patton. Dotato di una ampiezza vocale estesissima,
egli si distinse per la straordinaria capacità di saper adottare i registri più
disparati, dal falsetto alla voce grossa, e di saper dunque passare in un attimo da
toni minacciosi a dimessi (che ben si sarebbero sposati, via via, alle folli
messe in scena delle sue numerose band, dai Faith No More ai Mr
Bungle, passando per Fantomas, Tomahawk, Peeping Tom, carriera solista e collaborazioni varie). Ma è anche vero che la sua
versatilità poggia su solide basi intellettuali (certe arditezze
free-jazz, per esempio) e che quindi la sua voce, prima ancora di essere
rappresentazione di una psiche frammentata nei suoi “Io contrastanti”, diviene “astrazione” e persino “gioco" artistico. Relativamente al nostro discorso, è
dunque più pertinente tirare in ballo le vocalità di Jonathan Davis dei Korn
(che a guardar bene discende artisticamente da Patton): egli, con la sua ugola
versatile, trovò il modo di esprimere nevrosi e manie che poi avrebbero
riflettuto efficacemente quelle di una intera società (da qui il successo della
sua band e l’innalzamento, fra i più giovani, della sua figura ad icona
assoluta del metal moderno). Ma nel gioco “ora sono vittima, ora sono
carnefice”, a prevalere è il ruolo della vittima, quale Davis in effetti è stato
(ricordiamo che il cantante ha vissuto un’infanzia drammatica, fra separazione
dei genitori, gravi problemi di salute ed abusi sessuali da parte del vicino di
casa).
Patton è dunque un intellettuale e Davis
solo un ragazzo disturbato che il successo ha reso una star disturbata, mentre
Austin è un cinico ed acuto osservatore della realtà che ben riesce a sublimare
il suo malessere nella musica: un po' come quei chirurghi che Freud
vedeva come sadici che tuttavia riuscivano nella professione a riconvertire in
modo costruttivo le pulsioni distruttive. Austin, più di Davis, rende in
maniera vivida e metaforica, tramite il medium dell'esasperazione, questa
"doppia faccia" dell'uomo contemporaneo, triturato da una società che
aliena, frustra, dissocia, rende tutti complici di un sistema autodistruttivo
che si alimenta attraverso i canali della competizione (che essa avvenga per
ambizione o per sopravvivenza poco importa). Incasellata a forza in schemi e
modelli predefiniti, la psiche prima si contiene, poi esplode. Ed è questo
processo, dal contenimento all'esplosione, passando dall'inadeguatezza, dalla
rabbia o dalla disperazione, che ci va a descrivere Austin con la sua musica
destrutturata e destabilizzante: una musica priva di coordinate e perennemente
sull'orlo del collasso, con un controllo sulle cose mantenuto a fatica. Tale e
quale è l’equilibrio mentale dell’uomo delle società complesse dell’Occidente:
un ordine precario destinato o alla compressione o ai capolinea dell'autodistruzione
e/o della follia omicida.
Protagonista assoluto di questo teatro
trasfigurante, dove tutto viene esagerato in modo parossistico, è quel canto
delirante che passa con estrema scioltezza dal grido isterico al growl,
dal singulto dimesso al monologo farneticante: una galleria di personaggi che
vanno dal colletto bianco frustrato davanti al pc all'operaio schiavizzato in catena di montaggio; dalla casalinga annoiata al bambino che non rende a
scuola e vorrebbe ammazzare genitori e professori; dal represso sessuale che si
masturba su internet al violentatore della notte; dall'indigente che vive di
espedienti al manager cocainomane fagocitato dalle esigenze del business:
nessuno trova scampo e ristoro in uno stato avanzato di putrefazione umana e
sociale in cui il terrore vero e proprio (quello degli occhi sbarrati
innanzi ad una minaccia mortale) ha preso il posto della paura che
genera nevrosi.
"Fear of Music" era il
titolo di un album dei Talking Heads pubblicato nel 1979 dove si mettevano
alla berlina aspetti ed abitudini del quotidiano (i titoli delle canzoni sono eloquenti: “Mind”, “Paper”, “Cities”, “Air”,
“Animals”, “Electric Guitar”, “Drugs” ecc.): uno sguardo che a tratti si
fa scherzoso, a tratti irrequieto, a tratti inquietante ed ansiogeno. Byrne,
che non è un terrorista sonoro come Austin, si muove con i versi e i gesti di un
giullare intento ad intrattenere ed impersonare il solito bizzarro circo di clown,
freak, acrobati, ammaestratori di animali che non sono altro che la
società che precede di almeno venti anni quella descritta dai Today is the Day:
un mondo forse meno estremo e disperato, ma nel quale erano già stati piantati
i semi che avrebbero portato agli odierni derelitti scenari.
Byrne recita con intelligenza, eleganza e
spirito di osservazione, elevando il pop ad avanguardia: la stessa cosa che in
pratica ha fatto (in modo meno elegante) Austin con il metal. Lo stesso Byrne
sosterrà in una intervista di essere molto diverso nella vita reale e che la
schizofrenia mostrata su opere e palco appartiene solo e solamente al suo alter
ego artistico. Penso che la stessa dinamica animi l'operato di Austin, autore
troppo fine ed intelligente per essere fino in fondo quella figura barbarica
che emerge dalla sua musica.
Quello che infatti fa paura dei Today is the
Day è che essi costruiscono per distruggere, e che quando pensiamo di aver
capito le loro intenzioni, giunge senza preavviso il momento in cui tutto deraglia
e il controllo viene perduto: perché non si ha delirio senza raziocinio.
David Byrne e i suoi Talking Heads non ambivano a traumatizzarci,
accontentandosi di farci riflettere, stillando gocce di inquietudine per
alimentare la riflessione stessa. Ad accomunare le due entità è la volontà di
mettere in scena il bislacco balletto delle nostre contraddizioni.
Si salvi chi può.
Si salvi chi può.