In una ipotetica classifica dei dieci migliori album non metal che dovrebbero ascoltare anche i cultori
del metallo, inseriremmo sicuramente questo “Not Available” dei Residents.
In realtà i Residents sono quanto di più lontano ci possa essere dal metal, ma
spesso vengono tirati in ballo per sminuire il preteso potere traumatico
che si presume possa possedere il metal.
Mi spiego meglio: se vi
capita di partecipare a dei forum online su siti di musica, avrete
notato sicuramente la classica testa di cazzo (generalmente un poco più che
diciassettenne che ha iniziato relativamente da poco ad ascoltare musica in
modo consapevole) che entra sterilmente a gamba tesa nella discussione e poi
viene pesantemente offeso. A quel punto, costui, che ha già finito le argomentazioni,
tira fuori il nome di Frank Zappa per cercare di far azzittire tutti
(della serie: io ascolto Frank Zappa, quindi me ne intendo, quindi ho ragione
io). Se si sta parlando di metal (magari in un sito non specializzato), il
personaggio in questione si appella invece ai Residents.
Il fatto è che sia Frank
Zappa che i Residents sono grandissimi artisti e giustamente vengono chiamati
in causa per il loro status incontestabile di entità geniali e fuori dagli
schemi. Chi li ascolta, quindi, si presuppone sia intelligente e buon
intenditore. Forte di questa convinzione e mosso da chissà quale inviolabile legge
della natura, il nostro eroe deve necessariamente fare polemica e propinare l’antica
e consunta novella della vacuità del metal: che il metal è un genere
per bambini, che è una farsa ed una presa in giro e che voialtri non sapete
cos’è la vera musica destabilizzante, andatevi dunque ad ascoltare i Residents!
Ok, me li sono andati ad ascoltare: e allora?
I Residents sono un grande
gruppo e comprendo benissimo perché vengono menzionati ogni volta che c’è da
fare un esempio di musica destabilizzante: perché lo sono per davvero.
Partiamo dalla premessa fondamentale: non si sa chi essi siano, quale sia la
loro identità, né conosciamo i loro volti, visto che amano comparire in
pubblico mascherati (la trovata più nota è quella delle maschere a forma di
grandi bulbi oculari). In più c’è da considerare la logica profondamente
anticommerciale che ha caratterizzato la loro vastissima produzione
discografica: una serie sterminata di prodotti divisa fra album, singoli, EP,
collaborazioni e progetti multimediali. La loro opera è in definitiva una
ironica, intelligente e feroce critica alla cultura pop e rock ed essa
si traduce nella sistematica decostruzione degli stilemi stilistici
esistenti: smontando, rimontando, trasfigurando e deformando l’esistente e
riconsegnandocelo in una forma totalmente stravolta e, diciamola tutta, pure inquietante.
Le composizioni dei Residents, spesso costruite con l’arte del collage,
si muovono totalmente al di fuori di ogni riferimento conosciuto e seguono un
filo logico più concettuale che musicale.
Prendiamo “Not Available”,
comunemente considerato il loro capolavoro. Sono note le vicissitudini che
hanno preceduto il suo “lancio” sul mercato: registrato nel 1974 è
rimasto nei cassetti per diversi anni (“Non Disponibile” appunto), per poi
essere finalmente pubblicato nel 1978. Più che innovativo o “avanti”,
potremmo definire “Not Available” “fuori dal tempo”, talmente al di là dei
canoni conosciuti che è impossibile contestualizzarlo, temporalmente e
culturalmente: quella dei Residents è infatti una non-musica autoreferenziale
e totalmente scollegata da altri ambiti, pertanto insensibile al trascorrere
del tempo, estranea alle mode ed alle tendenze. Potremmo definirla musica sperimentale,
d’avanguardia. Nei fatti essa si articola in una serie di “situazioni”
che si susseguono senza soluzione di continuità, a prescindere dalla “dimensione
brano”, che per i Residents è una categoria superata. Il corpus sonoro si
compone di percussioni (anche elettroniche), fraseggi di tastiere (spesso
dissonanti), pianoforte, fiati, tutto ovviamente assemblato in modo non
convenzionale. E poi le voci: deformate, doppiate, fantasmatiche,
alienanti, esse sono lamenti, nenie, parlottii sconclusionati che sembrano le
testimonianze lasciate da dei dannati che si affannano in tortuosi gironi
danteschi, inconsapevoli della loro tragica condizione, ripetendo gesti e
parole in un’eternità senza senso. A destabilizzare, quindi, non sono solo i
continui cambi di scenario che sballottano l’ascoltatore da uno stato mentale all’altro,
ma anche quella sensazione di infelicità che trasmettono quelle voci portatrici
di una visione farneticante e priva di una soluzione (prima ancora che di una
speranza), proveniente da chissà quale dimensione estranea. Un’angoscia
senza redenzione, quella dell’ascoltatore, che viene a trovarsi estraniato
e privato di ogni possibile appiglio per capire dove si trova e codificare
l’esperienza che sta vivendo. Per tutte queste ragioni (musicali e non) i
Residents sono considerati destabilizzanti.
Detto questo c’è da chiedersi
cosa ci azzecchi tutto ciò con il metal. Purtroppo la questione origina
da un grande equivoco in cui spesso cade chi non ascolta metal. L’equivoco è il
seguente: pensare che chi ascolta metal lo faccia per scioccarsi, per inseguire
il “frastuono per il frastuono”, per cercare emozioni forti date da immagini
forti come può essere quella di Satana, escludendo a priori che il metal
possa invece offrire contenuti, idee, messaggi, innovazione e creatività. Ma
non solo: il metallaro gode in serenità e disinvoltura di ciò che gli altri devono
affrontare con impegno e stomaco. Chi è stato in campeggi di festival metal si
può rendere tranquillamente conto come il metallaro, pur accingendosi ad
assistere a molte ore di musica dal vivo, serenamente si svegli, si lavi, si
vesta ascoltando metal, e come la sera si spogli, si lavi, si addormenti
ascoltando metal. Senza pensare un momento di essere trasgressivo, dando la sua
musica per scontata, come l’aria che respira.
Il metal può assumere tante
forme ed a volte può divenire davvero estremo, ma c’è sempre un codice del
rispetto, una serie di regole (certe dette, altre non) a cui bisogna
attenersi. Un’orchestra o discreti inserti di elettronica, per esempio, per
quanto elementi storicamente estranei al metal, sono oggi accettati ed
addirittura benvenuti. Gli scossoni, semmai, si hanno quando il codice del
rispetto viene calpestato. E’ il caso eclatante di “Load” dei Metallica:
mai nessun altro è riuscito a destabilizzare il popolo metallico quanto i Four
Horsemen in quella circostanza. I Nostri di punto in bianco si presentarono
con i capelli corti, il completo, gli occhiali da sole e il sigaro in bocca. Logo
storico abolito, copertina di un’insensatezza unica e un pugno di canzonette
appena orecchiabili. Non paghi, l’anno successivo ribadirono con “Reload”:
una raccolta di brani figli delle medesime sessioni di registrazione. Sacrilegio
nel sacrilegio: rifare “The Unforgiven” in versione country (la
deprecabile “The Unforgiven II”). Un altro caso di destabilizzazione fu
“Falling into Infinity” dei Dream Theater, album non rigettato
con violenza come l’accoppiata “Load”/”Reload”, ma fin dall’inizio non
accettato: per la “semplicità” dei nuovi brani? Per l’eccessiva orecchiabilità
degli stessi? Era l’approccio commerciale che guastava gli animi? Fatto sta che
anche in quel caso, il fan dei Dream Theater (e non solo) si sentì tradito,
destabilizzato. Ultimo esempio che portiamo alla vostra attenzione è “Chameleon”
degli Helloween (fra l’altro in seguito oggetto di rivalutazione): album
nelle intenzioni onesto, ma che ebbe l’ardire di strizzare l’occhio al pop, all’hard-rock,
al jazz ed al progressive. Un esperimento che palesò un certo coraggio, ma
l’operazione non ebbe successo e quello che ne seguì fu l’allontanamento immediato
del cantante Michael Kiske, promotore del cambiamento, ed il pronto
rientro nei binari del power-metal più classico.
Queste dunque sono le cose
che destabilizzano il metallaro: la violazione del codice d’onore. Nel thrash metal
non si può essere commerciali, nel progressive non si può essere sempliciotti,
nel power non si può essere troppo sperimentali ecc. Con il tempo queste
convenzioni si sono andate allentando, ma in una certa misura esse permangono e
vanno a delimitare cosa è concesso e cosa no. Detto questo andremo adesso ad
esplorare il problema anche da un'altra visuale: andando a toccare con mano
qualche caso in cui il metal può essere considerato, da un punto di vista di
contenuti o di messaggio, destabilizzante.
L’esempio per eccellenza di
questo stato di cose è la famigerata “Angel of Death” degli Slayer,
messa sotto accusa per il celebre testo in cui Hanneman descriveva senza
tante limature le torture a cui venivano sottoposti i deportati nei campi di
concentramento nazisti. Le polemiche sul testo, soprattutto al di fuori del
metal, hanno sempre sotterrato tutto il resto, ingiustamente, perché si parla
di una canzone che, a livello di contenuti, può essere considerata fra le più
importanti nel nostro genere preferito. Essa è l’opener e la punta di
diamante di “Reign in Blood”, un album che ha fatto epoca e grazie al
quale gli stilemi del metal estremo avrebbero finalmente assunto una forma
compiuta: non più in maniera raffazzonata tipo Venom, ma in modo
scientifico e consapevole. Ed “Angel of Death” è l’emblema di tutto questo,
andando a descrivere il dinamismo e la perfetta integrazione fra la locomotiva
ritmica (con più di un’invenzione da parte del maestro Lombardo) e la
controparte chitarristica (fatta di riff ultra-massicci ed in continua
evoluzione): un insieme di cose che rappresenterà nella sua essenza la
grammatica del metal estremo a venire, con più un bel ritornello ed una cavalcata
centrale storcicollo. Perché dunque fermarsi al testo che, a dire del suo
autore, fu scritto su temi “forti” solo per adeguare la componente lirica alla
violenza della musica? Se i versi avessero parlato di zombie, per il
metallaro medio sarebbe stato probabilmente lo stesso, perché egli non si
avvicina al pezzo con spirito dissacrante, né tanto meno vi ricerca le emozioni
di un testo che rievoca delicati aspetti della nostra storia recente. Andatevi
ad ascoltare i Residents!, griderà l’ignorante che non è consapevole della
portata innovativa di quel brano.
Resta il fatto che se dovessi
fare un viaggio in macchina con i miei genitori, preferirei, per rispetto loro
e per le loro orecchie, mettere in filo diffusione un album dei Residents che uno degli Slayer (ma questo solo per
ragioni cacofoniche). Mi ricordo che quando vivevo ancora con i miei genitori,
una cosa che faceva incazzare mia padre erano i Cradle of Filth: gli
urtava i nervi la voce di Dani Filth, sia nella versione mitraglia che
in quella putrefatta, magari corredata da cori angelici o gemiti femminei.
Saranno gli organi da chiesa, le sporadiche invocazioni, l’orgia blasfema di
suoni messi insieme, fatto sta che alle orecchie non allenate i Cradle of Filth
possono suonare davvero fastidiosi. La cosa divertente è che nel metal i Cradle
of Filth sono considerati un innocuo fenomeno commerciale, quasi “pop” e
vengono persino irrisi per il loro look pagliaccesco! Ed ecco dunque un
altro equivoco: magari mio padre all’epoca, mentre bestemmiava contro quei bestemmiatori,
pensava che suo figlio fosse solo un coglione che voleva essere un “ribelle”
per partito preso, ma che presto avrebbe messo la testa a posto. Non capiva che
in realtà quello che apprezzavo dei primi album dei Cradle of Filth erano le
composizioni, il dinamismo e l’intelligenza che le animavano, i frequenti cambi
di atmosfera, il modo di suonare la batteria di Nickolas Barker, persino
le melodie! Se poi mio padre si fosse degnato di leggere i testi, si sarebbe
reso conto di come tutta questa loro presunta iconoclastia potesse essere
tranquillamente ridimensionata in virtù dello humour (nero) che pervade
i volutamente eccessivi scritti di Dani.
Quanto alla testa a posto,
suo figlio non la mise, dato che di lì a poco avrebbe iniziato ad ascoltare Burzum
e tutto il filone black metal, fino al depressive dei giorni nostri.
Questo filone, sia per i temi trattati (depressione, suicidio, auto-distruzione
sui generis) che per le forme musicali assunte (grida sgraziate, riff
atonali, suoni confusi e dilatati, strutture inesistenti) è forse quello più
scioccante che il metal può aver saputo offrire nel corso della sua più che
quarantennale storia. Un percorso che partiva da una sana ed onesta goliardia,
ben descritta dal testo di “Play It Loud” dei Saxon:
“I was lying on the beach taking the rays
Listening to Deep Purple reminiscing of old days
I was hassled by lifeguard so I
kicked him to the ground
There’s always someone somewhere who’ll try and turn you down
So if you need some action and nothing comes around
Don’t call the doctor turn up the sound
Play it loud
In your neighbourhood
Play it Loud
In your neighbourhood”
Fa sorridere oggi l’immagine
del protagonista del testo che ascolta in spiaggia i Deep Purple a tutto
volume e che viene ripreso dal bagnino, il quale però viene immediatamente
atterrato nel nome del rock e del metal, ma anche di una sorta di
autoaffermazione generazionale volta a contrastare regole ed imposizioni della
società dei “grandi”, dei bigotti e dei benpensanti. Ne ha fatta di strada il
metal ed oggi l’asticella della trasgressione si è alzata ben al di sopra dell’idea
di girare la manopola del volume dello stereo e disturbare il vicinato. C’è chi
ha profanato tombe, violato luoghi di culto, bruciato chiese, chi si è
ammazzato e chi ha ucciso, ma stiamo parlando del contorno, perché se Dead
non fosse stato un grande interprete, del suo suicidio poco ci sarebbe
importato; e se Vikernes non fosse stato un poeta, Burzum non
sarebbe altro che uno dei tanti misconosciuti progetti fallimentari del
sottobosco black-metallico. Beninteso, non è che Burzum ci piace solo perché
le sue composizioni durano dieci minuti e in esse non accade nulla: ci piace
perché troviamo ispirata la penna che ha descritto quelle melodie, la mente che
ha ideato quelle atmosfere. E’ la musica che ci piace, non il personaggio e la
sua storia (la quale ovviamente non ci lascia indifferenti, ma ai fini del
nostro discorso poco conta, anche perché non sarebbe niente di nuovo visto che da
sempre il rock nasce e si sviluppa per mano di personaggi maledetti e tormentati,
anche quelli più celebri e divenuti oggetto di culto per le masse come Jim
Morrison e Kurt Cobain, che rimangono dei grandi artisti a
prescindere dalla loro vita privata).
La mia non vuole dunque essere
una gara di virilità (“questo è più destabilizzante di quello!”), ma c’è anche
da essere realistici: farei ascoltare a chi si destabilizza con i Residents
certe cose di Sunn O))) o di Khanate per vedere se rimane
impassibile. Se infatti per destabilizzazione vogliamo intendere "sovvertimento delle regole" o (dal punto di vista dell'ascoltatore) "perdita di orientamento", sfido io a trovare dei riferimenti dotati di un senso razionale nelle estenuanti derive droniche dei primi (accordi di
chitarra lasciati a vegetare nel vuoto per lunghi minuti - da un certo punto in poi, siamo davvero al di fuori di spazio e di tempo) o nei bozzetti isterici
dei secondi (un fastidioso lento/veloce/niente/lento che procede al di fuori di
ogni criterio logico): sono anch'esse delle forme di ricerca, in fin dei conti, e c'è chi nel ronzio metafisico dei Sunn O))) trova il modo di trascendere il Reale e chi nelle mostruose architetture dei Khanate riconosce una lacerante lettura del post-moderno.
Quindi, come non mi destabilizzano i Residents, non mi sconvolgono Slayer, Burzum o Sunn O))): perché la musica è un regno vastissimo, dove vi sono molte cose che, pur contraddicendosi, non rendono me un ascoltatore contraddittorio se oggi ho voglia di ascoltare qualcosa di classico e domani qualcosa di meno ortodosso. La bellezza di una melodia orecchiabile e rassicurante è necessaria quanto la violenza di una dissonanza: sono aspetti complementari che fanno parte della natura umana, che da essa si rispecchiano nella sfera artistica e che accogliamo nuovamente in noi in quanto fruitori di quella stessa arte.
Quindi, come non mi destabilizzano i Residents, non mi sconvolgono Slayer, Burzum o Sunn O))): perché la musica è un regno vastissimo, dove vi sono molte cose che, pur contraddicendosi, non rendono me un ascoltatore contraddittorio se oggi ho voglia di ascoltare qualcosa di classico e domani qualcosa di meno ortodosso. La bellezza di una melodia orecchiabile e rassicurante è necessaria quanto la violenza di una dissonanza: sono aspetti complementari che fanno parte della natura umana, che da essa si rispecchiano nella sfera artistica e che accogliamo nuovamente in noi in quanto fruitori di quella stessa arte.