I 10 MIGLIORI
ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI ’80)
1983: “CANTERBURY”
In qualsiasi ambiente di lavoro
una delle soddisfazioni umanamente più gratificanti è la stima e
l’apprezzamento per il proprio operato da parte dei colleghi.
Credo che questo assunto si possa
traslare anche nei contesti di carattere artistico.
E ovviamente anche in
quello musicale, a maggior ragione in quanto caratterizzato (almeno da quello
che si può denotare come osservatori esterni) più da invidie e rancori che da stima e collaborazione tra i
diversi personaggi che ne fanno parte.
In relazione a ciò, possiamo evidenziare che nel mondo del metallo è accaduto
che delle band, sottovalutate dal mercato e conseguentemente dalle case
discografiche, abbiano trovato una riabilitazione grazie ad altri gruppi, i cui
componenti sono stati, magari prima di diventare musicisti, loro fans
sfegatati, riconoscendone, anche a distanza di parecchi anni, influenze sulla
musica da essi stessi composta. E in questi casi, si è finito quasi sempre per
rendergli omaggio.
E quale miglior modo per farlo se non attraverso delle
cover?
Il caso dei Diamond Head di Brian Tatler e Sean Harris è forse il più emblematico. Non tutti i fruitori
metallici li conoscevano a fondo prima che Hetfield&co., nel loro Garage Inc. (1998), ne rileggessero
“Helpless” e la straordinaria “Am I Evil?” (due brani contenuti nel loro album
d’esordio “Lightning To The Nations”). Quando uscì quest’album di cover dei
Four Horsemen i DH si erano già sciolti, riformati per soli 3 anni, e ri-sciolti da
altri 4…insomma, un calvario! L’adorazione dei Metallica per la
band britannica venne rafforzata inoltre da alcune dichiarazioni di Lars
Ulrich, che arrivò a dire che la monumentale “Seek&Destroy” fu influenzata
dal riffing di “Dead Reckoning”, altro pezzo della Testa di Diamante. La forza
e la popolarità dei Metallica portò a una rivalutazione, e un conseguente apprezzamento,
verso la band britannica tale da convincere i due fondatori Tatler/Harris a
riproporsi sul mercato…ma questa è storia (peraltro alquanto triste) recente…a
noi interessa fare un salto indietro.
Si, perché con i Diamond Head
intendo chiudere questo primo filone della nostra Rassegna trattando l’ultimo
disco appartenente alla N.W.O.B.H.M.: “Canterbury”,
terzo full-lenght dei Nostri e, lo dico subito, il più controverso. Talmente
controverso da decretarne la morte artistica. E mai “tesoro musicale” fu più
incredibilmente dilapidato. La colpa principale fu senz’altro dell’etichetta
americana MCA, che aveva preso sottobraccio il four-piece in occasione del
capolavoro “Borrowed Time” (1982).
E allora quale fu la grave colpa
della band tale da meritarsi la rescissione del contratto e il risentimento del
popolo metal che fino all’anno prima li aveva osannati??
Fu, credo, quello di evolversi.
Di cambiare. Di voler dimostrare, a se stessi prima di tutto, che erano capaci
di scrivere non soltanto enormi pezzi heavy, ma di fondere con qualità e gusto questi stilemi con
altre influenze. Hard rock prima di tutto.
Risultato? “Canterbury”, appunto:
un album bellissimo, sinuoso, accattivante e coinvolgente. E per certi versi
spiazzante. In realtà il sottoscritto è proprio uno di quei fan del combo
albionico che gli preferisce BT. Non soltanto perché è più “metal”, ma perché ho
adorato quel songwriting complesso, corposo, epico che caratterizzava brani immensi
come la title-track, “To heaven from hell”, “Don’t you ever leave me” e la già
citata “Am I evil?”.
E, onestamente, ascoltando
l’opener di “Canterbury”, la ruffiana ed easy-listening “Makin’ music”, mi
sono anch’io detto: ma questi non sono i DH!! Nel senso che il brano è fortemente (ma
mooolto fortemente) hard-rock oriented, con un chorus (Makin’ music…makin’
music…rock and roll!!) di una banalità, credo voluta, ma nondimeno
disarmante. Certo, c’è la voce sempre ispirata di Harris e un bell’assolo di Tatler
verso la fine, ma insomma…si rimane alquanto perplessi.
Una perplessità che
prosegue anche con la successiva “Out of Phase”, costruita sullo stile della
precedente. Per carità, canzoni più che discrete (tipologia che troverà il suo culmine
nella quarta traccia, quella “One More Night” che aveva tutte le potenzialità
per diventare un singolo da hit parade)
ma davvero molto spiazzanti per chi, come il sottoscritto, aveva amato la
durezza epica del lavoro precedente.
Ma poi, proseguendo nell’ascolto
senza parao(re)cchi(e), ho scoperto piano piano una qualità di scrittura notevolissima.
E che trova il suo primo fulgido esempio nell’oscura “The Kingmaker”, un brano
epico, inquietante, straniante. Che sembra catapultarci direttamente alle
sanguinose battaglie che caratterizzarono il Medio Evo britannico (sensazioni
fortemente richiamate anche dalla splendida copertina del disco). Un brano,
quindi, in cui tutta la visionarietà dei Nostri (profusa a piene mani in
“Borrowed Time”) torna ad emergere prepotente. Soluzioni che, per fortuna,
troveranno ancora tanto spazio nel prosieguo del platter ("To the Devil His
Due”, “Knight of the Swords”), trovando il suo climax nella conclusiva title
track, brano da 10-e-lode, da tramandare ai posteri.
E quindi: hard rock, cavalcate
heavy, influenze orientaleggianti (nella splendida “Ishmael”), brani epici e
maestosi. Il tutto espresso con classe compositiva e leggiadria esecutiva in
appena 40’ di musica.
Sarebbe dovuto bastare per mettere d’accordo critica e
fans, giusto?
No, sbagliato. Evidentemente tutto questo non bastò.
No, sbagliato. Evidentemente tutto questo non bastò.
La prima conseguenza dello scarso
esito commerciale fu il forzato cambio da parte della MCA di Colin Kimberley e
Duncan Scott, rispettivamente bassista e batterista originari del gruppo. Fattore
che fu semplicemente l’anticamera naturale dello scioglimento dell’intera band.
Follia pura.
Non so cosa avrebbero potuto dare
ancora al metal i DH se non avessero avuto queste vicissitudini. Di certo, nel giro
di appena tre anni, furono in grado di realizzare un lascito per il metal
enorme. E questo è sotto l’occhio e le orecchie di tutti.
Non servivano i
Metallica per sottolinearlo. Non serviva ma evidentemente aiutò.
“Canterbury”, seppur non un
capolavoro, è forse il miglior sigillo artistico posto da una band, nata e
cresciuta proprio nella N.W.O.B.H.M., alla Scena stessa (ovviamente Iron a
parte che proprio quell’anno pubblicavano un certo “Piece of mind”).
E forse (a me piace pensarlo!) la loro sventura
artistica è potuta servire anche al pubblico metal a diventare più aperto, più
tollerante e ad accettare con cautela, e senza immediati pregiudizi, cambiamenti
di stili da parte delle band amate.
Credo che questo sia ormai un
concetto acquisito dalla stragrande maggioranza degli ascoltatori. L’evoluzione
e il mutamento, se credibili e frutto evidente di maturazione professionale,
sono il sale dell’Arte in generale (con tutto il rispetto ovviamente per le
opinioni che possono avere i fan sfegatati dei Running Wild…). E la musica
Metal non fa eccezione. Forse nel 1983 ancora non eravamo pronti ad accettare
di buon grado queste virate stilistiche. Un vero peccato.
Ma ora è tempo di lasciare la
Gran Bretagna. Nel 1983 il centro nevralgico del Metal aveva attraversato
l’Atlantico e si era spostato negli States (a luglio era uscito “Kill’em
all”!!), dove la nostra Rassegna sosterrà per un bel po’ di anni.
Ma prima…prima permettetemi una
sorta di interludio. Una pausa utile per lasciare come si deve il tratteggio,
tramite le “nostre cult bands”, della New Wave.
Un intermezzo atto a celebrare, appunto, un’altra grandissima cult band di quella magica ondata. Una band che può fungere da esempio massimo di come le (pseudo) grandi etichette possano rovinare un ingranaggio che funziona a meraviglia (lo abbiamo appena visto con i DH, ma questo è un esempio probabilmente ancora più lampante).
Un intermezzo atto a celebrare, appunto, un’altra grandissima cult band di quella magica ondata. Una band che può fungere da esempio massimo di come le (pseudo) grandi etichette possano rovinare un ingranaggio che funziona a meraviglia (lo abbiamo appena visto con i DH, ma questo è un esempio probabilmente ancora più lampante).
Una band che, alla ricerca
presumibilmente della definitiva consacrazione (dopo aver riscontrato un
successo importante di critica e pubblico, seppur non di massa) decise di
attraversare non solo idealmente, ma ahinoi anche fisicamente, l’oceano che
separa l’Europa dall’America.
Per loro però l’american dream si rivelerà presto un incubo disastroso…