Per una volta la genesi di un genere è lineare: il death nasce dai Death, ovviamente con la mediazione dell’imprescindibile snodo della musica brutale, ossia “Reign in Blood”.
I Death di Chuck Schuldiner proposero però,
oltre all’estremizzazione, anche la disumanizzazione. Mentre nel
thrash-metal slayeriano la “cattiveria” è innanzitutto ottenuta in
termini di impatto sonoro, chirurgico e cadenzato, nel death-metal la
cattiveria diviene un messaggio privo di fisicità, molto cerebrale. Il messaggio del thrash è un messaggio di questo mondo, il death
propone un messaggio sfigurato e restituito a brandelli dall’Aldilà.
Il filtro della morte rende le parole delle non-parole, la voce una
non-voce, il ritmo un non-ritmo.
La trasfigurazione del
trapasso (o almeno di ciò che si immagina esso sia) è il limite fra
thrash e death, ma anche il limite della repellenza come topos lirico.
Gli Slayer, anche quando parlano di cose repellenti (gli esperimenti
sui prigionieri dei campi di concentramento, per esempio), non sono repellenti, non
usano un registro repellente, ma aggressivo: inquietano, sgomentano.
Una differenza simile a quella che sussiste tra il terrore e
l’orrore. Il terrore è psicologico, colpisce lo spettatore, gioca
con la paura, modula la tensione. L’orrore descrive l’impossibile,
si sofferma su dettagli rivoltanti, gioca con l’estetica della
morte, slegandosi da fini prettamente narrativi.
I Death introdussero proprio questo elemento. Un anno prima che i Carcass iniziassero a provocare con le “frattaglie rigurgitate”, i Death avevano già proposto le “budella rigurgitate”. Il thrash canta dell’atto del dare la morte, mentre il death canta della putrefazione. Come suggerisce un titolo degli Obituary: “Slowly We Rot”. Il death non è iperveloce, anche se lo può essere nelle soluzioni ritmiche, è semmai un’inutile soffermarsi su ciò che già non è più: uno studio dei processi che concludono l’esistenza “dopo” che ormai il suo senso è finito.
Questo l’abbiamo già probabilmente detto in altre occasioni: il death metal è una prospettiva utile a rileggere il senso della vita, cioè vedere come il senso stesso della vita si decompone dopo che non c’è più. L’elemento repellente è dato dal contatto tra il mondo post-mortem ed i vivi, anche solo con l’occhio che guarda. “Repulsive, yet so true” dicono i Death subito in apertura con "Infernal Death".
In "Zombie Ritual" si descrive una (forse simbolica) unione tra vivi e zombie, nella quale i vivi traggono stimolo dalla “droga degli zombi” e ne vogliono sempre di più. “I vermi, che crescono abitano i corpi degli zombi, ora infestano la tua mente”. Una frase programmatica del messaggio death: un turbamento cerebrale, uno stimolo alla riflessione sulla morte in senso letterale, un incentivo al guardarsi riflessi nella propria putrefazione e a trarre da questo nuova linfa vitale.
I personaggi del death
sono senza psicologia. La loro psicologia è quella che producono
come effetto dello stimolo repulsivo. La differenza non sta tanto nel
sangue o in quello che accade per giungere alla morte, ma nella
perdita del senso, dell’integrità, della composizione organica.
Ciò che normalmente configura una funzione, un senso, è fatto a
pezzi. E il “pezzo” è appunto l’elemento che in sé
esemplifica la mancanza di senso. Grottescamente il “pezzo” ti
costringe a considerare che il senso delle cose è perso, in maniera
triste e ridicola, smembrando la realtà nelle sue parti. O che le
sue parti, apparentemente esistenti in quanto tali, sono solo
apparentemente unite in un’armonia, finché non interviene un’ascia
o una sega a motore a tagliare a casaccio.
Repellenti non sono né i
vermi, né la sega a motore, né i brandelli. Repellente è la verità
che ciò che è unito si può disunire, che i frammenti non
conservano l'essenza dell'unità e che anche i frammenti, infine,
svaniscono. Diceva Ungaretti in un verso di chiusura: “Neanche le
tombe resistono molto”, per indicare come anche la memoria sia
destinata a decadere insieme ai suoi monumenti, di carne o di pietra,
ed è questa la cosa più squallida. Ossia che la morte copre tutto e che
domina il pensiero di chi vive. Del resto la morte non può
ovviamente essere mai repellente, se non vista, come fenomeno di vita
decomposta, con gli occhi di chi è vivo.
In un celebre film di
Dario Argento, “Inferno”, un personaggio pronuncia questa frase
sibillina: “L'unico grande mistero della vita è che essa è
dominata unicamente da gente morta”. Con questa verità i Death
già smettono di giocherellare con gli zombie e passano ad un grado
diverso di teoria della morte. Ma prima pagano anch'essi il loro
pegno alla merda con la sublime immagine: “Ti guardo
soffocare nel tuo stesso sangue e cago sulle tue budella”. Cacare
sulla merda per disprezzo. Geniale cortocircuito.
Dopo la deflagrazione death dell'esordio, i Death infilano un album come
"Leprosy", che innanzitutto sposta il centro dalla morte alla malattia,
di quelle che ti consumano lentamente (i lebbrosi “si decompongono
mentre respirano”), ma soprattutto propone diversi spunti sul tema
della morte, tutt'altro che monocorde. La bara aperta di “Open Casket” non è una visione macabra per i dettagli raccapriccianti
del cadavere, ma lo è perché esprime la paura che la morte invada la vita. La vita di chi è terrorizzato dal futuro, dall'idea
di non esserci più è come una bara aperta, una morte che è già
pronta e possiede la vita molto prima che l'organismo si decomponga.
Chi ha preso coscienza della morte rimarrà ancorato al passato: più
penserà che il futuro è limitato, più tenderà a vivere di ricordi
e a non avere un vero futuro. L'ossessione che coverà in grembo
sarà quella di essere ridotto, come dice Chuck con un'immagine
mentale molto efficace, a un “sentimento vuoto” (non “di vuoto”, ma
proprio un guscio emotivo rotto e vuoto). Nella morte la repulsione
vera non è quella in cui nuotano i vermi, ma la non-vita. Nello
stesso album si trova “Stacca la spina” ("Pull the Plug"), una canzone
sull'eutanasia, altro spunto della vita che diviene morte, per
superare il dolore terminale: la mostruosità dello staccare la spina
contro la mostruosità, forse maggiore, di far proseguire un dolore
senza futuro fino alla fine di tutto.
Non meno mostruosa è poi
la sorte di chi nasce per morire presto e senza un concreto futuro
di vita soddisfacente. Un popolo di scheletri viventi che moriranno
di fame, senza aver vissuto niente di diverso dalla preoccupazione di
non morire. La vita, pare dire Chuck,
è la punta dell'iceberg di un mondo che è dominato dalla morte.
Perché uno viva, cento devono morire. La tristezza di chi deve
lasciare una vita che ama non è minore di quella di chi non l'ha mai
abbracciata.
Gli spunti di "Leprosy" sul
disagio della vita che si embrica con la morte e che vive della
morte altrui, proseguirono poi nell'album successivo, "Spiritual Healing", dove iniziò la
terza e ultima fase lirica dei Death.
(Continua...)