I
MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL
INTERMEZZO II: “BLACK NO. 1” (TYPE O NEGATIVE)
Seconda
puntata dello spazio dedicato ai tre brani che non siamo riusciti ad
includere nella competizione ufficiale: dopo “We, The Gods”
degli Anathema è la volta di “Black No. 1” dei
Type O Negative, fuori concorso perché non classificabili né
alla voce “metal classico” né a quella “metal
estremo”, le categorie su cui abbiamo costruito le nostre due
classifiche.
Riconducibile
ad un empireo del metal che possiamo impropriamente definire
“alternativo”, l'insolita proposta dei quattro newyorkesi
non poteva per ovvi motivi essere contemplata nella rassegna
relativa al metal classico. Qualche chance poteva invece
esserci per quanto riguarda il fronte estremo, perché in effetti la
creatura di Peter Steele un po' estrema lo è, non solo per i
temi trattati nei testi (depressione, morte, dipendenza da droghe,
sesso scabroso, xenofobia ecc.), ma anche per la sostanza musicale:
doom esasperante a tratti, hardcore/thrash sparato in altri, lugubri
atmosfere orrorifiche a fare da degno contorno!
Eppure
i Type O Negative possiedono anche un seducente lato “pop”
che li rende difficilmente inquadrabili nell'ampia e tortuosa
mappatura del metal. Voce da orco cattivo e pesantezza sabbathiana
si miscelano incredibilmente a melodie orecchiabili, dark fascinoso,
humour nero, pose macho e ruffianerie assortite:
ingredienti che hanno portato la band ad una certa popolarità, e non
sicuramente nelle frange più estreme del metallo. Non potevamo
dunque metterli assieme a coloro che utilizzano il medium del brano
lungo per celebrare seriamente Satana o per sondare gli abissi
della propria derelitta ed agonizzante interiorità!
Eppure
i Type O Negative (hit da classifica e semplicioneria di fondo
a parte!) si sono mostrati fin da subito attratti dai brani
particolarmente lunghi, cosa difficilmente comprensibile se si pensa
che essi non erano certo dei musicisti virtuosi, né hanno mai
badato più di tanto alla complessità, e concettuale e esecutiva,
della loro musica. Già dal debutto “Slow, Deep and Hard”,
con la spregiudicatezza e la verve che contraddistingueva il
carisma del mastermind Peter Steele, i Nostri erano in grado
di confezionare brani assai accattivanti che vagheggiavano intorno ai
dieci minuti. La nostra attenzione si concentra però sulla loro
acclamata opera seconda: quel “Bloody Kisses” che di brani
lunghi ne conta almeno tre!
Uno è
“Christian Woman” (8:57), che parrebbe essere una suite
divisa in tre parti: “Body of Christ (Corpus Christi)” è
un bel brano goth-rock dal ritornello orecchiabile (divenuto non a
caso singolo), “To Love God” è una piccola ballad
acustica e “Jesus Christ Looks Like Me” ne è l'epilogo
elettrico con tanto di cori gregoriani. Una composizione geniale,
azzeccata in tutte e tre le sue componenti, ma che soffre di una
scarsa coesione al suo interno, visto che i tre episodi potrebbero
vivere anche autonomamente.
Un
altro è “Bloody Kisses (A Death in the Family)”, incubo
sabbathiano dalla durata di 10:55. Pur essendo considerabile
come un “brano unico”, la title-track continua ad offrire
uno schema decisamente elementare: qui i Nostri non fanno altro che
ancorarsi ad un canonico formato-canzone e procedere lenti,
dilatando all'inverosimile i tempi (il medesimo approccio con cui era
stata stravolta “Paranoid” nel “finto live”
“The Origin of the Feces”).
C'è
infine “Black No. 1 (Little Miss Scare-All)”, che solca
gli undici minuti e quattordici secondi ed è la più lunga
del lotto. Scelta come primo singolo per promuovere l'album, essa
circolerà anche in una versione ridotta che, nei suoi quattro minuti
e mezzo circa, riassume efficacemente l'essenza della traccia intera.
La lunghezza, del resto, non è mai stata per i Type O' Negative
necessariamente un valore aggiunto: le idee rimangono poche,
semplicemente si tira per le lunghe. Ma ciò non è di per sé un
male se vi è la capacità di azzeccare continuamente strofe e
ritornelli.
Ed è
proprio il caso di “Black No 1”, che brilla di un bel
ritornellone anthemico
(fra i più riusciti della loro carriera) che nasce
dall’intreccio fra il barrito baritonale di Steele (che ripete il
titolo del brano scandendo bene e lentamente le parole) e il
controcanto acido del chitarrista Kenny Hickey (voce
raschiante ed acuta spesso chiamata ad alternarsi a quella del
leader).
Musicalmente
parlando, tutto parte con un giro di basso che non avrebbe sfigurato
in un brano dei Nirvana (del resto quelli erano gli anni), presto
seguito da una chitarra che ripete più o meno la stessa solfa. E’
semmai il carisma vocale di Steele ad illuminare il cammino dei
Nostri, e non è un caso che all'epoca i Type venissero avvicinati
proprio al nome di Danzig: rock scarno al servizio dell'ugola
ossianica dell'ex Misfits. Ma io butterei nel calderone anche
i Melvins, illustre precedente nella rilettura non ortodossa
dei dettami sabbathiani.
Il
drumming di Sal Abruscato è efficace e trasporta il
pezzo con quel mid-tempo ruffiano che è tipico della band.
Completano il quadro le rifiniture di tastiere di Josh Silver,
meno invadenti del solito: qualche colpetto di organo qua e là,
solite due note in croce a fare da tappeto. Con l’aggiunta di
rumoretti vari, fra cui lo schioccar di dita che richiama
palesemente la colonna sonora de “La Famiglia Addams”: dettaglio
che rende bene l'idea dell'aria che si respira nel pezzo. “Black
No. 1”, del resto, non è altro che la solita love-song a
sfondo macabro di Peter Steele, e in essa viene dispiegato
quell'armamentario di luoghi comuni da film dell'orrore di serie B
(Halloween in testa!) che è tipico della sua poetica.
Ma
cosa diavolo succede in questi undici minuti? In realtà i Type
ci fregano alla loro maniera, inserendo nel mezzo un altro brano, con
tanto di ritornello: “Loving you was like loving the dead” sono
le parole che Steele ripete fino alla sfinimento, prima in solitaria
su un sottofondo di clavicembalo e poi in coro con l'avvento di
chitarra e batteria. Ma il bello, o meglio, la ragione del successo
dei quattro newyorkesi era proprio questo: mescolare
continuamente banalità di facile presa e colpi di genio
in un contesto atipico che sapeva far coesistere mondi
lontani, il punk con il doom, il dark con il glam (assenti, in questo
caso, i famosi influssi beatlesiani, che emergono più
prepotentemente in altre circostanze).
Vero è
che il gothic metal si stava configurando proprio in quegli
anni, ma “Bloody Kisses” usciva nel 1993, quando
Paradise Lost, My Dying Bride ed Anathema erano
ancora restii ad abbandonare il retroterra death da dove provenivano.
Se in seguito queste band sarebbero approdate a lidi più soft,
fu grazie anche al polverone “mediatico” che i Type O Negative
seppero alzare intorno all'universo gotico, non solo a suon di
videoclip e vincenti strategie di marketing, ma anche per la
bravura nel saper carpire un interesse crescente intorno a
determinati temi (interesse che si accrescerà successivamente grazie
all'immaginario erotico/vampiresco che verrà introdotto dai presto
in voga Cradle of Filth).
Un
brano come “Black No. 1” dimostra soprattutto che non è affatto
semplice scrivere musica di tal fattispecie se non c'è in qualche
modo una forma di talento dietro. Lo vedremo con i pur dotati
Paradise Lost, che passati al paradigma del pop si
dimostreranno incapaci di scrivere buone melodie e ritornelli
accattivanti. Lo vedremo con i Tiamat che, al netto delle
prelibatezze pinkfloydiane, si renderanno responsabili di un
sound povero ed impersonale. Lo vedremo con i Moonspell,
ai quali non basterà il carisma vocale di Ribeiro (che fra l'altro
guarderà con maggiore insistenza proprio allo stile di Steele) per
salvare brani sempliciotti e privi di mordente. Presto essi sarebbero
tornati all'ovile dell'Estremo, mentre i Type O Negative, fino in
fondo, seppero raffinare la loro proposta, limare gli spigoli,
lavorare sulle sfumature. E Steele crescere come autore.
In
altre parole i Type O Negative insegnarono a tutti l'importanza di
saper comunicare: erano anni infatti in cui il metal non sapeva più
dialogare con l'esterno, in particolare con le nuove generazioni,
sempre più perplesse innanzi alla leziosità stilistica, all'assolo
straripante, agli acuti femminei. Ispirazione, personalità,
coraggio, sapersi comportare/relazionare, carpire i
concetti chiave: tante volte conta di più tutto questo che la
mera preparazione accademica, i compiti di casa diligentemente
svolti, il recitare a memoria la lezioncina assegnata...
Alla
faccia di chi continua ad esercitarsi nell'oscurità e si domanda
(come il palestrato con il fisico perfetto che va a giro in
tuta di acetato e mocassini) il maledetto motivo per cui non riesce a
sfondare!