I 10 MIGLIORI ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI ’80)
INTERMEZZO: I RAVEN
Nel 1979 in Gran Bretagna, a soli
40 giorni di distanza l’uno dall’altro, accaddero due eventi molto importanti.
Due fatti che avrebbero avuto, ovviamente ognuno nel proprio ambito, una risonanza e un
influsso addirittura di portata mondiale.
Il 24 marzo uscì nei negozi il secondo full
lenght dei Motorhead, vale a dire “Overkill”, primo di un trittico di dischi-capolavoro di
Lemmy&co. (gli altri, rilasciati a stretto giro di posta, furono “Bomber” e “Ace of spades”) che avrebbero segnato
indelebilmente la Storia del Rock.
Il 04 maggio successivo, invece,
dopo aver vinto le elezioni del giorno prima, venne proclamata Primo Ministro
del Regno Unito Margaret Thatcher, già leader del Partito Conservatore.
Che relazione hanno le due cose?
Come si vennero a intersecare? Il ragionamento può apparire contorto, non lo
negherò. Ma proverò a dipanarlo.
Allora: nonostante il buon
vecchio Kilmister abbia sempre dichiarato che non ha mai considerato i suoi Motorhead
una metal band, ma solo un gruppo di
semplice “rock and roll”, noi tutti sappiamo quanto essi siano stati influenti per l’allora incipiente N.W.O.B.H.M.; e più in generale, di lì in avanti, per una miriade
di gruppi appartenenti ai più svariati generi e sottogeneri del Metallo.
Non
esageriamo se, in tal senso, definiamo i Motorhead la band più trasversale, a
livello di apprezzamenti, che ci sia mai stata nel mondo rock/heavy.
Rimanendo però sul punto: se la
spinta propulsiva delle "heavy band New Wave", a partire dal 1980, fu così enorme
ed innovativa per il Rock lo si dovette senz'altro anche al “propellente”, all’influsso e
all’ispirazione riversate a profusione nei loro motori proprio dai connazionali
Motorhead.
E, per carità, ovviamente anche dai Judas
Priest. L’altra band pre-New Wave (“Rocka Rolla” è ancora del 1974!) decisiva
per la New Wave stessa. Ricordiamo che il capolavoro “Killing Machine” è sempre
di quei mesi (novembre ’78), e che proprio nel 1979 veniva dato alle stampe
“Unleashed in the East”, uno dei live metal più famosi e unanimemente riconosciuti tra i più importanti di sempre.
Ma se K.K. Downing e compagnia stavano approfondendo
e definendo, partendo dall’hard-rock settantiano, gli stilemi prettamente
metal che esploderanno di lì a breve (e codificati dagli stessi
J.P. proprio quell’anno
con l’immortale “British Steel”), i Motorhead erano, in un binario
parallelamente convergente (scusate l’azzardato ossimoro), il riferimento
primario per tutti coloro i quali, pur superandolo, avevano diffusamente
innestato nel loro DNA ancora l’amore per il punk rock britannico della seconda
metà dei settanta.
La band londinese rimase senz'altro leader di questo “filone” metallico
anche negli anni ’80. Ma buoni secondi arrivavano di
diritto e senza ombra di dubbio i Raven dei fratelli John e Mark Gallagher: due
pazzi scatenati, nati ad appena 16 mesi di distanza a Newcastle. E che
trovarono nell’altrettanto folle batterista Rob Hunter un degno compare col
quale mettere a ferro e a fuoco i club di mezza Inghilterra.
I Raven furono capaci, tra il 1981 e l’84, di pubblicare
quattro dischi devastanti per velocità e dinamismo. E che avrebbero meritato,
tutti e quattro, di essere presenti nella nostra Rassegna! Ma non avendolo potuto fare ho deciso, nel suo continuum temporale, di creare questa sorta di "interludio".
Non starò a descrivere la
bellezza del capolavoro raveniano, il debut “Rock Until You Drop” (uno di quei
pochi dischi che mantengono nel concreto ciò che dichiarano con il titolo…), né
tantomeno la maggior durezza dei successivi, e ottimi, “Wiped out” e “All For One” (tutti pubblicati dall’intraprendente etichetta Neat Records, guarda caso proprio di Newcastle…),
con i quali il trio inglese appesantì la sua mistura di heavy furioso, hard rock
sparato a mille all’ora e attitudine fottutamente punk. Un cocktail
travolgente e immediatamente riconoscibile che portò da subito a un grande apprezzamento
del pubblico, e ad una reputazione a prova di bomba, costruita concerto dopo
concerto, nei quali i Nostri erano capaci come nessun altro di far divertire ed
infiammare i fan (talmente coinvolgenti e “infiammanti” che le risse ai loro
concerti si sprecavano!).
No, vorrei soffermarmi invece su
quello che per me i Raven hanno sempre, probabilmente loro malgrado,
simboleggiato plasticamente: e cioè la capacità, unica in quel momento,
del neonato heavy metal di penetrare nell’immaginario dei kids dei
quartieri popolari dei grandi centri urbani del Paese; nella testa e nel cuore delle nuove generazioni
della working class britannica dell’epoca.
Si, perché se il prog/hard rock inglese
degli anni settanta era obiettivamente musica per palati fini e per certi versi
elitaria, anche il punk, (nonostante il suo modus operandi indie, il forte
anti-conformismo dei suoi musicisti e le sue pretese politiche con tendenze
anarcoidi), era rimasto un genere “piccolo borghese”.
L’heavy metal no. Le heavy band
paradossalmente facevano breccia là, dove appunto Prog Rock, New Wave
propriamente detta (quella dei Talking Heads, dei Police e dei Joy Division
tanto per intenderci) e lo stesso Punk non avevano sfondato.
E se, ad esempio, gli Iron
divennero gli alfieri di tutte le masse povere dell’East End londinese (la
periferia allora alquanto degradata della Capitale), i Raven lo furono della
loro città, Newcastle, centro nevralgico della rivoluzione industriale
britannica nell’800 e, ancora nel secolo scorso, fondamentale per la
manifattura e le industrie di carbone.
Si, carbone. Argomento scottante:
se parli del carbone in Inghilterra, nell’immaginario collettivo (non solo
britannico!), non puoi che pensare a lei. A Margaret Thatcher. E alla sua ferma volontà di chiudere la maggior parte delle miniere del Paese.
E qua torniamo al collegamento iniziale del nostro post.
Com'è noto, le sue politiche liberiste e conservatrici, se da un lato ebbero benefici notevoli sull’inflazione, dall’altro determinarono, per il settore manifatturiero e appunto per quello dell'estrazione carbonifera, quello che fu definito come un “vero e proprio olocausto industriale”.
E qua torniamo al collegamento iniziale del nostro post.
Com'è noto, le sue politiche liberiste e conservatrici, se da un lato ebbero benefici notevoli sull’inflazione, dall’altro determinarono, per il settore manifatturiero e appunto per quello dell'estrazione carbonifera, quello che fu definito come un “vero e proprio olocausto industriale”.
Yorkshire, Durham, Tyneside, e in altri distretti industriali storici del Paese, (tra cui quello Staffordshire nel cui capoluogo, Stoke-on-Trent, nacque proprio lui, sì: il Sig. Ian “Lemmy” Kilmister!), i posti di
lavoro si dilapidarono e la disoccupazione quadruplicò nel giro di poco tempo.
Newcastle e il suo interland furono uno tra quelli che
maggiormente risentirono delle misure governative di politica economica. Tanto che tutt’oggi il nome della
Thatcher, anche a distanza di due anni e mezzo dalla sua morte, è
particolarmente odiato in quelle zone.
E come lo furono i primi Def
Leppard per Sheffield (altra città massicciamente colpita dalle politiche
thatcheriane), i Raven furono un simbolo di riscossa e di orgoglio della
Newcastle che stava sotto il tacco della Lady di Ferro, che contro i suoi
minatori in sciopero ebbe uno degli scontri più violenti (fino a definirli,
assieme a tutto il Labour Party, addirittura “the enemy within”).
Il grande cinema indipendente
britannico ha spesso rappresentato a chiare lettere la vita di questi distretti
durante l’"eta thacheriana" e delle conseguenze, economiche ma soprattutto sociali ed umane,
che derivarono dai provvedimenti governativi. Su tutte svettano le opere del
grande Ken Loach e di Stephen Daldry. Quest’ultimo, col suo celebre “Billy
Elliot” (2000) dipinse in modo forte e profondo la realtà di metà anni ’80 nel
nord-est del Paese e della dura battaglia dei minatori contro la Thatcher.
E fu proprio nel bel mezzo del
Grande Sciopero dei Minatori, protrattosi per quasi un anno tra il 1984 e il
1985, che i Raven pubblicarono la summa del loro lavoro musicale: quel “Live at
the Inferno” che fu contestualmente riepilogo e testamento artistico di una
delle più grandi band della New Wave.
Purtroppo, come anticipato in fondo al
nostro precedente post, proprio dopo quel mitico live (che ogni buon metal maniac
dovrebbe avere nella propria collezione), che riassumeva il meglio delle prime
tre releases, i Raven attirati dal miraggio del successo
decisero di spostarsi negli States, con lo scopo di trovare un contratto con
una major per ampliare, questo era l'obiettivo, la propria fetta di mercato e di fan. E così accadde: “Live at the Inferno”
fu il loro passpartout, il miglior biglietto da visita possibile per la firma
con la tanto agognata major: la Atlantic Rec.
Ma, come anticipato, fu anche la fine artistica di
questo mitico trio che sotto la nefasta influenza della label americana virò
il proprio sound verso stilemi più mosci, commerciali e hair metal oriented (modificando anche il proprio look) senza avere però i mezzi e il background giusti per suonarlo con qualità e credibilità.
I fallimenti di ben tre dischi
(“Stay hard”, “The Pack is Back” e “Life’s a Bitch”), la fuoriuscita di Hunter,
l’abbandono della Atlantic a fine decade e il successivo avvento del grunge
fecero il resto. Decretandone la fuoriuscita dalle luci della ribalta; ma anche
lo status di cult band.
Se pensiamo che proprio da Newcastle i
Romani cominciarono a edificare il celebre Vallo di Adriano, confine, limite ma allo stesso tempo fortezza
difensiva, viene naturale e semplice ricordarli con una non
tanto azzardata similitudine: un baluardo contro l’arroganza del potere, simbolo di rivalsa di un’intera città.