I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL CLASSICO
1° CLASSIFICATO: “RIME OF THE ANCIENT MARINER” (IRON MAIDEN)
Al secondo posto della
nostra classifica avevamo trovato “Keeper of the Seven Keys” degli Helloween:
un brano che abbiamo definito perfetto. Perché perfetto? Perché nei suoi
13 minuti e 38 secondi, la “Keeper...” delle Zucche si è mostrata
impeccabile. Come chi si prepara ad una lunga traversata, gli Helloween hanno
delineato una strategia, raccolto provviste, si sono imposti una ragionevole
tabella di marcia, dosando le energie e calibrando l'utilizzo delle risorse a
loro disposizione per affrontare i momenti di maggiore difficoltà. Tradotto in
musica: sono partiti calmi con un'introduzione acustica,
hanno sapientemente diluito qua e là i tempi, da un lato mantenendo cautamente
il formato canzone, dall’altro aggiungendo scintille di complessità. Convergendo infine tutta la loro ispirazione in un ritornello che farà epoca e costruendo con dedizione una
sezione centrale da urlo: il tutto spalmato su uno schema dove ogni cosa è
perfettamente al suo posto.
Ma a noi di Metal Mirror
la perfezione non basta: vogliamo andare oltre, come hanno fatto gli Iron
Maiden di “Rime of the Ancient Mariner”.
13 minuti e 36 secondi è la sua durata e se non
fosse stato per la recentissima “Empire of the Clouds” (18:01), essa
sarebbe ancora oggi la traccia più lunga mai realizzata dalla band. Del resto
gli Iron Maiden non erano nuovi ad esperimenti volti ad estendere un brano
oltre il classico formato canzone. Già nel debutto vi era stata quella “Phantom
of the Opera” (7:20) che presentava al suo interno partiture assai articolate,
nonostante le vocalità grezze di Di'Anno. Per far sì che i Nostri potessero
assecondare appieno le loro tentazioni progressive, dovemmo dunque aspettare un
cantante versatile, espressivo e dall'ampiezza vocale impressionate come Bruce
Dickinson. Ecco che subito in “The Number of the Beast” trovammo la
bellissima “Hallowed Be Thy Name” (7:08), per metà funerea ballad,
per metà epica cavalcata. In “Piece of Mind”, invece, la parte della leonessa
la faceva la sensazionale “Revelations” (6:48) che, nonostante una
durata contenuta, si presentava come un imprevedibile intreccio di struggenti
sezioni acustiche, robusto hard-rock e repentine virate verso un heavy metal
epico e coinvolgente.
Ora, che gli Iron non siano
la band più avventurosa ed avventata di questo mondo, lo sanno tutti. Ma al
quinto album e all'apice del successo, anche loro seppero trovare il coraggio per
concepire e realizzare una traccia veramente lunga: era il 1984 e veniva
dato alle stampe “Powerslave”, un'opera che, anche solo per la
copertina, sarebbe divenuta una pietre miliare nell’immaginario del popolo metallico.
L'ultimo brano in scaletta era proprio quella “Rime of the Ancient Mariner”
di cui ci apprestiamo a parlare.
Se gli Helloween si erano
approcciati al loro brano più lungo con ponderazione e senso della misura, gli
Iron non abbisognavano affatto di un intro: “Rime of the Ancient Mariner”
parte senza indugi, ex abructo potremmo dire, con chitarre arrembanti dal primo
istante e un Bruce che inizia a cantare solo dopo venti secondi. Nella metafora
della traversata, i cinque inglesi, rispetto ai tedeschi, si buttano a correre
a rotta di collo appena udito lo sparo del via. Ma attenzione, non è
l'incoscienza degli sprovveduti: gli Iron sanno di valere e quindi si
possono permettere di osare.
Si diceva che gli Helloween
hanno fregiato la loro “Keeper” di uno dei loro ritornelli più riusciti, un ritornello
denso di pathos e di fraterno calore. “Rime of the Ancient Mariner” non ce l'ha
neppure un vero ritornello. Nella sua prima parte, infatti, essa si sviluppa in
un susseguirsi di strofe che si reiterano con la stessa cadenza: uno schema che
può essere più o meno tradotto nel modello A,B,A,B,A,C,A,C, dove B e C si
assomigliano molto. Ma questa somiglianza non può decretare lo status di
vero ritornello, o almeno di un ritornello come gli Iron, campioni indiscussi
nell'arte di edificare anthem da stadio, ci avevano abituati fino ad
allora. Mi riferisco a versi come “Sailing on and on and
north across the sea / Sailing on and on and north 'til all is calm” e “And
the curse goes on and on at sea / And the curse goes on and on for them and me” (poi ripresi nel finale nella
variante di “And the ship it sinks like lead into the sea / And the hermit shrieves
the mariner of the sins” e “And the wedding guest’s a sad and wiser man / And the tale goes on and
on and on”):
sembrerebbe piuttosto che per la loro “ballata”,
essi abbiano deciso di svincolarsi dal canonico formato canzone per meglio
ricalcare l’impianto narrativo del noto poemetto di Samuel Taylor Coleridge,
a cui il brano si ispira.
Eccoci dunque al testo. Se
gli Iron sono stati dei grandi, è perché essi sono riusciti ad elevarsi
rispetto al resto dei loro colleghi della N.W.O.B.H.M. (i quali, invece, continuavano
irrimediabilmente ad essere ancorati ai temi ed agli schemi semplici tipici
dell'hard-rock e del punk). Gli Iron non solo avevano ampie vedute musicali, ma
anche una cultura sopra la media, o per lo meno eccelse capacità comunicative: nei testi (ma anche nelle atmosfere delle
canzoni) c'era spesso spazio per la storia, per la mitologia, per la
letteratura e ovviamente per un grande senso di appartenenza alla loro patria,
l’Inghilterra (e proprio la loro ostentata “inglesaggine” rimarrà
uno dei loro marchi di riconoscimento più caratteristici!). Tutti questi
aspetti trovano nobile sfogo nell'adattamento musicale de “La Ballata del
Vecchio Marinaio”, testo classico della letteratura romantica inglese,
pubblicato per la prima volta nel 1798.
Le vicende narrate sono
universalmente note: si tratta di una storia di mare, di una spedizione diretta al
Polo Sud. La voce narrante è quella del Vecchio
Marinaio del titolo, condannato ad errare in Eterno per
raccontare la sua edificante storia e per predicare il rispetto per le creature
di Dio. Egli fu infatti colui che durante quella spedizione uccise il mitico albatros,
attirando così prima l'ira divina, poi quella dei suoi compagni di viaggio.
L’uccisione ingiustificata dell’uccello, infatti, si rivelò di cattivo auspicio per la
spedizione, considerato che da quel momento sarebbero iniziate a piovere forti
sciagure sulla nave e sul suo equipaggio, entrambi in balia delle forze
soverchianti della Natura.
Se devo dire la mia, il vago
ricordo che ho dello scritto di Coleridge (reminiscenza che risale ai tempi del
liceo) mi restituisce una dimensione di oscuro presagio, di desolazione e
sofferenza statiche, laddove il teatro degli accadimenti è una nave spersa
nei mari fermi e per niente ventilati dell’equatore: i marinai spireranno uno
ad uno, eccetto il protagonista, silente e tormentato testimone della tragedia
(i compagni lo avevano punito legandogli al collo il corpo esanime
dell’albatros da lui abbattuto). Gli Iron, invece, ci consegnano una versione
tonificata del poema, probabilmente sottoposto ad un processo di epicizzazione
metallica. Il metal, in genere, si interessa quasi esclusivamente degli
aspetti narrativi, tralasciando spesso i risvolti morali ed etici, ma con che
vigore ed energia i cinque inglesi ci raccontano le peripezie del Vecchio
Marinaio!
Il brano porta la firma di Harris
ed incarna tutte le caratteristiche della scrittura del bassista: l’andamento
cavalcante si va a venare così di quel canglore metallico che è tipico delle
terzine di Harris suonate con forza dalle sue turbinanti dita. Gli altri gli
stanno dietro alla grande, erigendo un sound solido ed imponente, solcato
dalla voce squillante di Dickinson.
Il brano brilla di un
irrequieto dinamismo conferito da riff rocciosi e dal drumming
affatto lineare di McBrain, che come al suo solito snobba la
doppia-cassa ed arricchisce il suo passo con massicci contrappunti di piatti,
rullate, azzeccati controtempi che sanno di dramma di mare, di spruzzi di acqua
gelida e salata nei denti. Dopo diversi minuti di chitarre e basso cavalcanti,
assistiamo ad una brusca accelerazione in cui gli Iron tornano ad esprimere il
loro lato più epico, con un eroico Dickinson in prima fila. A dare ulteriore
carica al brano è la sua imprevedibilità, dato che si muove compatto per
blocchi ben saldati fra loro: “Rime of the Ancient Mariner” non è infatti né
una suite né una “lunga canzone” (come abbiamo visto in altri casi).
Essa sfugge anche al modello della jam psichedelica, considerata la dose
di pragmatismo squisitamente anglosassone che caratterizza ogni suo singolo
frangente. E' semplicemente sano e
tosto e geniale heavy metal al cubo!
Dopo altri passaggi mozzafiato
e di grande tensione, ecco che si passa al celebre interludio centrale,
dominato da un lento basso arpeggiato e dall'oscuro recitato di Dickinson, che
cita direttamente i versi dal poema di Coleridge. Ecco che emerge quella
sensazione di desolazione di cui accennavo prima: in queste lente note di basso
e nei giochi di volume della chitarra, sta tutta la spossatezza di un
equipaggio allo strenuo delle proprie forze. Ma ecco che ad un certo punto il
basso s'impenna e si getta in uno dei giri più noti del metal (io ci sento i Tool
e persino il giro portante della mitica “Mogwai Fear Satan” dei Mogwai!)
e il brano di colpo torna a movimentarsi, con un Dickinson ancora grandioso
chiamato a cavalcare le onde. Completano il quadro le chitarre esplosive che
finalmente hanno modo di decollare, scontrandosi in ritmiche entusiasmanti ed
imperdibili assolo, in cui Murray e Smith dialogano, parlano
all'unisono e si scambiano la parte continuamente.
Il brano si chiuderà in
maniera circolare, riassumendo le sembianze iniziali, e con queste leggendarie
note chiudiamo anche la prima parte della nostra rassegna. “Rime of the Ancient
Mariner” è dunque, secondo il nostro umile parere, la vincitrice della
nostra competizione. Sappiamo benissimo che i gusti son gusti e che di
sicuro gli Iron Maiden non piaceranno a tutti, ma sarebbe un delitto non
riconoscere la grandezza di questo brano, che rimane un importante pezzo di storia
del nostro genere preferito. Ci sarà comunque consolazione per i delusi, ai
quali dico: niente paura, questa era solo la classifica relativa al metal
classico, presto ci addentreremo nell’oscuro regno dei metal estremo,
dove avremo modo di imbatterci in piacevolissime sorprese.
Ma prima, un breve
intermezzo in cui andremo ad analizzare tre brani che, per un motivo o per
un altro, non abbiamo potuto includere né in questa né nella prossima
classifica…
To be continued...