I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL
INTERMEZZO
III: “FALLING UNKNOWN” (NEUROSIS)
Terzo ed ultimo atto del
nostro intermezzo, prima di procedere con i migliori dieci brani lunghi nel metal estremo.
Parliamo di “Falling
Unknown” dei Neurosis, tredici minuti ed undici secondi.
Perché escluderla dalla competizione ufficiale e relegarla al limbo delle “fuori
concorso”? Non poteva forse essere inserita fra i dieci migliori brani lunghi
del metal estremo? Sì, poteva, ma noi abbiamo deciso di escluderla, insieme a
tutte le ottime prove delle altre band dedite al post-hardcore ed al post-metal.
L’obiettivo della nostra rassegna è di parlare del brano lungo nel metal
come evento eccezionale nel modus operandi di una band. Ma nel
post-hardcore e nel post-metal il brano lungo non è l'eccezione, bensì la
regola! Suoni slabbrati e prolungati, dilatazioni sabbathiane, crescendo che montanto, pozze ambientali: si fa presto ad arrivare a dieci minuti se questi
sono le regole, lo abbiamo visto nella nostra rassegna sul “Nuovo Metal”.
Di brani lunghi in questo ambito ve ne sono a bizzeffe, impossibile
contemplarli tutti. E quindi fanculo tutti!
Fanculo tutti tranne uno, perché
quell'universo andava pur rappresentato, anche solo con un brano! E
chi poteva rappresentare tutto il calderone? Potevamo
eleggere i Mastodon, che con la coinvolgente “Hearts Alive” (13:39) si dimostrano abili funamboli sospesi fra sonorità post, heavy metal classico e progressive rock. Oppure i Cult
of Luna, che con la mastodontica “Vicarious Redemption” (18:51)
seppero aggiornare gli stilemi del post-hardcore con gelide ambientazioni
gothic-metal (sì: Paradise Lost, Katatonia e compagnia derelitta!). Potevamo ripescare i saggi
portentosi di Isis, Pelican, The Ocean (che fra l’altro
con “Pelagial” firmavano un album-brano di cinquantatre
minuti!), ma alla fine, per non fare torto a nessuno, abbiamo scelto i
padri di tutti loro, gli ispiratori del movimento intero: i sempreverdi Neurosis.
Ma individuare un degno
rappresentante anche nella sola discografia nella formazione amernicana non è stata cosa semplice. Potevamo optare per “Purify”
(12:18), con il suo percorso in “decrescendo” e l’incredibile finale a base di
cornamuse; o per “Aeon” (11:43), con la sua introduzione di pianoforte e
violini, il potente corpus centrale, ma soprattutto con il finalone apocalittico che potremmo
descrivere come il primo vero crescendo post-metal nella storia (con tanto di reprise
di archi e pianoforte). Entrambi i pezzi, tuttavia, sono contenuti in quel “Through Silver in Blood” di cui abbiamo già avuto modo di parlare su queste pagine.
Per questo decidiamo di dedicare il presente spazio ad un altro snodo importante della carriera dei Neurosis: quel “A Sun That
Never Sets” (2001) che abbiamo solo di traverso toccato nella nostra
rassegna sul Nuovo Metal. Un’opera rivoluzionaria, che fu portatrice di un
approccio innovativo, scollegandosi in parte dagli stilemi del post-hardcore
classico, per spostarsi verso sonorità più crepuscolari, introspettive,
cantautoriali. Se già l'opener “The Tide” (intro permettendo...) con il suo incipit di chitarra
acustica, violino e voce pulita era stato uno strabiliante biglietto da visita,
con il brano che abbiamo scelto per la nostra rassegna si va davvero “Oltre”.
“Falling Unknown” è il
brano più lungo dell’album e presenzia simbolicamente al suo centro, a metà
scaletta, costituendo un vero punto di non-ritorno per la band
californiana. Esso può essere sostanzialmente diviso in due parti.
Nella prima, il brano si
sviluppa lungo lo schema della “ballata in crescendo”, aperta da un
arpeggio povero di note che poi gradualmente si articola convergendo infine in
un fiume torrenziale di riff sabbathiani. C’è da dire che il sound
dei Neurosis ha perso la scorsa industriale di un tempo, riguadagnando la “purezza”
delle sporche e ruvide chitarre di matrice stoner, e per questo c’è da
ringraziare il grande Steve Albini, sotto la cui ala protettiva i
Neurosis si erano riparati a partire dal precedente “Times of Grace”. Ma
non è solo questione di suoni: è la stessa proposta che si è fatta più
essenziale, rock-oriented, come se la band avesse deciso di non puntare più
sulla complessità, ma sull’istinto. Per questo la batteria di Jason Roeder,
in passato lanciata in azzardati ed imponenti tribalismi, ora si accontenta di procedere in modo linerare. Per questo il basso al vetriolo di Dave Edwardson si offre oggi pastoso ed amalgamato/invischiato agli altri
strumenti. Le chitarre di Steve Von Till e di Scott Kelly non mimano più vulcani in eruzione o montagne che
franano, ma i contorni sghembi di un blues polveroso e ripetitivo. Il
canto di Von Till si assesta definitivamente su un latrato à-la Tom
Waits, ruggito surreale che non rinuncia del tutto alla furia hardcore.
L’anno precedente il vocalist aveva debuttato come solista con l’album “As
the Crow Flies”, con il quale aveva tentato la via del cantautorato tout
court, ma sulla dimensione del pulito non pare ancora trovarsi perfettamente a suo agio:
le sue corde vocali sembrano sull’orlo di strapparsi da un momento
all’altro.
Sono grida surreali, rantoli
insensati in una non-dimensione di vuoto cosmico. E il susseguirsi delle
parole ha un valore atmosferico, quasi onomatopeico, più volto a generare suoni
che a veicolare un messaggio ben preciso. La musica dei Neurosis ha sempre avuto
una valenza spirituale, che in questa release si va ulteriormente
ad amplificare: “A Sun that Never Sets”, in generale, riluce di un’introspezione
che è universale, un percorso accidentato che si svincola da biografie individuali e
conduce al nucleo nascosto dell’inconscio umano nella sua insondabile
profondità.
Il sound “terreno” dei Neurosis, fatto
di sabbia e pietre inizia ad elevarsi, a levitare. Anche se il testo parla di
scalare una montagna, le nubi che ci avvolgono non sono quelle della semplice
altitudine: è una foschia metafisica, entro le quali la voce di Von
Till, nonostante la raucedine, affoga eterea. In questa prima fase si respira
una tensione prossima ad esplodere: le rullate di Roeder e le chitarre montati
di Von Till e Kelly disegnano passaggi dissonanti che non hanno la
monumentalità di un tempo, ma un sapore che non è di questo mondo.
Sesto minuto, la musica
cambia: elettronica ambientale, Noah Landis finalmente protagonista! La batteria di Roeder
torna piccola piccola, ma si fa incalzante, quasi come se il suo drumming si componesse di beat elettronici: è un pulsare sottocutaneo
che prepara il crescendo finale. Ai sintetizzatori di Landis si uniscono i
fraseggi delle chitarre, anch’esse impercettibili all’inizio, e successivamente
gli archi, abbracciati in pose di crescente mestizia. Cori in lontananza
si fanno sempre più consistenti (la frase “Falling through a World Unknown”
è ripetuta come se fosse un mantra), i piatti vengono schiaffeggiati, ogni minuto che passa aggiunge elementi tipici del mondo neurosiano. Se prima la sensazione era di scalare un valico
pietroso in un pianeta alieno infestato da venti furiosi e bruciato da soli
infuocati che si spengono in infiniti crepuscoli, adesso l’idea è di essersi
aperti un varco, un sentiero lungo la superficie ostile che conduce ad altri
universi, un tunnel le cui pareti si tingono di colori irreali, quasi vi si
trovasse nelle ambientazioni de “Le Montagne della Follia” di Lovecraft.
O meglio ancora: a venire in
mente è la celebre “sequenza psichedelica” di “2001: Odissea nello Spazio”,
in cui la navicella accede alla dimensione dell’iperspazio e viene proiettata a
velocità incomprensibili verso altre galassie. I minuti scorrono, la tensione
cresce, ma non è un normale crescendo basato sulla dialettica della
tensione e del rilascio, come possono fare i nomi blasonati del post-rock: la musica dei Neurosis finisce per macchiarsi delle tinte
aliene dei corrieri cosmici della prima ondata elettronica tedesca. Infine,
quando ci aspetteremmo l’esplosione terminale, tutto inaspettatamente si ferma (colpo
di genio!) e rimangono ad accavallarsi le sole grida disumane di Von
Till, Kelly e chi sa di chi altri: la sensazione è di trovarsi in un mondo
preistorico, selvaggio, dove forze primordiali si scontrano e si divorano senza
pietà. Ma potrebbe anche essere il nucleo impenetrabile ed indescrivibile dell’inconscio umano,
dove energie oscure si infrangono senza la mediazione della razionalità. I
ruggiti da trogloditi si intrecciano in cori misteriosi e terribili, fino
all’inevitabile chiosa elettrica a base di chitarre portentose e ritmi solenni.
All’inizio ho utilizzato
l’espressione “punto di non-ritorno”, ma in verità vi sarà ritorno, perché queste
vette (o questi abissi) non verranno più raggiunte/i dai Neurosis. La già
citata “The Tide”, il classico “Stones from the Sky” saranno i veri
punti di non-ritorno, le spinte in avanti che diverranno standard. Ma dal
mondo sconosciuto ritratto in “Falling Unknown” i Neurosis torneranno, eccome se torneranno, con una
nuova consapevolezza, ma senza la forza di guardarsi indietro.
Quanto a noi, abbiamo preso
un esempio mirabile per rappresentare un universo in cui il brano lungo, bello
o mediocre che sia, è praticamente la normalità. Ma anche per introdurre un
tema molto importante: quello di essere eccezionali in un contesto
eccezionale. Vedremo presto, nella classifica dedicata ai migliori dieci
brani lunghi del metal estremo, come per noi sarà importante il carisma
intrinseco al singolo pezzo. Perché in effetti anche in altri contesti (si
veda il doom o il black) il brano lungo può costituire una scelta molto
frequente, sicuramente più frequente di quanto possa succedere nel metal
classico: per questo la nostra ricerca sarà ancora più accurata ed attenta,
volta ad individuare l’eccezionale laddove l’eccezione è la normalità.