I
MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL CLASSICO
2° CLASSIFICATO: “KEEPER OF THE SEVEN KEYS” (HELLOWEEN)
I
frutti da noi raccolti lungo la scalata verso la vetta dei migliori brani lunghi del metal si fanno prevedibili e scontati, ma a
certi livelli non lo si può che essere: la “Keeper of the Seven
Keys” delle nostre simpatiche Zucche, dall’alto della
sua durata di 13 minuti e 38 secondi, non
solo è una delle migliori composizioni di estesa durata che il metal ha saputo partorire nella sua lunga storia, ma è anche uno dei
migliori momenti vissuti dal metal in generale...
Essa
diverrà la quintessenza del brano lungo nel power metal,
venendo a costituire l’idealtipo a cui ambiranno in molti,
Stratovarius e Tobias Sammet’s Avantasia in testa (si
guardi rispettivamente ad una “Visions (Southern Cross)” per
quanto riguarda i primi, e ad una “The Seven Angels” per
quanto riguarda i secondi).
Scindere
fra canoni classici del power metal e Helloween è del resto
difficile: tutto o quasi ha avuto origine da quell’incredibile
triade che furono “Walls of “Jericho” (1985) e la
leggendaria accoppiata “Keeper of the Seven Keys – part I”
(1987) e “Keeper of the Seven Keys – part II” (1988), i
quali, presi insieme, compongono i tre tomi del Vecchio
Testamento del Power Metal. Almeno per quanto riguarda quel
power metal melodico che poi fu ironicamente definito Happy
Metal per
distinguerlo da quello più ruvido e granitico di
colleghi teutonici quali Running Wild e Grave Digger.
In quei tre album gli Helloween delineavano con grande chiarezza di
intenti i Nuovi Stilemi del Metal Classico, destinati successivamente
a divenire standard: cliché stilistici (voci da
eunuco, cori da osteria, refrain ultra-melodici, doppia cassa
imperante ecc.) che diverranno i tratti distintivi di un vero e
proprio movimento che nel corso degli anni novanta avrebbe costituito
un fronte di rinascita per il metal dopo gli sbandamenti di inizio
decade.
Il
sound dei primi Helloween derivava chiaramente dagli
insegnamenti di Judas Priest ed Iron Maiden, ed in
particolare dall’approccio complesso con cui quest’ultimi avevano
modellato il nascente verbo metal. Geniali fin dai primi due album,
gli Irons sarebbero rimasti intrappolati nello status
minoritario dei coevi Saxon, Angel Witch, Tank, Raven e Diamond Head,
se non vi fosse stato, oltre ad una intelligente gestione manageriale
della band da parte di Harris, l’ingresso di un cantante
come Dickinson che con la sua versatilità vocale seppe
supportare i compagni nella direzione di un sound più
articolato e per certi aspetti progressivo, che si smarcava
nettamente dalle influenze punk/hard-rock che avevano caratterizzato
lo sviluppo della N.W.O.B.H.M. E proprio dall’heavy metal
epico e sfaccettato dei Maiden, mischiato alla velocità dell’allora
emergente speed-metal, e sotto l'ombra lunga dei connazionali
Accept, la musica degli Helloween prenderà piede per
svilupparsi ed affermarsi fin da subito in modo inconfondibile.
Quali
erano i meriti dell’ensemble tedesco? Sicuramente una
elevata preparazione tecnica, la quale riguardava tutti e cinque i
musicisti. Poi sicuramente il songwriting fantasioso di due
chitarristi creativi come Kay Hansen e Michael Weikath,
penne ispirate capaci di scrivere con estrema disinvoltura melodie
destinate a rimanere stampate in testa già al primo ascolto (cosa
non di poco conto - e ve lo dice uno che il power metal non gli piace
neppure). Dulcis in fundo, l’ingaggio di un cantante
fenomenale come Michael Kiske, che a partire dal secondo
full-lenght costituì la classica marcia in più. Sicuramente
da annoverare fra i più illustri esponenti dello stile di canto del
power metal (caratterizzato dal massiccio impiego di tonalità alte:
il canto-stile-sirena-di-ambulanza,
tanto per intenderci), egli in realtà si impose come un
ottimo interprete che, pur guardando probabilmente alle gesta del
grandissimo Geoff Tate (che aveva esordito qualche anno prima
con i suoi Queensryche), seppe sviluppare una propria identità
grazie ad una vastissima ampiezza vocale e ad un talento fuori dal
comune nell’indovinare d’istinto il ritornello orecchiabile ma
mai banale.
Mi
scuso con i lettori se spesso mi perdo in lunghi preamboli sulla
storia (nota) o sulle caratteristiche (note) di un gruppo (noto), ma
questo è un approccio che mi torna utile per descrivere un brano
quando esso non comporta un’eccezione nel modus operandi di una
band, ma anzi ne esprime l’apoteosi. “Keeper of the Seven
Keys” non è un esperimento anomalo per gli Helloween, i quali
non stravolgono la loro metodologia, ma semplicemente la applicano ad
una dimensione più estesa, di lunghezza doppia o anche tripla
rispetto al loro format tipico.
C’è
da dire inoltre che i Nostri non erano nuovi alla soluzione del brano
di ampio minutaggio: in “Keeper of the Seven Keys – part I”,
infatti, si siamo imbattuti in “Halloween” (13:18),
anch’essa mirabile nelle sue imprevedibili evoluzioni. Tuttavia
preferiamo eleggere la “Keeper of the Seven Keys” che
spadroneggia nel lato b della seconda parte della “saga”. Perché?
Anzitutto
per la tematica affrontata. Contrariamente al testo della citata
“Halloween”, che come suggerisce il titolo verteva su
atmosfere da “notte delle streghe”, quello di “Keeper of the
Seven Keys” mette in campo quell’immaginario fantasy che è
tipico per il genere. Al centro di tutto vi è la figura del mitico
Custode delle Sette Chiavi, sorta di “eletto” a cui viene
affidato il compito di salvare il mondo. Si tratta di un
“conferimento di incarico” con il quale al nostro eroe viene
richiesto di abbandonare la quiete di un'ordinaria esistenza per
“armarsi” ed affrontare le forze oscure del male. Seguirà
dunque una sequela di cliché (demoni, nani, profeti,
incantesimi, prove da superare ecc.), fino all’inevitabile happy
ending. Che dire: un testo un po' banalotto
che ci parla della sempiterna lotta fra Bene e Male, ma senza mai
scendere in dettagli intriganti, né divenire veramente avvincente,
se non nel ricreare un senso di “comunione” con l’ascoltatore
(a cui maliziosamente si strizza l’occhio per tutto il tempo, dato
che il testo è scritto in seconda persona e questo escamotage
potrebbe innescare un processo di identificazione
dell’ascoltatore stesso con il Custode delle Sette Chiavi). Senso
di comunione che peraltro finisce per assomigliare a quella mitica
“fratellanza” a cui il metal inneggia da sempre.
Come
viene reso musicalmente tutto questo? Intanto c’è da dire che il
pezzo è scritto da Weikath e non da Hansen, comunemente
considerato il genio artistico della formazione, vuoi per la fase di
disorientamento che la band visse appena dopo il suo abbandono, vuoi
per le ottime cose combinate successivamente con i Gamma Ray.
E' invece opportuno ricordare che Weikath era già all’epoca una
testa pensante negli Helloween e che portano la sua firma classici
del calibro di “Eagle Fly Free” e “Dr Stein”.
Ma “Keeper of the Seven Keys” non è solo Weikath, bensì il
prodotto di un ensemble affiatato che vedeva tutti i suoi
componenti ingaggiati con passione nella buona riuscita dell'impresa.
Se ho
intitolato questo post “Verso la perfezione” è proprio
perché siamo di fronte ad un metal al top della sua forma:
una perfezione classica, plastica, figlia di un equilibrio in cui
tutte le componenti si bilanciano e sono collocate nel punto giusto.
Il
brano esordisce con un bell’arpeggio che ricorda i Led
Zeppelin più bucolici (quelli di “Stairway to Heaven” o di “Babe
I’m gonna Leave You”: riferimenti che una band heavy metal
classica non può non ospitare all'interno del proprio DNA). Kiske,
dal canto suo, sfoggia circospette tonalità basse molto à-la
Tate: una quieta introduzione che viene assalita presto dalla solenne
esplosione delle chitarre, squarciate a loro volta dagli acuti
inarrivabili del cantante.
Nei
minuti seguenti il brano si sviluppa con un susseguirsi serrato di
strofe e bridge, dinamica che palesa una maggiore complessità
nello svolgimento del discorso, pur in un contesto di schema-canzone.
Molti sono i meriti di una sezione ritmica impeccabile composta da un
dinamicissimo e coinvolgente Ingo Schwichtenberg dietro alle
pelli e da un solido Markus Grosskopf alle quattro corde. Il
resto è affidato alle sapienti mani di Hansen e Weikath, che si
intrecciano in fraseggi melodici come solamente loro sanno fare. Gli
Helloween si pongono alle nostre orecchie come un’orchestra
perfettamente affiatata, figlia di una sinergia che fiorisce
definitivamente in uno dei ritornelli più plateali di sempre: un
momento “da accendini” (o dovremmo dire da cellulari?) in cui le
chitarre si aprono, i cori vi si spalmano sopra e le ritmiche
riprendono fiato e scaricano la tensione accumulata fino a quel
momento, con ovviamente un Kiske elegante e misurato a fare da
protagonista.
La
parte centrale (ben sette minuti!) è invece un avvincente
susseguirsi di ambientazioni: this is not prog-metal,
bensì metal dinamico, tosto e suonato come si deve! Parti speed,
epiche cavalcate, rallentamenti densi di pathos, ripartenze con il
pepe al culo: la sezione ritmica fa miracoli nello spianare di volta
il volta il terreno ad un Kiske in stato di grazia, le cui vocalità
si integrano perfettamente all’evolversi strumentale del brano. Il
tutto illuminato dall’estro di un duo chitarristico con l’argento
vivo addosso: riff intricati, soli che si inseguono, si
agguantano e si dividono nuovamente in un tour de force
imprevedibile quanto ponderato (beh, si parla pur sempre di teteschi
di cemmania, che pur nella frenetica rincorsa ci tengono a
riporre ogni tassello al posto giusto). Nel mezzo troviamo anche un
interludio acustico impreziosito da raffinatissimi assolo che
condensano tutta la classe del duo Hansen/Weikath, veri padroni della
scena.
Da
copione, invece, la chiusura: le ritmiche serrate collassano
finalmente nell’ennesimo slow-motion solcato da un epico
recitato che tanto odora di anticamera dell’epilogo. Ed infatti è
solo la premessa per il ritorno in pompa magna del ritornello, che
giunge appena in tempo sortendo un benefico effetto liberatorio. Il
commiato è dunque affidato all’arpeggio iniziale che conferisce
unità tematica all'intera composizione.
E'
sempre noioso stare a descrivere la musica, ma era mia premura
sottolineare i punti di forza del brano, che sarebbero:
1)
una struttura perfettamente bilanciata nelle sue parti;
2)
una scrittura superlativa che si traduce in linee melodiche e vocali
azzeccate ed un ritornello a dir poco leggendario;
3)
tonicità “fisica” ed interpretativa dei musicisti, che per
giunta godono di una fortissima coesione.
Questi
tre elementi messi insieme (e raramente riscontrabili
contemporaneamente) fanno sì che “Keeper of the Seven Keys”
possa guadagnarsi, per meriti sia formali che sostanziali, lo status
di “brano perfetto”. Lasciamo dunque le Zucche al
secondo posto della classifica e procediamo verso l'ovvia conclusione
del nostro viaggio…