Si
conclude il nostro viaggio nell'intrigante universo di Paul Chain. Dopo
aver visto le cinque posizioni dalla decima alla sesta, andiamo a scoprire
quelli che secondo noi sono i migliori album in assoluto rilasciati
dall’artista pesarese nella sua lunga storia...
5)
“Park of Reason” (2002)
“Park of Reason”
è un album vasto, gigantesco, immenso: non vi sono altri modi per definirlo.
Nella lunghezza, nei suoni, nella sua penetrazione metafisica “Park of Reason”
è un album pantagruelico. Ultimo lascito di Paul Chain in ambito metal (l’anno
successivo egli deciderà di abbandonare il suo pseudonimo per abbracciare un
nuovo paradigma artistico estraneo persino al rock), è una sorta di testamento
spirituale. Suoni grassi e spossanti, chitarre grevi, accordi bassi e
prolungati che si alternano alle consuete riflessioni ambientali. E' come se
Paul Chain costruisse il suo “Parco della Ragione” nel bel mezzo della Foresta
dell'Equilibrio. Un monumentale saggio di doom metafisico
addolcito dai soliti organi celestiali e dalle splendide costruzioni soliste
della chitarra: improvvise epifanie di raffinata e struggente poesia che dal sound
melmoso e rossastro (che sia l’antico viola scolorito?) emergono aprendo viste
su mondi misteriosi e bellissimi. Uno scenario fantastico.
Dal
singolo “Solitude Man”, al tributo ai Saint Vitus con la
riproposizione di “Let the End Begin” (ottima), “Park of Reason” si
muove con la grazia di un titano colossale, riservandoci un geniale colpo di
coda (biforcuta): due brani (“Logical Slow Evolution” nella cassa
sinistra e “…In Time” nella cassa destra) sparati in contemporanea a
creare intriganti disarmonie ed aritmie. Nonché a decretare un minutaggio
record di novanta minuti!
4)
“Detaching From Satan” (1984)
Eccoci
all’esordio con i Violet Theatre, progetto musical-teatrale avviato a
seguito della fuoriuscita dai Death SS. La volontà di prendere distanza, almeno
concettualmente, dall'esperienza precedente è netta e tranciante: Chain intende
anzitutto distaccarsi da quel Satanismo che adesso vede come inferiore e futile
ideologia. Il Teatro Viola, invece, poggerà i propri fondamenti sull’antica
filosofia della Morte o Magia Viola di cui l'autore si dichiara cultore.
Rispetto a tante altre realtà che nel metal “giocano” con la morte, Chain
affronta il tema “a mani nude”, con inconsueta crudezza, cosa che si evince
dalla schietta copertina che ritrae l'artista stesso in uno scarno bianco e
nero in una posa a metà strada fra un defunto ed un oscuro sacerdote.
Chain
ha il fuoco nelle vene e tutti e quattro i pezzi di questo mitico EP, motum primum dell’intero suo viaggio
artistico, sono a dir poco memorabili. La musica è morbosa e violenta. Quanto a
malvagità, tenendo conto degli standard dell'epoca (correva l'anno 1984),
la musica ivi proposta si porta su un fronte decisamente avanzato di
efferatezza. Il dark sound dell’heavy metal di Chain trae ovviamente
origine dalle atmosfere orrorifiche inscenate dalla sua vecchia band, ma i
Violet Theatre riescono a suonare ancora più oscuri, a partire dalla voce
malata di Chain, acida e sgraziata più che mai. Tutti i brani sono pervasi da
una furia hendrixiana, un chitarrismo in continua mutazione (fra riff
taglienti e marciume arpeggiato) supportato diligentemente da una sezione
ritmica micidiale (si guardi alla malefica “Voyage to Hell”, sorta di “Foxy
Lady” delle tenebre). Di sabbathiano c’è la pesantezza delle
chitarre, anche se solo nell’ultima traccia (impreziosita dall’interpretazione
teatrale di Gilas) si può parlare di vere e proprie atmosfere doomeggianti.
Da avere, senza se e senza ma!
3) “Violet
Art of Improvisation” (1989)
Rilasciato
nel 1989, ma contenente tracce registrate fra il 1981 e il 1986, “Violet
Art of Improvisation” è il manifesto programmatico del Paul Chain solista.
Sospeso fra metal e sperimentazione, l'opera è un doppio album che
mostra i due volti complementari di Paul Chain. Da un lato il Chain elettrico,
ben introdotto dal primo tomo, con in prima fila una fenomenale “Tetri
Teschi in Luce Viola”, ossia mezzora di divagazioni doom/psichedeliche
aperta da un maestoso organo da chiesa molto molto vintage: suoni ruvidi
e presa diretta, riff devastanti ed effetti riverberati per un viaggio
tremendo che è destinato a rimanere uno dei saggi più rappresentativi dell'arte
cateniana.
L’altra
faccia della medaglia è invece rappresentata dalle sei belle tracce del secondo
tomo, le quali ci consegnano un Chain meditabondo in una dimensione incentrata
sui sintetizzatori e non più sulla chitarra: atmosfere pinkfloydiane, un
flusso sinusoidale che attinge dalla migliore musica cosmica come dall’ambient.
Nenie dal forte potere ipnotico, organi ondeggianti, un’elettronica soffusa che
sa fondere psichedelia ed avanguardia (si guardi alla manipolazione dei nastri
e delle voci). Sottendendo una ricerca che, penetrando nell’inconscio, procede
sotterranea verso l’Ignoto. Ammaliante.
2)
“In the Darkness” (1986)
Un
titolo un programma. Dopo due anni dalla fondazione dei Violet Theatre
ed un EP strabiliante, Chain dà alle stampe il primo full-lengh della
sua nuova band. Al di là che Chain stava sviluppando un suono che in Italia
nessuno ascoltava né tanto meno suonava, e che per questa sua ricerca egli
verrà seguito con interesse soprattutto dall'estero, la demarcazione fra questi
suoni e quelli delle altre heavy metal band attive nel periodo è una questione
di umori, di atmosfera, di profondità extra-musicale. La differenza che
correva, per esempio, fra i ben più noti Mercyful Fate e Paul Chain è la
stessa che può sussistere fra un regista come l'inglese Roger Corman
(avete presente la serie di pellicole dedicate ai Racconti del Terrore di Edgar
Alla Poe?) e l'italiano Mario Bava: una questione di morbosità che
misura la distanza fra degli horror ben fatti da un regista pragmatico che ben
conosce il suo mestiere, e gli insani e deraglianti capolavori di un genio
visionario quale è il nostro Bava. Con in più quell'approccio artigianale che
contraddistingue, tanto per rimanere in tema, molti cineasti italiani di culto,
come il primo Argento e Lucio Fulci.
Suoni
neri come la pece, registrazione rozza ma efficace, una solida sezione ritmica
a supporto di una chitarra irrequieta che non trova pace, fra riff al
vetriolo ed arpeggi putrescenti. Con sopra le solite prodezze soliste e le voci
sconcertanti dello stesso Chain e di Sanctis Ghoram (che figurerà come
vocalist principale in ben tre pezzi). Della partita fanno parte due classici
dei Death SS che ritroveremo successivamente in “Black Mass” (uscito nel
1989): “Welcome to my Hell” e “In the Darkness”.
1)
“Alkahest” (1995)
“Alkahest” è il
capolavoro formale di Paul Chain, la summa della sua arte confezionata in una
veste professionale. Nel doom esistono molti album “definitivi” (in linea di
principio ogni album doom è un album definitivo), ma se dovessi sceglierne uno,
al massimo due, indicherei sicuramente “Forest of Equilibrium” dei Cathedral
e proprio questo lavoro di Paul Chain.
Doom
classico, magico, elegante, arricchito da suggestioni arcaiche ed esoteriche,
ma al tempo stesso un doom solido, concreto, asciutto: riff poderosi,
assoli superlativi, una ricerca melodica che procede a braccetto con la potenza
del metallo. Tanto per aggiungere gloria alla gloria, nel secondo lato le
composizioni sono marchiate a fuoco dalla interpretazione teatrale del supremo
Lee Dorrian: un connubio che ci consegna il miglior doom possibile (visto
che la voce incerta di Chain è rimasta nel tempo il punto debole della sua
proposta). Il poker di brani posti in chiusura è da manuale: “Voyage to Hell”
(ripescata direttamente da “Detaching from Satan”), “Static End”
(torbida discesa negli inferi fra rantoli sgraziati, un biblico recitato e
maestose tastiere), “Lake Without
Water” (onirica ballata con un Dorrian insolitamente vellutato) e “Sepulchral
Life” (la doom-metal-song per eccellenza: dieci minuti di sfinimento
chitarristico e vocale, con tanto di accelerazione centrale e successiva
ricaduta negli abissi) sono semplicemente quanto di meglio il genere possa
offrire. Fate voi le vostre valutazioni.
P.s.
Paul Chain ci tiene a precisare di essere uno strenue sostenitore del pacifismo
e che le SS del monicker Death SS non hanno niente a che fare con
Nazismo e Terzo Reich. Tiè!
Lunga
vita al Catena.
Playlist essenziale:
1) “Terror” (Death SS, “The Story of Death SS
1977 – 1984”)
2) “Horrible
Eyes” (Death SS,
“The Story of Death SS 1977 – 1984”)
3) “Voyage to
Hell” (Paul Chain
Violet Theater, “Detaching From Satan”, 1984)
4) “Welcome
to my Hell” (Paul
Chain Violet Theater , “...In the Darkness”, 1986)
5) “Our
Solitude (Birth, Life, Death)” (Paul Chain Violet Theater, “Opera 4th”, 1987)
6) “Tetri Teschi in
Luce Viola” (Paul Chain, “Violet Art of Improvisation”, 1989)
7) “Whited
Sepulchres” (Paul
Chain, “Whited Sepulchres”, 1991)
8) “Underground
Life” (Steve
Sylvester, “Free Man”, 1993)
9) “Sepulchral
Life” (Paul Chain,
“Alkahest”, 1995)
10) “Strange
Philosophy of Life”
(Paul Chain – The Improvisor, “Master of All Times”, 2001)