I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL
CONCLUSIONI E CLASSIFICA FINALE!
L’impresa
è giunta a compimento! Dopo esserci tolti gli ultimi sassolini dalle scarpe (si veda la prima parte), ecco finalmente i dieci titoli (più uno) che vanno a comporre la nostra classifica dedicata ai migliori brani lunghi del
metal. Una selezione inevitabilmente non esaustiva che cerca di racchiudere
con equilibrio (sia a livello di generi e sottogeneri contemplati, che di ripartizione
temporale lungo le decadi passate in rassegna) il meglio del metal visto dal
punto di vista del “brano lungo”.
Suite
articolate in sezioni, jam basate sull’improvvisazione, crescendo
post-rock, epiche cavalcate, barocchismi prog-metal, iniezioni di orchestra e sinfonismi
assortiti, il minimalismo dell’ambient, ma soprattutto la famigerata classica
canzone dal ritornello anthemico infarcita ed allungata all’eccesso: il
metal (tecnico o meno tecnico che sia) ha spesso ambito a costruire
composizioni di elevato minutaggio, a volte sbagliando di brutto, altre
rasentando il miracolo.
Ecco
dunque i nostri vincitori!
(Fuori
concorso) “2112”
(Rush, 1976) – 20:34
Li
abbiamo voluti mantenere come antipasto, giusto perché le loro sonorità sono
ancora troppo radicate nel background culturale del rock degli anni
settanta per essere definite metal tout court. E tuttavia dovevamo per
forza portarli in fondo, i Rush, perché la loro celebre suite
a sfondo fantascientifico è l'antesignana di tante altre suite partorite
in seno all’heavy metal negli anni e nelle decadi a seguire. Ma non solo: “2112” rimane di per sé un ottimo
brano, sospeso fra energico heavy rock ed arditezze prog, capace di mettere in
mostra sia la preparazione tecnica dei tre canadesi, che la loro bravura nell’integrare
i diversi tasselli: tasselli che vanno a comporre un concept
distopico degno di Aldous Huxley. Seminali!
10°) “At War With Satan” (Venom,
1983) – 19:57
Li
abbiamo spregiati ed offesi, abbiamo riso di loro, gli abbiamo sbeffeggiati, ma
alla fine ce l'hanno fatta, in culo a tutto e tutti! Cronos, Mantas,
Abaddon non sanno chiaramente suonare una mazza, né sembrano possedere
una visione chiara di come organizzare un componimento che sappia deviare dai
binari del brano breve e veloce. Ma sono scaltri i Venom ed hanno
spregiudicatezza da vendere. E così (non si capisce come, forse proprio grazie
alla loro superficialità ed alla loro irresponsabilità!) riescono nell’impresa
impossibile di mettere in fila venti minuti incredibili fra heavy classico,
punk e rozzo proto-black metal! Eroici!
Prima
che ci sputiate, lasciateci spiegare! Ok, nemmeno i quattro di Brooklyn si
possono definire dei virtuosi. I loro brani non portano chissà quale
complessità: sono monotoni, ripetitivi, puerili, fatti di suoni lenti,
slabbrati, un discorso evidentemente trascinato per le lunghe. Eppure i Type
O Negative ci sanno fare: comunicano con l’ascoltatore, calamitano la sua
attenzione strizzando l’occhio, fra movenze sensuali e trivialità assortite, all’universo
dark. Prendete, fra le tante, “Black No 1”: un giro di basso degno dei
Nirvana, incedere cadenzato, il fascinoso lamento baritonale del
carismatico Peter Steele, che per l’occasione estrae dal cilindro un ritornello
irresistibile che si stampa subito in testa e che non stanca praticamente
mai. E la lunghezza del brano non grava sulle nostre palle. Irresistibili
paraculi!
8°)
“Pelagial” (The Ocean, 2013) – 53:13
E'
vero, avevamo deciso di non contemplare i cosiddetti album-brani
(ossia quei concept-album che vengono fatti passare per una composizione
unica), eppure, ascoltando e riascoltando “Pelagial” si è in noi fatta
strada la convinzione che quest’opera di oltre cinquanta minuti un senso unitario
ce lo abbia, eccome. Cristallina descrizione di una graduale discesa negli
abissi dell’oceano e della coscienza umana, “Pelagial” è un viaggio fisico e
metafisico al tempo stesso, e ci rapisce nel suo sviluppo travolgente, dai toni
intimistici da semi-ballad dell’inizio, al doom asfissiante del
possente finale, passando da progressioni post-metal e finezze
progressive. Immensi!
7°)
“The Drapery Fall” (Opeth, 2003) – 10:53
Ma
se si parla di prog, non potevamo non considerare gli Opeth, “la
band del brano lungo” per eccellenza. Si è visto come, nel caso degli
svedesi, gli esempi da pescare siano innumerevoli: la nostra scelta, infine, è
caduta su un brano della maturità in cui si sposano in modo sublime le
efferatezze del death alle eleganti movenze del rock progressivo
degli anni settanta. Il tutto condito dalla bellissima voce di Mikael
Akerfeldt, diviso fra incantevoli vocalità pulite ed ottenebranti growl.
Un esercizio di bravura che sa mettere insieme partiture intricate e gusto
melodico, senza perdere di vista le emozioni. Unici!
6°) “We, The Gods” (Anathema, 1995) – 9:59
Beh,
qui c'è da fare un discorso a parte. “Fra la politica e l'amore ho scelto
l'amore”: così più o meno tuonava nel 2008 Clemente Mastella, ministro
della giustizia (mentre faceva cadere il secondo governo Prodi, nda),
nella strenue difesa della moglie inquisita. Alla stessa maniera, con altri
intenti, noi oggi gridiamo: “Fra la burocrazia e l'arte scegliamo l'arte”. Se inizialmente
avevamo deciso di escludere dai giochi “We, The Gods” solo per la sua durata
(un secondo in meno rispetto ai fatidici dieci minuti che abbiamo adottato come
durata minima per considerare i partecipanti a questo concorso), adesso
intendiamo non solo ripescarla, ma anche innalzarla al cielo verso l’Olimpo dei
momenti più emozionanti del metal tutto. Siamo dei fottuti sentimentali, lo
sappiamo, e proprio non ce l'abbiamo fatta ad escludere questo splendido
esemplare di gothic-doom: un crescendo di un’intensità unica, illuminato
in tutta la sua durata da una sognante psichedelia degna dei Pink Floyd
più visionari. Il canto spossato di Darren White, i suoi struggenti
versi poetici sono il perfetto contraltare ai sublimi intrecci delle chitarre
dei fratelli Cavanagh ed al basso cavalcante di Duncan Patterson.
Da brividi.
5°)
“Blood Fire Death” (Bathory, 1988) – 10:28
Accediamo
alla top ten ed i duri entrano in gioco: Quorton è un eroe
della musica estrema e la sua propensione al brano lungo non è stata un'eccezione
nel suo modus operandi, ma una necessità dettata dalla volontà di coniugare epicità
ed atmosfera come nessuno prima aveva saputo fare. Sarà grezzo,
approssimativo e stonato come una campana, ma ha un cuore grande quanto il
mondo intero, Quorton: un cuore che sentiamo pulsare in tutte le manifestazioni
della sua arte. Ne abbiamo citate diverse, di queste manifestazioni, spingendoci
persino alle più mature estrinsecazioni viking (“One Rode to Asa Bay”
e “Twilight of the Gods”), ma alla fine a spuntarla sono i dieci
coinvolgenti minuti di “Blood Fire Death”, belligerante manifesto di un
Nord che non china la testa innanzi alle istanze conquistatrici del
Cristianesimo: arpeggi di chitarra acustica, possenti riff, ritmiche
marziali, una voce sgolata che si dona al mondo fino all’ultimo centimetro di
corda vocale! Il black metal prima del black metal: un gigante.
4°) “Det Som En Gang Var” (Burzum, 1994) –
14:21
Poniamo
a malincuore il “buon” Varg Vikernes al quarto posto, perché per noi lui
era il vero vincitore morale. Poeta mistico, musicista ispirato, mai nessuno
come lui nel metal è riuscito a dare così tanto con un così esiguo impiego di
energie. I suoi brani sono minimali e si limitano ad alternare tre o quattro
temi, ma con che risultati! “Det Som En Gang Var“, capolavoro
espressionista di un cantautorato elettrificato che solo per convenzione
definiamo ancora black metal, è uno dei momenti più alti mai manifestati
nel Reame del Metallo quanto a capacità di descrivere sensazioni ed
evocare immagini, paesaggi dell'anima. Un enigma.
3°) “A Change of Seasons” (Dream
Theater, 1995) – 23:06
Poniamo
invece con fatica Petrucci & Co. al terzo posto, perché la loro
leziosità non ci è mai andate a genio. Ma è necessario dare a Cesare quel che è
di Cesare e i cinque bostoniani in questa suite fanno davvero miracoli,
consegnandoci un prog-metal all'apice della sua complessità esecutiva.
Il tasso tecnico sfoggiato dai cinque è forse il più alto mai registrato
negli ambienti metal, ma la faccenda qui non si circoscrive al virtuosismo dei
musicisti, in quanto le sette sezioni del brano si integrano alla perfezione,
fra melodia e funambolismi, il tutto mosso da grande ispirazione e riverniciato
con l’argento vivo che i ragazzi si portavano addosso. Ogni cosa è veramente al
suo posto e se lungaggini del Teatro dei Sogni non ci hanno mai fatto
impazzire, dei ventitre minuti di “A Change of Seasons” non ne va
sprecato nemmeno uno. Nel loro
campo, insuperabili.
2°) “Keeper of the Seven Keys”
(Helloween, 1988) – 13:38
Lo
abbiamo detto più volte e siamo consapevoli di essere divenuti noiosi, per questo
ve lo diciamo per l'ultima volta e in modo breve e coinciso: “Keeper of the
Seven Keys” è secondo noi un brano perfetto. E non solo per
l’universo power. Le Zucche di Amburgo a questo giro non
sbagliano davvero un colpo: tredici minuti portati avanti con equilibrio,
classe, gusto melodico e grazia compositiva. E con un ritornello epocale
da tramandare ai posteri. Perfetti.
1°) “Rime of the Ancient Mariner”
(Iron Maiden, 1984) – 13:36
Come
già sostenuto a suo tempo, a noi di Metal Mirror la perfezione non basta, per
questo abbiamo voluto incoronare vincitrice “Rime of the Ancient Mariner”,
esempio di pura e concentrata genialità metallica. Non sono probabilmente la
miglior heavy metal band della storia, ma gli Iron Maiden scrivono con
questo loro colossale brano un pezzo importante della nostra storia. E nessuno
lo potrà negare. “Rime of the Ancient Mariner”, scaturita dalla penna ispirata
di Steve Harris, è heavy metal allo stato puro: imprevedibile,
coinvolgente, emozionante, essa fotografa un ensemble al top
della forma fisica e dell’affiatamento. Epicità, atmosfera, ma soprattutto
coglioni, grandi coglioni, enormi coglioni al servizio di una cavalcata che nel
metal non ha eguali. Ritmiche in continuo mutamento, riff rocciosi, un
intermezzo atmosferico che ha fatto epoca ed una ripartenza di quelle che non
si dimenticano. Con un Bruce Dickinson integerrimo e il poema di Coleridge
ad aggiungere gloria alla gloria. Insuperabili.
E
con questo è davvero tutto, cari lettori: termina qui la nostra rassegna,
nella consapevolezza che noi, che l'abbiamo scritta, ci siamo enormemente arricchiti;
e nella speranza che voi, che l'avete letta, vi siate arricchiti almeno quanto
noi.