Abbiamo introdotto con gli Swans
il tema della Resurrezione: dopo quasi tre lustri di inattività
la seminale band americana si riforma attorno alla figura mitica di Michael
Gira, non per pubblicare copie sbiadite dei lavori gloriosi che furono, ma
per dare il via ad una nuova coinvolgente era artistica (la terza).
Se non sfigurare troppo rispetto
ai fasti del passato (quando si era giovini e forti) è già un’impresa, replicarli
diviene cosa alla portata davvero di pochi. Il mondo del metal è stato
teatro, negli ultimi anni, di svariate reunion, certe portate
avanti con onestà, altre che si sono rivelate delle buffonate capaci solo di
sputtanare un mito. Si è detto: queste reunion hanno permesso di vedere
sul palco band storiche che pensavamo di poter ammirare solo su uno schermo, ma
in tutti questi casi è accaduto raramente che il prodotto artistico in sé si
rivelasse indispensabile.
Ho guardato dentro al metal e
ho visto un uomo che, risalendo dal suo Inferno e riaffiorando in superficie,
ha fatto esattamente il contrario di tutti gli altri, non degnandosi di montare
su un palco (cosa che peraltro non ha mai fatto), ma compiendo l’impossibile:
si è confrontato con la statura del suo vecchio sé, quello glorioso che forgiò capolavori,
plasmò un genere nuovo, introdusse una nuova attitudine e che seppe gettare
semi che nel corso della sua assenza avrebbero germogliato e generato nuovi
movimenti. Quell’uomo è Varg Vikernes.
Il Varg Vikernes che, dopo i
seminali album usciti all’inizio degli anni novanta, è stato forzatamente
costretto a riporre la sua chitarra nella custodia, in quanto incarcerato per
l’omicidio di Euronymous, avvenuto il 10 agosto del 1993. Burzum,
in verità, non ha mai cessato di esistere, considerato che dal carcere il
Nostro ha continuato a sfornare lavori di solo tastiere (l’unico strumento che probabilmente
gli hanno permesso di maneggiare). Eppure è con il suo ritorno all’elettricità
con l’album “Belus”, edito nel 2010 (appena qualche mese dopo la sua
uscita dal carcere avvenuta nel maggio del 2009), che possiamo assistere ad una
vera e propria rinascita/resurrezione artistica.
Sedici anni son tanti e quasi ci vien da
riflettere sul senso del trascorrere del tempo. Quante cose possono succedere,
quante ne sono successe in sedici anni! Noi non siamo più gli stessi, il mondo
non è più lo stesso. Separato dal mondo, recluso in quello che all'epoca amava
baldanzosamente chiamare “hotel”, Vikernes ha condotto una esistenza congelata,
in sospensione, fuori dal tempo. Dopo sedici anni torna a vivere, un bambino
con le sembianze di un vecchio decrepito (si vedano le foto sul suo sito
all’indomani della scarcerazione): impossibile paragonarlo a quell'impacciato
adolescente che ricordiamo a lisciarsi i capelli imbarazzato, mal celando un
evidente disagio, dietro ai banchi del processo per l'uccisione di Euronymous.
Per capire “Belus” è
necessario ripartire proprio da quelle foto, dai solchi del volto ebete e
barbuto del Vikernes di oggi. In quei solchi si può intravedere un’angosciosa
fragilità: dopo sedici anni di clausura carceraria, Vikernes sembra volere, più
di ogni altra cosa, appropriarsi nuovamente del suo status di musicista. E più
in particolare dello status di musicista black metal, la veste che sicuramente
ha meglio calzato nel corso dei quasi due decenni di esposizione mediatica. Dalle
ceneri dei suoi lavori degli anni novanta si sono sviluppati più filoni
all'interno del black metal, poi racchiusi in varie etichette (depressive
black metal, suicidal black metal, post-black metal), a firma
di seguaci che hanno saputo riprendere ed articolare le sue lezioni, mantenendo
viva negli anni la sua fiammella artistica.
Eppure “Belus” non risente
dell’effetto inflazione: quelle stesse soluzioni riproposte
scolasticamente da una miriade di gruppi non tolgono smalto o forza emotiva ad
un maestro invecchiato e tornato sulle scene dopo che la sua arte è stata
rivoltata come un calzino e riproposta in mille salse. “Belus” è semplicemente
Burzum, talmente Burzum che non risulta nemmeno né meglio né peggio dei suoi lavori
storici: chi ha seguito la parabola artistica burzumiana si sarà
certamente reso conto che i vari lavori pubblicati, pur nelle loro diversità,
si equivalgono, tanto che è tutt'oggi difficile affermare con certezza quale
sia da eleggere come il capolavoro assoluto della sua discografia. Certo,
ognuno di noi avrà le sue preferenze, ma difficilmente troveremo una visione
comune e questo perché ciascuno di quegli album perde ed al contempo guadagna
qualcosa rispetto al diretto predecessore. “Belus”, al pari degli altri, è un capolavoro
che aggiunge e toglie qualcosa a tomi che l'hanno preceduto.
Cosa toglie “Belus”? “Belus” ci restituisce un
Burzum più canonicamente black, privo di quella spinta avanguardista,
oltranzista che aveva caratterizzato i primi lavori (del resto, un tempo si
faceva la Storia, oggi si è la Storia!). Anche la voce, abbandonate le
tonalità altissime che la contraddistinguevano fra mille altre, si assesta su
uno screaming più impersonale. Ma al di là che anche le corde vocali
invecchiano, come paragonare un ragazzino nella sua post-pubertà ad un uomo
oramai fatto? Sembra piuttosto che l'arte di Burzum si modelli, si comprima e
si slabbri riciclando autisticamente la medesima materia di sempre.
Cosa aggiunge “Belus”? “Belus” anzitutto porta con
sé un concept lirico (soluzione in effetti inedita), emergendo nel
complesso come un album ragionato, studiato, meglio concepito rispetto al
passato: esso è l’album che riesce a mettere insieme il più alto numero di idee
e soluzioni in un corpo organico e coerente. Vedremo poi che il Nostro si
supererà ulteriormente con il folkeggiante e “variegatissimo” “Umskiptar”,
ottimo parto del 2012, a dimostrazione che il suo
ritorno, come nel caso degli Swans, ha coinciso con una vera e propria
rinascita artistica.
Non è un caso che “Belus”,
cantato interamente in lingua madre ed “artigliato” alla mitologia nordica, ci
parli della resurrezione del dio pagano Belus, chiamato, dopo la morte, a
compiere il suo viaggio dalle tenebre alla luce. Non altro che una metafora per
rappresentare quella che è stata la tormentata biografia del Nostro, che
riscopre la libertà dopo quasi due decenni di prigionia. In “Belus” sembrano infatti
prender forma le idee di sedici anni di impossibilità espressiva: in esso rinveniamo
un'urgenza comunicativa che non solo trova un equilibrio organico mai
raggiunto in precedenza, ma che finisce per coincidere con la riaffermazione di
un’identità così forte da prevalere sullo stratificarsi esistenziale di
un così lungo lasso di tempo.
Torna (se Dio Belus vuole!)
la chitarra elettrica, maneggiata con grande scioltezza (scioltezza
forse dovuta alle tante seghe che in carcere hanno mantenuto ben fluidi i polsi
del Vikernes, che non sembra affatto uno che per anni non ha sfiorato una
chitarra). Dopo la trascurabile introduzione, il riff che apre l'album è
un'emozione unica per coloro che hanno aspettato per anni questo momento. “Belus'
Dod” riporta alla mente “Filosofem”, ponendosi alle nostre orecchie
come la perfetta sintesi fra un brano come “Burzum” (per l'imponente
andatura) ed uno come “Jesu' Tod” (per lo sferragliare spigoloso della
chitarra). E poi i piattoni: i piattoni che tornano a schiaffeggiare con pathos
tremendo il lento involversi di una colata di distorsioni e riverberi che da
sempre costituiscono il marchio di fabbrica del progetto.
La musica di Burzum non è
anacronistica, e neppure bieco riciclaggio: è semplicemente fuori dal tempo,
sospesa in una dimensione a sé. Ma per chi si sarebbe accontentato di un banale
revival, l'eccellente “Glemselens Elv” sarà una piacevole
sorpresa: nei suoi tormentati undici minuti il brano ci sorprende per la
sua inedita vena epica, per il suo basso in evidenza (il basso che si sente
in un album di Burzum?), per il suo ritornello declamato con voce pulita,
per i suoi assolo sfrigolanti come a bei vecchi tempi. Forse un brano dai
connotati borghesi che compie un passo indietro rispetto a quanto era stato
fatto in passato, eppure così coinvolgente, dinamico nei suoi continui “cambi
di tempo”, appassionante nella sua veste così fiera e melodicamente matura.
L'intero album rispecchia i
crismi del viaggio spirituale del dio Belus ed in parallelo del viaggio
di Vikernes. Con il brano successivo accediamo ad una fase ulteriore del concept,
una fase più caustica, violenta, dove il cammino si fa duro e terribile. I tre
pezzi che seguono, tuttavia, costituiscono probabilmente l'anello debole della
catena, per lo meno dal punto di vista dell'ispirazione e dell'originalità: in “Kaimadalthas'
Nedstigning”, “Sverddans” e “Keliohesten” vengono così rispolverati
tempi maggiormente sostenuti, come a significare l'aspra lotta compiuta dal dio
sulla via della resurrezione (un singhiozzante riffeggiare thrash che riafferma
l'ossessività della più tipica poetica burzumiana ed al tempo stesso un
omaggio agli ascolti di gioventù del Conte).
Sono i venti minuti complessivi
di “Morgenrode” e “Belus' Tilbakekomst (Konklusjon)”, tuttavia, a
riaffermare nel suo splendore la caratura artistica del personaggio in
questione, distanziandolo da tutte le pur buone prove dei suoi adepti e persino
da sé medesimo. Ma che diavolo di finale è mai questo? Il Conte stacca
il cervello a quindici minuti dalla fine, ma non la spina dell’amplificatore:
la coda strumentale del primo brano e la reiterante ossessività tematica del
secondo (eccellente strumentale) sono quanto di più immaginifico ci si possa
aspettare dal black metal. Le molteplici stratificazioni di chitarra ammaliano,
ipnotizzano, svelano le prime ed uniche fratture di uno spirito che non pareva
essere scalfito, bensì indurito, da sedici anni di prigionia. Un finale che è un autentico flusso di coscienza e che fa
emergere prepotentemente l'amore disperato di Vikernes per il suo strumento
prediletto, la chitarra, la quale viaggia distorta edificando un imponente rituale
pagano celebrato sul sacro altare dell’elettricità.
Burzum rinasce, quindi, ma non
si rinnova, continuando con ostentazione a perseguire le sue due/tre idee
di sempre. Risorge tale e quale era, ma puntando all'Infinito, lasciando
indelebile la sua impronta anche sul terzo millennio.
E' proprio vero: doveva
cambiare tutto affinché non cambiasse niente.