I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL
CONCLUSIONI
(parte prima)
Trenta
post, trenta gruppi, trent’anni di storia del metal: la
faccenda, lo ammettiamo, ci è sfuggita di mano. Quella che doveva essere una
semplice classifica di dieci brani, si è ramificata ed insinuata nella
nostra coscienza di scribacchini alla stregua di un rampicante malefico,
spingendoci ad addentrarci nella folta giungla del metal e ad aprirci un varco
che avesse un senso. Un sentiero che invero, seppur con punte di patologia analitica,
abbiamo percorso con gioia inattesa: noi che odiamo più di ogni altra cosa il
track by track, siamo piacevolmente annegati nei mari della descrizione. E
non sappiamo nemmeno se, riemersi da queste acque, saremo sempre gli
stessi...
Ebbene:
alla fine ce l’abbiamo fatta! E’ stata dura, ma fra breve saremo in grado di
mettere in fila dieci titoli (più uno!) che secondo noi vanno a
rappresentare il vasto Reame del Metallo da questo inedito punto
di vista che abbiamo voluto adottare: giunge così alla sua conclusione la classifica
dei dieci migliori “brani lunghi” del metal.
Agalloch,
Anathema, Antonius Rex, Bathory, (The) Black, Blind Guardian, Burzum,
Cathedral, (Paul) Chain, Cradle of Filth, Dream Theater, Fates Warning,
Helloween, Iced Earth, In the Woods..., Iron Maiden, Katatonia, Manowar, My
Dying Bride, Neurosis, (The) Ocean, Opeth, Queensryche, Running Wild, Rush,
Type O Negative, Venom, Virgin Steele, Void of Silence, Voivod: questi, in
rigoroso ordine alfabetico, i protagonisti della nostra rassegna.
Una
rassegna che era stata inaugurata il 1° ottobre dell'anno scorso, più di
cinque mesi fa. Un bel percorso, in primis per noi che siamo stati i
traghettatori. Sempre rimanendo in tema di “acqua”, posso dire che questa
ricerca per il sottoscritto si è andata a legare indissolubilmente alla
domenica mattina, che in genere coincide con il mio appuntamento settimanale
con il nuoto. Da casa mia alla piscina vi sono circa quindici-venti
minuti di macchina: lasso di tempo ideale per analizzare il brano su cui, di
settimana in settimana, bisognava meditare e scrivere. Poi, in quell’oretta di finto
nuoto libero, arrancando contro la legge di Archimede, procedevo perplesso,
rimuginando sulle mie scelte (avrò scelto il brano giusto? Non ve n’è forse uno
migliore? E quale prima e quale dopo?). Rimontavo in macchina e
riascoltavo, consideravo e scartavo, alla ricerca di certezze. Idem il giovedì
sera a lezione di yoga negli interminabili minuti di “meditazione”, in
cui ripercorrevo la classifica in cerca di possibile falle. Il risultato
l'avete sotto gli occhi: un percorso di cinque mesi che va a sorvolare ben
tre decadi dell’epopea metal, dalla antidiluviana “At War with Satan”
dei Venom, targata 1983, al mastodontico album-suite degli
Ocean, “Pelagial”, il quale ha visto la luce solo pochi anni fa,
nel 2013 per l’esattezza.
Dall'approccio
grezzo ed istintuale dei tre di NewCastle, alla maturità “generazionale” delle
nuove leve del metallo, quello che abbiamo percorso è stato un bel tratto di
strada, ricco di incontri con band ed artisti provenienti dai generi e dai
sotto-generi più disparati, sia sul fronte “classico” (heavy, power, epic,
prog, symphonic ecc.), che su quello estremo (doom, gothic, black,
post-hardcore/post-metal ecc.). Una panoramica che tuttavia non possiamo
definire esaustiva, in quanto il tema del brano lungo ci ha imposto di
trascurare generi importantissimi come il thrash, il death e il grind.
E se dei casi di “brano lungo” ci sono stati anche da quelle parti, erano
troppo sepolti nella melma dell'underground per poter essere dissotterrati
e collocati al posto di esemplari ben più rappresentativi.
Il thrash,
per esempio, che nasce come il genere d'impatto per eccellenza e che ha fatto
del brano “mordi-e-fuggi” il medium privilegiato, non è estraneo a
soluzioni più composite ed articolate. I Metallica, in questo, sono
stati dei veri maestri e composizioni come “The Call of the Ktulu”
(8:55), “Master of Puppets” (8:35) ed “Orion” (8:27) sono lì ancora
a dimostrarlo. In quei brani (ma anche in molti altri che non stiamo ad
elencare) i Four Horsemen espandevano i confini del thrash verso i lidi
di una maggiore complessità, sia melodica che compositiva. Sul fronte opposto
troviamo invece degli insospettabili Dark Angel che, a scapito del loro
furioso thrash battente, amavano dilungarsi, raggiungendo sovente durate di
sette, otto e persino nove minuti (nei quali generalmente non accadeva una
mazza). Un'ottima via di mezzo fra questi due poli potrebbero essere i Coroner
di “Grin”, album in cui il trio svizzero seppe imboccare la via di una
intelligente forma di post-thrash metal. La geniale “Serpent Moves”
(7:37), fra riff ricercati, groove modernisti ed improvvise
aperture progressive, rimane uno dei momenti più coinvolgenti offerti dal metal
tutto. Metallica, Dark Angel, Coroner (ma anche gli Anthrax
di “Persistence of Time”) sono tutti validi esempi di come anche nel
thrash sia stato possibile sviluppare nuovi moduli di assalto sonoro al di
fuori dei binari della traccia-killer finalizzata esclusivamente alla
rottura dell’osso del collo dell’ascoltatore.
Nonostante
questo dato di fatto, di brani particolarmente significativi nel thrash metal che
si sono trascinati oltre il decimo minuto (la “misura minima” che ci siamo
imposti come spartiacque per la nostra trattazione) non ne abbiamo incontrati.
Altra faccenda sono i diciassette minuti di “Jack The Luminous” dei Voivod
e il quarto d'ora di “Dante's Inferno” degli Iced Earth, in
quanto i primi da tempo non suonavano più thrash in senso stretto e i secondi erano
a conti fatti più vicini al versante del power classico che al thrash (di cui
comunque adottavano degli elementi fondanti, come le ritmiche serrate e i riffoni
schiacciasassi). La stessa cosa che potremmo dire dei grandissimi Nevermore,
“grandi esclusi” dalla nostra competizione. Brani come “The Politics of
Ecstasy” (7:57) e “The Learning” (9:43) sono comunque due ottimi esempi
di come la band di Seattle abbia saputo destreggiarsi in spazi meno ristretti,
grazie anche al talento compositivo di Jeff Loomis, una sezione ritmica
con i controcazzi e il piglio teatrale di Warrel Dane, titano
delle corde vocali.
Dai
Nevermore ai Control Denied di Chuck Schuldiner il passo è breve,
ma nemmeno la magnifica “The Fragile Art of Existence” (9:38) può fare
al caso nostro, durando essa una manciata di secondi in meno rispetto ai
fatidici dieci minuti. Dai Control Denied alla ultima incarnazione dei Death
il passo è stato ancora più breve, visto che i primi sono stati una coerente
evoluzione dei secondi. I Death completavano la loro epopea con un album
epocale, “The Sound of Perseverance”, e proprio da quell’album peschiamo
l’intensa “Flesh and the Power It Holds” (8:25), ottimo esempio di come
la materia metal possa plasmarsi intorno alla personalità del proprio autore. E
che autore! Chiamate questa musica come vi pare (il termine più appropriato è
secondo me “arte schuldineriana”), ma di certo non la si può definire né
heavy metal classico, né thrash, né tanto meno death-metal.
Ah,
il death-metal! Sul fronte del death nudo e puro il brano lungo per
eccellenza l'hanno firmato gli svizzeri Messiah del grande Remo
Broggi: parliamo di “Ascension of a Divine Ordinance” (9:49),
apocalittica traccia di chiusura (con tanto di voci di bambini e cori angelici)
di “Rotten Perish”, concept-album dedicato, con sguardo
caritatevole, alle mostruosità (fisiche e mentali) rigettate dalla società. Anche
i Morbid Angel hanno avvicinato l'impresa con “Invocation of
Continual One” (9:47), accattivante episodio cardine di “Formulas Fatal
to the Flesh”, impreziosito dal solito ispirato solismo di Trey
Azaghtoth. I più recenti Ulcerate (che del death metal hanno però
una visione assai “post”), concludevano il loro capolavoro “Destroyers of
All” con un brano di 10:30, la title-track. Ma siamo in lidi che
continuare a definire death, almeno nella sua accezione classica, è sicuramente
improprio. Come vedete gli esempi non mancano, ma possiamo sostenerlo: queste
glorie del death, vecchio e nuovo, il meglio l’hanno detto e dato altrove.
Quanto
al grind, ci saranno sicuramente in giro per il globo dei casi di brani
protratti per minutaggi elevati, ma sinceramente non mi vengono in mente
cose mirabolanti (anche perché il grind, da un punto di vista teorico, poggia
sullo stilema della “scheggia sonora”: modulo brevissimo che ha fatto sì che
venti minuti durasse piuttosto un album, che una singola canzone!). A titolo
della categoria, cito comunque i deliranti ventitre minuti di “Never Answer The Phone” dei Today is the Day, che se certo non si possono definire grind in senso stretto, la
loro furia hardcore, inserita in un contesto di destrutturazione sonora, li
avvicina più di tanti altri ai campi minati del grindcore. Il brano in
questione è una estenuante cavalcata chitarristica che si fregia di intriganti
geometrie post-grind: un assalto sonoro che mette a dura prova la resistenza
dell'ascoltatore, schiacciato fra un rifferama implacabile ed effetti
disturbanti che rispecchiano al meglio la mente malata di Steve Austin.
Con
questa breve dissertazione abbiamo dunque cercato di rendere omaggio ai grandi
alfieri di generi come thrash, death e grind. Detto
questo, ci saranno poi tutti gli appassionati di prog-metal, power
e symphonic metal che avranno da recriminare qualche nostra grave
omissione. Ecco, prima che ci arrivino le lettere dell’avvocato di Turilli (via
giù, citiamo anche lui: “Of Michael the Archangel and Lucifer’s Fall Part
II: Codex Nemesis” (lungo anche il titolo!), contenuta nell’ultimo “Prometheus – Symphonia Ignis Divinus” (un titolo, un programma!) di Luca Turilli’s
Rhapsody è una formidabile suite di diciotto minuti in cui succede
praticamente di tutto!), detto questo, dobbiamo ripetervi ancora una volta che
abbiamo dovuto inevitabilmente effettuare delle scelte, anche dolorose, e che
per generi come quelli che abbiamo appena citato, abbiamo preferito tagliar
corto ed orientarci verso nomi più
rappresentativi come Dream Theater, Helloween e Blind Guardian.
Idem per gli universi del depressive black metal e del post-black metal: ci basti aver toccato l’argomento con numi tutelari di questi filoni come Burzum ed Agalloch (grazie, lo sapevamo anche noi che band come Shining, Leviathan, Wolves in the Throne Room, Altars of Plagues hanno saputo realizzare eccellenti brani lunghi!). In questo ambito, l’unico brano però che con rammarico ci pentiamo di non aver osservato nel dettaglio e che dunque ci sentiamo di rammentare adesso è la superba “Alone Walkyng” (10:28) degli Hades Almighy (che peraltro abbiamo sfiorato nella nostra classifica dei migliori album black norvegesi): dieci minuti di fiero ed agonizzante black metal bathoriano caratterizzato da dolenti tempi medi e fraseggi elettroacustici da brividi.
Ultima
menzione d’onore la facciamo, infine, per un brano che non abbiamo potuto
includere perché uscito quando oramai il tutto era nella sostanza pianificato,
ma soprattutto perché gli Iron Maiden erano già stati ingaggiati con la
storica “Rime of the Ancient Mariner”. Ebbene sì, i sei nonnetti inglesi
ci hanno regalato sul finire del 2015 una perla che vale la loro fama, quella “Empire of the Clouds” a cui abbiamo dedicato uno spazio apposito e che voglio qui ricordare
con un passo tratto dalla recensione scritta di mio pugno:
“Ma
soprattutto: Dio benedica Bruce! Perché ha scritto “Empire of the Clouds”,
che con i suoi diciotto minuti è il brano più lungo nella storia degli Iron
Maiden. Il testo si ispira ad un tragico evento avvenuto il 5 ottobre del 1930:
lo schianto del dirigibile britannico R101 durante il suo volo
inaugurale, un incidente che provocò l’incendio dell’aeromobile e la morte di
quarantotto passeggeri. In questa rievocazione c’è tanto del Bruce solista,
quel Bruce epico cantautore che non ha mai trovato grandi spazi negli album
degli Iron, ma c'è tanto anche del Bruce pilota e del Bruce che ama volare. E
il Bruce, in definitiva, che ha lottato contro il cancro.
L’inizio
a base di pianoforte e di archi ha suscitato diverse perplessità nel popolo
metallico, ma sinceramente me ne infischio: siamo solo ai primi vagiti del
brano, che decollerà (in tutti i sensi) al settimo minuto. Chitarre,
percussioni marziali e solenni orchestrazioni battono all’unisono suggerendo il
dramma che il brano si presta a descrivere. Dei fantasiosi giri di chitarra, in
realtà, disegnano immagini bellissime, contrastanti, trasmettendo prima la
bellezza del volare e poi l’inferno del precipitare, in un tripudio di emozioni
contrastanti (levità, tensione, epicità, disperazione): tour de force
chitarristici, cavalcate a denti stretti ed assolo nervosi, una maratona
ATTUTTOIRON (che gran cuore hanno gli Iron…) con un Bruce da lacrime nel finale
(Dio benedica Bruce) che quasi prende la prima stecca della sua vita per la
foga di entrare in scena nell’esatto momento in cui doveva entrare in scena.
Tutti son stanchi, tutti son vecchi, ma con la forza della disperazione
riescono a farmi emozionare ancora, riportandomi in una confusa era “pre
metal” in cui la voce di Dickinson e le melodie dei Maiden (fra i primi
gruppi metal che abbia mai udito) bucavano ed affascinavano le mie orecchie
ancora vergini di metal, ma già attratte da quella musica così potente ed
affascinante. E piango pensando (senza un motivo in particolare che me lo
faccia sostenere) che questa sia l’ultima canzone, non dell’album, ma
degli Iron Maiden...“
Bene,
adesso basta, basta per davvero: anche troppe parole sono state spese! Abbiamo
fatto trenta, facciamo trentuno (post!), eccoci finalmente al momento fatidico della
classifica finale…