I MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL
APPENDICE III: “PELAGIAL” (THE OCEAN)
Se
ogni regola è fatta per essere infranta, contravveniamo volentieri ai nostri
dettami secondo i quali, ai fini della selezione dei migliori “brani lunghi” del metal, ci eravamo imposti di non considerare gli album composti da
un solo brano, o meglio, gli album che vengono fatti passare per un solo brano.
Con ben
in mente quella legge sociologica per cui “se più individui si riuniscono, fanno
un gruppo, ma se il numero degli individui cresce, da un certo punto in poi l’agglomerato
tenderà a dividersi in più sotto-gruppi”, avevamo deciso di escludere dalla
nostra trattazione quella strana tendenza a realizzare l’album-brano.
Per noi il “brano lungo” (sia esso una suite, una jam o
semplicemente una canzone “infarcita e tirata per le lunghe”) deve mantenere
una sua identità, una sua ragione d’essere in quanto entità autonoma e coerente
con se stessa. Cosa che non si può certo dire di un “A Pleasant Shade of Gray” dei Fates Warning o di un “The Incident” dei Porcupine
Tree, in cui le varie “sezioni” hanno proprio le fattezze di singole
canzoni (con tanto di ritornello e sviluppo autonomo), legate da un concept
narrativo e da due o tre temi ripetuti qua e là per conferire un senso unitario
al tutto.
Però
c’è sempre un’eccezione che conferma la regola. Poiché non ce la sentivamo di
lasciarci alle spalle quella galassia di band ambiziose che hanno tentato
l’impresa dell’album composto da un unico brano, ci siamo chiesti se per caso
vi fosse un’opera che fosse in grado di collocarsi un attimo prima di quel fatidico
“momento di rottura” in cui l’impianto sonoro inizia a scricchiolare e a
scomporsi in episodi isolati, perdendo così di identità. Gli Edge of Sanity
di “Crimson” potevano essere il nostro caso, ma se certo quell’album non
si può definire un insieme di brani, c’è comunque da dire che esso soffre di
una eccessiva frammentarietà: si ha l’impressione che la prodigiosa band
capitanata da Dan Swano sia in grado di legare fra loro i pezzi solo
fino ad un certo punto, ma che di tanto in tanto abbia bisogno di fermarsi e di
ripartire. Sarà un’esigenza fisiologica, ma si perde quella scorrevolezza e
quel senso unitario che pretenderemmo da un’opera che ambisce ad essere un’entità
sonora unica. Sul fronte opposto troviamo i Meshuggah di “CatchThrtythree”, coerenti fino alla nausea: la loro operazione è
inevitabilmente un qualcosa di compatto, ma le forzature sono troppe e il tutto
finisce per suonare come un esperimento fine a se stesso, peccando la band di
quella autoreferenzialità che va a minare lo spontaneo svolgimento che un brano
ha nella sua parabola di vita.
L’equilibrio
fra questi due opposti lo troviamo così in una band assai giovane, espressione
dell’ultima generazione di formazioni appartenenti al filone post-metal:
gli Ocean dell'instancabile Robin Staps. “Pelagial”, con i
suoi cinquantatre minuti e tredici secondi di durata, può essere infatti
considerato ancora come un unico brano.
Anno
2013: per ogni band dedita al metallo “pensante”, giunge prima o poi il
fatidico momento del concept. Per una band fuori dal comune come
gli Ocean, per i quali il concept è la regola e non l’eccezione,
l’asticella dell’ambizione si alza ulteriormente: giunti al sesto full-lenght,
dopo una serie di lavori oscillanti fra il buono e l’ottimo, fra cui gli ultimi
due superlativi album cugini “Heliocentric” e “Anthropocentric”
(parti speculari del medesimo concept - appunto!), il fisiologico
obiettivo sfidante a cui mirare rimaneva l’album-suite. “Pelagial”, è
vero, si divide in undici sezioni, ma solo per la comodità
dell’ascoltatore, che magari può interrompere e riprendere l’ascolto con
maggiore leggerezza: quelle sezioni, prese singolarmente, hanno infatti davvero
poco senso, perché l’album brilla di una coesione e di un equilibrio fra le sue
parti che ha del miracoloso.
Com’è
che i tedeschi sono riusciti nell’impresa laddove gli altri (anche i più grandi)
hanno fallito? Aiuta senz’altro l’elevata preparazione tecnica, presente un
po’ in tutti i reparti, ma forse il segreto sta nelle vicissitudini che hanno
caratterizzato la realizzazione di “Pelagial”. L’album era stato infatti concepito
inizialmente come strumentale (salvo un paio di pezzi, che
originariamente dovevano ospitare la voce), scelta dettata anche dai problemi
alle corde vocali denunciati dal cantante (ormai in pianta stabile nel
collettivo) Loic Rossetti. La band si è quindi dedicata con maggiore
dedizione e rigore nella definizione di una composizione che fosse dotata di
senso anche senza la componente vocale: uno sforzo, sia sul fronte della
scrittura che su quello degli arrangiamenti, che ha giovato sicuramente in
termini di omogeneità e scorrevolezza.
A
registrazioni terminate, tuttavia, Rossetti si dichiarerà in grado di prestare
la sua ugola alla causa. E meno male che si è optato per questa soluzione,
perché altrimenti non staremmo qui a parlarne: ascoltando la versione
strumentale (che è stata inclusa come bonus disc nella confezione
del cd), ci rendiamo conto quanto essa, nonostante tutte le accortezze adottate
dalla band, soffra ancora di quella “sindrome della frammentarietà” che abbiamo
riscontrato altrove. E’ la versatile voce di Rossetti che ci mette una pezza
sopra, attirando continuamente l’attenzione dell’ascoltatore e sviandola dai
certi passaggi più anonimi: un po’ come uno specchietto per le allodole, quella
voce ci distrae e ci fa percepire il tutto come un coinvolgente e continuo
flusso sonoro. Sarà forse stato un caso fortuito, ma probabilmente il segreto
di “Pelagial” sta proprio in questa doppia fase: rigorosa preparazione prima, opera
di “riverniciatura/copertura” dopo. E il giochetto funziona!
Aiuta
anche il carattere “graduale” del concept (impostazione non nuova nella
storia della band, che adottò un approccio simile in “Precambrian”): in “Pelagial”
non si racconta una storia (con le sue vicende, i suoi alti e bassi, i suoi
colpi di scena). In esso si intende piuttosto descrivere le diverse fasi che
caratterizzano la progressiva discesa nelle profondità dell’oceano (vero punto
di approdo artistico, in tutti i sensi, per una band che si chiama appunto Oceano).
Processo di progressiva immersione che non si risolve in una mera questione di
pascal. Da un punto di vista “superficiale”, infatti, l’idea sarebbe quella di
descrivere le sensazioni di pressione crescente che si vivono scendendo dalla
superficie alle profondità più insondabili della massa acquea. E la musica
dovrebbe in tal senso procedere di pari passo, in modo liquido (appunto),
dall’elegante piano jazzato dell'incipit (spruzzi e lazzi
di una schiumosa superficie appena increspata) all’opprimente ed asfissiante doom
(abissale, potremmo dire!) che si impone nella parte conclusiva dell’opera.
Fuor
di metafora (quella “marina”, intendo) il viaggio assume valenze psicologiche e
persino esistenziali. Non a caso il concepimento dell’album trae ispirazione
dal film “Stalker” del cineasta russo Andrej Tarkovskij,
fantascientifico per modo di dire, che narra dell'estenuante ricerca della “Zona”,
la stanza dove possono avverarsi, al di fuori di ogni legge della fisica, i
sogni e i desideri più intimi. Solo per motivi legati ai diritti d’autore, le
frasi tratte dai dialoghi del film non sono divenute i testi che sarebbero
stati enunciati da una voce fuori campo (idea originaria di Staps) da incuneare
lungo il multi-stratificato blocco strumentale che compone il corpus
dell’album.
Gli Ocean,
musicalmente parlando, sono sicuramente la punta di diamante del metallo
odierno: a metà strada fra Isis, Cult of Luna, Opeth e gli
indispensabili Tool, riescono a coniugare melodia, tecnica, potenza ed
intelligenza per quanto ciò sia possibile fare con chitarre, basso e batteria (e
con qualche sporadico intervento di tastiera e di un set di archi). Se il
filone di appartenenza è sempre quello del post-hardcore/post-metal, c’è
da dire che le antiche scorie di caos hardcoreggiante, sopravviventi nella
sola voce “strillata” di Rossetti (quando strilla ovviamente, perché in verità
non sono poche le parti pulite), sono un lontano ricordo. Di post qua rimane
solo l’idea del crescendo melodico mutuato dal post-rock, per il resto gli
Ocean suonano a tutti gli effetti progressivi, avvicinandosi a tratti al prog
metal, portandosi ulteriormente avanti lungo quel tracciato che, originato
dai Neurosis, si era “ripulito” con gli Isis, di cui gli Ocean
sono indubbiamente discepoli.
Il
risultato? Forse un metal fighetto, con in prima fila un Rossetti
che a tratti sembra un adolescente ben dotato alle prese con la giuria di un
qualsiasi talent show; forse un metal fighetto, si diceva, ma sicuramente
un metal maturo, tagliato e confezionato talmente bene che proprio non ce la
fai a recriminargli nulla. Non gli recrimini nulla perché gli Ocean vogliono
bene a chi li ascolta. Se è vero che tutto si basa sull’idea che la musica (coerentemente
con il concept) si appesantisca mentre l’ascolto procede, c’è da dire
che gli Ocean non sono “meccanici” come i Meshuggah, che tracciano una
premessa e procedono lineari, in modo logico, fino alle estreme conseguenze, a
costo di sacrificare completamente il lato comunicativo della loro musica (cosa
che fanno sistematicamente).
Gli
Ocean, di contro, sono fin troppo indulgenti con il loro ascoltatore: tengono una
direzione precisa, concedendosi però quelle piccole incoerenze che sono
il sale dell’atto artistico che è finalizzato al benessere di chi ne fruisce. Per
intenderci, essi partono sì leggeri ed arrivano sì pesanti, ma nel bel mezzo del
tragitto fanno in modo che capiti un po’ di tutto, con parziali (ma necessari)
passi indietro. Del resto è naturale che la discesa negli abissi non sia cosa
facile per chi l’affronta e che la pressione della massa acquea tenda
continuamente a sospingere verso l’alto il corpo che ostinatamente intenda
scendere nella direzione opposta. E così il sound si appesantisce gradualmente,
ma conservando un moto oscillatorio, fatto di spinte in avanti (a tratti
divenendo quasi death metal, con tanto di blast-beat) e rispettivi rinculi
(retrocedendo persino alla ballata che rasenta i neo-melodici napoletani).
Ed è un bene, perché altrimenti l’ascolto sì che sarebbe stato pesante (in
tutti i sensi)!
Belle
melodie, continui cambi di ambientazione e profusione di tecnicismi a gogò
(in particolare sul fronte delle ritmiche e degli intrecci di chitarre), il
tutto ammaestrato con un discreta capacità di sintetizzare la soluzione giusta
e renderla nel modo più funzionale possibile, esaltandola nel giusto contesto,
con le giuste attese.
Se
poi tutto questo sia o no un solo brano, spetta alla sensibilità del
singolo a deciderlo: di sicuro gli Ocean ci vanno molto vicini…