I
MIGLIORI DIECI BRANI “LUNGHI” DEL METAL
APPENDICE II: “WHITED SEPULCHRES” (PAUL CHAIN), “MAGIC RITUAL” (ANTONIUS REX), “CAPISTRANI PUGNATOR” (THE BLACK)
Nella nostra classifica dedicata ai migliori brani lunghi
del metal i nomi italiani non sono andati per la maggiore. Gli unici
chiamati a sventolare il tricolore in mezzo a così tanti stranieri sono stati i
romani Void of Silence”, tirati dentro per via della loro magnifica “Human
Antithesis”.
Se dunque i rappresentanti del Bel Paese hanno scarseggiato
lungo i solchi della nostra trattazione, andiamo subito a rimediare con questa appendice
che dedicheremo a tre eroi di un'Italia oscura e geniale, che, ahimè, molti
non conoscono. Rendiamo oggi onore al talento di Paolo Catena, Antonio
Bartoccetti e Mario Di Donato.
Ma prima di procedere, è doveroso fare almeno un breve
accenno alla band-cult italiana per eccellenza: i Death SS.
La band capitanata da Steve Sylvester, sebbene abbia
guardato talvolta al doom, talvolta al progressive, non ha mai abusato del format
del “brano lungo”, preferendo incanalare le proprie malefiche energie
nel brano dal ritornello anthemico tipico di quel background
hard’n’heavy (e anche un po’ glam!) da cui proviene. Eppure di episodi in cui
Nostri si sono voluti avventurare lungo tracciati maggiormente articolati ve ne
sono stati e ci sembrava doveroso ricordare almeno quelli più significativi.
Nel debutto “…In Death of Steve Sylvester” spiccava
la suggestiva “The Hunged Ballad” (8:19), una visionaria ballata sullo
stile di “Killer of Giants” del grande Ozzy. La voce luciferina
di Sylvester, fra arpeggi di chitarra e tappeti di tastiere, è qui dimessa ed
allucinata, ma lo scenario verrà stravolto in un istante dall’incredibile
finale: un’inaspettata esplosione sinfonica dove tamburi battenti e
declamazioni da predicatore invasato si scontrano in uno stordente e cacofonico
baccanale da fine del mondo. Destabilizzante.
In “Black Mass” i Nostri si daranno senza riserve al
rituale satanico con la spaventevole title-track (8:22), capolavoro
esoterico della band. Qui il concetto di canzone si perde completamente per
lasciare spazio a voci deformate e a striscianti ricami rituali. Autentica suite
dell’oltretomba, essa si sviluppa in tre fasi successive: una sontuosa
introduzione gotica apre la strada ad una messa nera vera e
propria, dove un salmodiare in latino viene pungolato da gemiti femminili; la
chiusura, invece, verrà affidata all’inevitabile deflagrazione elettrica, dove
il metal torna in cattedra con minacciosi riff di chitarra e squarci di
sax delirante che ricordano non poco il finale della celeberrima “White
Hammer” dei Van der Graaf Generator. Disturbante.
Ma torniamo alla musica: in “Do What Thou Wilt”, i
Nostri si giocheranno la carta della power-ballad con “The Serpent
Rainbow” (7:43), che si pone agli antipodi del minimalismo della ballata
sopra descritta. Maestoso affresco sonoro condotto dalle sapienti mani del
nuovo ingresso Oleg Smirnoff (virtuoso delle tastiere direttamente dalla
prog-metal band Eldritch), il brano si sorregge come al solito
sull’interpretazione teatrale del folle singer, accompagnato per
l’occasione da sensuali voci femminili. Possenti orchestrazioni ed imperdibili
assolo di marca gilmouriana completano il quadro. Sublime.
Ci sentiamo infine di citare un brano appartenente alla fase
recente della vita artistica della band. Stiamo parlando della coinvolgente “Seventh
Seal” (8:11), brano di punta (l’unico davvero all’altezza della fama della
band) di quell’album un po’ scialbetto (“Seventh Seal”, appunto)
che costituì un provvisorio canto del cigno per i Death SS, prima della reunion
che sarebbe avvenuta qualche anno dopo con “Resurrection”. Aperta e
chiusa da una cornice a base di pianoforte e voce, è nella sua parte centrale
che essa sa offrire le maggiori attrattive, mutandosi di colpo in una
irresistibile cavalcata metallica animata dalla solita performance
indiavolata di Sylvester ed impreziosita dagli inserti di flauto e sax di Clive
Jones, direttamente dai leggendari Black Widow.
Come dire: l’horror metal dei Nostri calza a pennello
con brani che sappiano andare oltre il classico formato canzone, vuoi per la
necessità di ricorrere continuamente al fattore atmosfera (conferito
principalmente da massicce dosi di tastiere), vuoi per la teatralità
costantemente ricercata da un cantante carismatico ed iconoclasta quale è Steve
Sylvester, vuoi per l’elevato tasso tecnico che da sempre contraddistingue
la band nonostante i continui cambi di formazione. Peccato dunque che i Death
SS, forti delle loro capacità e della loro ampiezza di vedute, non abbiano mai
espresso la chiara volontà di tirare le cose veramente per le lunghe.
Uno che invece non ha mai temuto di tirare le cose per le
lunghe è Paul Chain, che proprio dalle fila dei Death SS proveniva.
Prima con i Violet Theater, poi con la sua carriera solista, il musicista
pesarese ha sempre scelto la forma della “sessione infinita” per
dare corpo alle propria “incontinenza artistica”. Basandosi il suo modus
operandi sull’improvvisazione, ed essendo spesso il doom e la psichedelia
i suoi veicoli di espressione privilegiati, la dimensione della lunga jam
diviene per lui un sentiero praticamente obbligato. In più c’è da dire che il
Nostro, fra tutte le sue innumerevoli qualità, non possiede certo quella della
sintesi: non solo a livello di singolo brano, ma anche a livello di intera
discografia, visto che Paul Chain non è certo tipo da “tenere nel cassetto” il
proprio materiale (avendoci così , nel corso degli anni, inondato di
numerosissime uscite).
Impossibile dunque stare ad elencare tutti i brani di estesa
durata che portano la sua firma: certi di essi sono arrivati tranquillamente
alla mezzora, basti citare, a mo’ di esempio, la sperimentale “Our Solitude
(Birth, Life, Death)”, ambient orrorifico dalla durata di 30:04; e “Tetri
Teschi in Luce Viola”, una mezzora tonda tonda di riff doomeggianti
ed acidità assortite (visioni scaturite da incubi che hanno probabilmente avuto
per oggetto sessioni di sodomia fra Tony Iommi e Frank Zappa).
Per semplificarci la vita, e senza andarci a perdere nell’infinita discografia
del chitarrista, scegliamo dunque un brano fra i più emblematici, quella “Whited
Sepulchres” che dà il titolo all’omonimo album del 1991.
L'opera si riallaccia al filone sperimentale dei lavori
di Chain e probabilmente suonerà spiazzante per chi si aspetta schietto doom,
ma non per chi conosce lo straordinario eclettismo dell'artista italiano. Negli
anni l'ex fondatore dei Death SS ha dimostrato l'intrinseca ristrettezza delle
etichette che possono essere apposte alla sua musica. E questo “White
Sepulchres” non è certo un'eccezione, bensì uno dei primi esempi di come il
Nostro dimostri di sapersi muovere attraverso i generi diversi mantenendo
intatta la sua credibilità. Un qualcosa del genere era già stato saggiato in
certi episodi contenuti nel doppio “Violet Art of Improvisation” (edito
nel 1989, ma contenente composizioni risalenti agli inizi degli ottanta). Nel
1991 Paul Chain non si era quindi evoluto, ma stava estrinsecando ulteriori
forme del suo poliedrico, anarchico, libero ed anti-compromissorio approccio
all'arte.
La mastodontica title-track (venti minuti e cinquantanove secondi!) da sola occupa tutto quello che originariamente era stato il primo
lato del vinile e si articola, in modo imprevedibile, lungo l’asse delineato
dal chitarrismo torrenziale di Paul Chain, che per l'occasione imbraccia
(con risultati esaltanti) anche il basso (disposto su linee spesso autonome rispetto alla chitarra). A completare la formazione il fido Lu
Spitfire dietro alle pelli (che più o meno si assesta sui medesimi
implacabili contro-tempi: una base dall’incedere ipnotico che favorisce il
libero dispiegarsi della chitarra di Chain) e Alexander Scardavian a
dare una mano alle sei corde “Whited Sepulchres” diviene così un viaggio allucinante
che si pone a metà strada fra la maratona hendrixiana e il “rituale spaziale” dei maestri Hawkwind
Con i canoni descrittivi di oggi potremmo parlare semplicemente di stoner-rock, ma a guardar bene qui si va oltre, decisamente oltre. L’approccio di Chain al proprio strumento, tanto per iniziare, assume contorni mistici: è come se egli suonasse in stato di trance. Di conseguenza per l’ascoltatore “Whited Sepulchres” diviene un'esperienza sconvolgente: un’esperienza che è anche un test per verificare la tenuta mentale innanzi a fiumi di wah-wah, solismi esasperanti e ricchi di tensione, estenuanti tour de force chitarristici che sanno pescare in pari modo dallo space-rock, dalla psichedelia e dal metal pesante: lezioni aggiornate dalla tracotante personalità di Chain. Un Chain che, più che in altre circostanze, dimostra di avere quattro enormi coglioni: due per le eccelse qualità tecniche, due per l’abnegazione con cui è in grado di reggere venti minuti sempre sulla cresta dell’onda. E' questo il Paul Chain che ci piace: quello estremo, assolutizzante, senza limiti.
Con i canoni descrittivi di oggi potremmo parlare semplicemente di stoner-rock, ma a guardar bene qui si va oltre, decisamente oltre. L’approccio di Chain al proprio strumento, tanto per iniziare, assume contorni mistici: è come se egli suonasse in stato di trance. Di conseguenza per l’ascoltatore “Whited Sepulchres” diviene un'esperienza sconvolgente: un’esperienza che è anche un test per verificare la tenuta mentale innanzi a fiumi di wah-wah, solismi esasperanti e ricchi di tensione, estenuanti tour de force chitarristici che sanno pescare in pari modo dallo space-rock, dalla psichedelia e dal metal pesante: lezioni aggiornate dalla tracotante personalità di Chain. Un Chain che, più che in altre circostanze, dimostra di avere quattro enormi coglioni: due per le eccelse qualità tecniche, due per l’abnegazione con cui è in grado di reggere venti minuti sempre sulla cresta dell’onda. E' questo il Paul Chain che ci piace: quello estremo, assolutizzante, senza limiti.
Il Paolone Nazionale non a caso è un personaggio di
culto apprezzato dall’intero circuito doom internazionale (basti pensare alla
collaborazione con Lee Dorrian, cantante degli inglesi Cathedral)
ed è considerato fra i padri del cosiddetto psycho-doom, deviazione del
genere in direzione psichedelica: una psichedelia che in virtù dei risvolti
esistenzialisti e spirituali, diviene esperienza mistica.
Ma se Paul Chain è sicuramente il nome più noto di questo
“versante oscuro” dell’Italia del metallo, non si può certo dire che sia stato
l’unico nei patri confini ad imbracciare una chitarra e rileggere alla propria
maniera la materia sabbathiana. Vi sono infatti almeno altri due
loschi figuri che di brani lunghi se ne intendono…