Nona puntata: Blood Axis
Death in June, Current 93, Sol Invictus:
le tre eminenze del folk apocalittico, il "triangolo"
imprescindibile per comprendere ed apprezzare il genere intero. Se invece
volessimo figurare il folk apocalittico come un "quadrilatero",
dovremmo certamente aggiungere alla terna i Fire + Ice. E se infine esso
fosse visto come un "pentagono", sarebbe doveroso includere i Blood
Axis.
Il motivo per cui ci ritroviamo a parlare ufficialmente dei
Blood Axis alla nona puntata della nostra rassegna, e non prima, è il
fatto che il progetto americano, fondato nel 1989 da Michael Moynihan
(giornalista e pubblicista, autore fra l'altro del libro sul black metal "Lords
of Chaos"), nasce come entità industriale (un industrial
oscuro ed evocativo di chiara impronta dark-ambient) e solo in seguito si
dirigerà verso sonorità folk, che è poi l'ambito che stiamo trattando. Complice anche l'assidua frequentazione del
Nostro degli ambienti del neo-folk (e non a caso nell'anno 1990 troviamo
Moynihan a fianco di Boyd Rice e Douglas Pearce nel famigerato
"Music, Martinis and Misanthropy" uscito sotto l’etichetta Boyd Rice & Friends, che già abbiamo avuto modo di trattare).
E poi, se abbiamo "dovuto aspettare" il 2010
per parlare dei Blood Axis nella nostra trattazione (rigorosamente redatta in
ordine cronologico) è perché fu in quell'anno, dopo più di venti di
esistenza, che i Nostri giungevano con "Born Again" al
traguardo del secondo full-lenght!
Non si può infatti dire che i Blood Axis siano una band
prolifica: come una mitologica bestia marina, essi sono emersi raramente dai
mari oscuri dell'Oblio, per poi ogni volta discendere lentamente negli
abissi e dimorarvi per lunghi periodi. Aspetto, questo, che ha proiettato
intorno a loro un'aura di leggenda: una leggenda
che, al di là di una manciata di tracce rilasciate in solitaria, un live,
collaborazioni e partecipazioni a compilation varie, poggia sulle forti
spalle del capolavoro "The Gospel of Inhumanity", che vide la
luce nell’oramai lontano 1995. Abbiamo deciso di lasciare fuori dalla nostra
trattazione questo album importantissimo per il panorama post-industrial
solo per motivi metodologici (non è folk!), ma due parole sul suo conto vanno
doverosamente spese.
All'epoca i Blood Axis erano un duo dove accanto al genio
visionario di Moynihan (vocalist e percussionista) troviamo il
fondamentale Robert Ferbrache (tastierista, sound-designer e
chitarrista), colui che dava corpo alle visioni del compare. Definire la musica
contenuta in questo monolite di malsane sensazioni non è semplice:
dall'invocazione sinfonica della title-track (con folle
accelerazione nel finale) alle tremende scudisciate di chitarra della
conclusiva ed epicissima "Storm of Steel", il Gospel annette
a sé in modo coerente elementi di musica classica, ambient, elettronica,
industrial, avanguardia, esoterismo, post-punk e metal
sabbathiano.
I due musicisti lavorano tramite le tecniche del
campionamento e dell'assemblaggio, edificando mostruose costruzioni sonore che
ospitano gli accostamenti più impensabili, operando principalmente nella
sfera subliminale ed agendo sull'inconscio dell'ascoltatore. In "The
Voyage (Canto I)" le malinconiche partiture di organo di una sonata di
Bach accompagnano la voce farfugliante del poeta Ezra Pound (le
registrazioni risalgono agli ultimi tempi in cui era rinchiuso e fatto
impazzire in un manicomio). È invece il profondo recitato di Moynihan a dare
corpo ad un passaggio del "Così parlò Zarathustra" di Nietzsche,
su un tappeto ambient scosso dal guaire di lupi e da impennate orchestrali di
intensità wagneriana ("Between Birds of Prey"). Dal carcere,
invece, proviene la voce metallica di Charles Manson, a cui viene cucito
intorno un crescendo di musica sacra (ancora Bach), con tanto di organo e coro
ecclesiale (é il caso di "Herr, Nun Las in Frieden"). Ma c'è
anche spazio per l'elettricità, che strabocca irruentemente in occasione dei
classici "Eternal Soul" e "Reign I Forever". Il primo è un pregevole brano post-punk che irrompe brutalmente dopo
inquietanti nenie da seduta spiritica: drum-machine, accordi acidi di
chitarra e il vocione spossato di Moynihan, con campionamenti di sospetti
discorsi in tedesco a condire la pietanza. La seconda rappresenta l'apice
emozionale dell'opera: piove a dirotto, tuona, la chitarra elettrica di
Ferbrache s'insinua subdolamente nella tempesta tessendo una lenta danza sabbathiana,
fin quando il brano esplode in tutta la sua prepotenza e forza visionaria con
il celebre tema del "Romeo e Giulietta" di Prokofiev
caricato in loop e con le declamazioni da invasato di Moynihan (che
recita versi di Henry Longfellow).
Come si sarà capito, la musica dei Blood Axis è arte della trasfigurazione,
un luogo dove sacro e profano copulano torbidamente: la celebrazione della
follia, della misantropia e della autodeterminazione che calza vesti oscure ed
apocalittiche. Di folk, però, nemmeno l'ombra…
Sarà con l'ingresso in formazione della moglie di Moynihan,
la violinista Annabel Lee, che il suono dell'Asse virerà verso
altri lidi. Già nell'ottimo live-album ufficiale "Blòt:
Sacrifice in Sweden", rilasciato nel 1998, si avranno le avvisaglie di
questi cambiamenti. La metamorfosi danza al suono fiero di "The March
of Brian Boru", rivisitazione di un tradizionale irlandese reso
magnificamente dal violino adrenalinico della Lee e dalle percussioni roboanti
di Moynihan. In questo live portentoso, fra un classico e l'altro (è in
pratica riproposta buona metà del Gospel), trovano spazio anche "Seeker" (pescata direttamente dal repertorio dei Fire + Ice
dell'amico Ian Read), una bella rielaborazione acustica della tronfia
"Lord of Ages" (classico della prima ora) ed un'ottima "The
Hangman and the Papist" (David Cousins, 1971) che sotto il
trattamento dei Blood Axis diviene una scaltra ballata in stile Nick Cave.
Giungiamo dunque al 2010, giungiamo a "Born
Again", seconda opera rilasciata dopo ben tre lustri dall'uscita
del Gospel. Nel frattempo i tre Blood Axis avevano pubblicato qualche
pezzo qua e là, collaborato con diverse formazioni neo-folk ed industrial (Fire
+ Ice, In Gowan Ring, The Lindbergh Baby, Les Joyaux de la
Princesse ecc.) e girovagato per gli Stati Uniti e per l'Europa, sostando
nel natio Colorado, in Austria e in Portogallo, dove i Nostri ebbero modo di
suonare insieme ai Sangre Cavallum, fiore all'occhiello del neo-folk
portoghese. E proprio degli influssi folcloristici dei lusitani si tingerà la
nuova opera dei Blood Axis, che nel 2010 sembrano essersi lasciati definitivamente
alle spalle i grigiori dei trascorsi industriali.
Si riparte dalle baldanzose movenze folcloristiche già
espresse da "The March of Brian Boru": il folk dei Blood Axis è
vigoroso ed orchestrato, potendo esso contare sulle capacità sopra la media di
Robert Ferbrache (chitarrista e tastierista di un certo livello, arrangiatore ed accorto produttore) e di Annabel Lee (divisa fra violino,
fisarmonica, pianoforte e canto), nonché sul carisma di Michael Moynihan,
la cui aspra voce baritonale, fra recitato ed fiere declamazioni, tingerà di
nero i dodici pezzi che vanno a comporre questo nuovo lungo viaggio targato
Blood Axis (più di un'ora è la durata del platter).
Dal passato viene ereditato il modus operandi fatto di
rivisitazioni ed audaci accostamenti: "Born Again", di fatto, si apre
con versi tratti dalla "Metamorphoses" di Ovidio ed
indaga sui temi del cambiamento e dell'essenza unica, lo spirito
immortale che sopravvive oltre i rivolgimenti superficiali dell'esistenza. Nel
dividere fra futile e fondamentale, la ricerca di Moynihan si
spinge laddove può arrivare la conoscenza umana, rispolverando persino i testi Veda,
fra i più antichi che l'umanità conosca. Enorme è stata l'opera di ricerca,
riscoperta, traduzione, adattamento ed interpretazione di testi dalle
provenienze più disparate: Moynihan, di conseguenza, canterà in latino, inglese
arcaico e moderno, tedesco e sanscrito vedico, palesando una
volontà di guardarsi sempre più indietro e dentro, in un passato remoto che
finisce per sovrapporsi agli abissi dello spirito umano.
I Blood Axis, dunque, non si propongono più come fenomeno di
avanguardia, ma semmai marciano nella direzione opposta, verso la scoperta
della Tradizione e dell'Essenziale oltre le increspature delle
contingenze.
La fisarmonica festante di "Song of the Comrade"
è chiara negli intenti che verranno portati avanti nell'opera: atmosfere
paganeggianti e le proverbiali narrazioni di Moynihan ad iniettare una vena
dark al tutto. Musicalmente siamo dalle parti di Sol Invictus e Fire + Ice,
sebbene il marchio di fabbrica impresso dalle tre personalità (fortissime ed
oramai unite in una entità dissolubile dopo tanti anni di sodalizio artistico)
renda il tutto inevitabilmente ed irrimediabilmente Blood Axis.
Un folk tosto e ben arrangiato, dai forti spunti personali,
quello che ritroviamo in ballate come "Wulf and Eadwcer",
"Churging and Churging" e "Erwachen in der Nacht",
evocanti un passato ancestrale in cui vanno rinvenute le verità ignorate dal
caotico mondo odierno. La Lee sale in cattedra con il suo sublime
volino, mentre la robusta chitarra acustica di Ferbrache le dà manforte con
epici e solenni accordi che in certi passaggi non disdegnano l'antico brivido
elettrico. Vero è che l'Asse oggi sciocca di meno, calzando delle vesti
più mature ma anche più pacate. Solo le tre parti di "Madhu"
echeggiano l'imprevedibilità di un tempo, evolvendosi il brano in modo sinuoso,
cambiando passo più volte e rievocando a più riprese lo spettro esoterico.
Discorso a parte andrebbe fatto per la splendida "The
Vortex" che rispolvera l'approccio ambient: per l'occasione la Lee
siede dietro al pianoforte ed elargisce un mostruoso giro di note, ipnotico,
imponente, sopra il quale il marito sciorina con voce ferma ed apocalittica
quesiti insolubili dell'esistenza (il testo è tratto da "The Story of
the Heart" di Richard Jefferies). Altri brani degni di menzione
sono la title-track (una vitaminica cavalcata strumentale che
tradisce i trascorsi alt-country di Ferbrache nei 16 Horsepower) e
"The Path" (dall'andamento ritmato e dark-wave, con la Lee dietro
al microfono ed un bel ritornello a doppia voce che ricorda ancora una volta le
murder ballad di Nick Cave). Ma al di là del valore dei singoli episodi,
è nel complesso che l'inatteso ritorno dei Blood Axis convince: un lavoro di
sostanza che riluce di una ispirazione sviluppatasi in così tanti anni. Un
compendio, più che un album, di quanto di buono sia stato concepito e
realizzato in quindici anni, senza pressioni, senza fretta, senza costrizioni,
raccogliendo con il misurino il frutto parco delle migliori energie creative. L'ennesimo prova convincente da parte di una formazione che non ha mai fallito
un colpo.
Lo dimostra la raccolta "Ultimacy MCMXCI - MMXI",
uscita l'anno successivo, che nei suoi quasi ottanta minuti raccoglie tutto il
materiale rilasciato a pezzi e bocconi nel corso di una più che ventennale
carriera: materiale di primaria qualità che può stare tranquillamente a fianco,
senza sfigurare, a quanto proposto nei due capolavori in formato LP. Il fan
dei Blood Axis potrà finalmente gustare classici che hanno il sapore di
leggenda come "Electricity" (martial-industrial al top
delle sue possibilità), "The Storm Before the Calm"
(desolante perlustrazione ambientale dal fascino perverso) e l'irresistibile
cavalcata post-punk "Walked in Line" (brano dei Joy
Division con testo ed umori provvidenzialmente cambiati). Chapeau.
Discografia essenziale:
"The Gospel of Inhumanity" (1995)
"Blòt: Sacrifice in Sweden" (1998)
"Born Again" (2010)
"Ultimacy MCMXCI - MMXI" (2011)