Si è
conclusa la nostra rassegna dedicata alle band di culto degli anni novanta.
Essa è stata la fisiologica risposta alla tempesta di clic che ha
investito la speculare classifica dedicata agli anni ottanta: un
successo clamoroso.
Nel
trattare la decade novantiana, tuttavia, sono emerse delle difficoltà
impreviste: non è stato infatti facile selezionare solo dieci band che
rappresentassero il tema (ed infatti alla fine abbiamo optato per raggiungerne
ulteriori dieci) e l'impressione, condivisa in redazione, è stata che molte
altre band potevano essere citate. Come giustamente ammesso dal collega
Morningrise in sede di conclusioni, è successo qualcosa a cavallo fra anni
ottanta e novanta che ha cambiato l'approccio alla musica metal, sia da un
punto di vista "artistico" (dei contenuti della produzione
discografica) che "socio-psicologico” (le dinamiche del mercato
discografico, i rivolgimenti culturali del popolo metallico, la percezione del
singolo ascoltatore). Da qui l'idea di approfondire ulteriormente il tema ed
effettuare una riflessione di respiro più ampio su cosa significhi essere
artisti di culto nel metal.
Cosa
vuol dire essere artisti di culto? La spiegazione, che non è univoca,
poggia secondo me su due aspetti principali. Da un lato ci sono le caratteristiche
intrinseche dell'artista, il quale in qualche maniera riesce a rapire il
cuore di una piccola ma fedele fetta di pubblico, senza però raggiungere i
gusti delle "grandi masse". Dall'altro, appunto, ci deve essere uno zoccolo
di fan che difende a spada tratta la fede in quell'artista contro
ogni tipo di ostacolo (i classici inconvenienti che incontra chi segue realtà underground:
difficoltà nel reperire gli album, inseguire la band nel club più
piccolo e sperduto del territorio nazionale e non ecc.). Di tutti questi
sacrifici il fan sarà ricompensato con un rapporto più intimo con il
proprio idolo, che non dovrà essere condiviso con il gran numero di altri fan
(fra cui anche quelli "qualunquisti") che seguono l'artista più noto.
Ed ovviamente riceverà come premio la purezza dell'atto creativo
dell'artista in questione, che non si piegherà sotto le logiche commerciali.
C'è
poi un ultimo ingrediente che rende al 1000% di culto l'artista di turno: la longevità.
Bisogna infatti che l'artista nel tempo confermi le sue qualità, in molte prove
successive, come se egli imperterrito percorresse con fatica, determinazione e
grande integrità un binario tutto suo, parallelo alla musica che vende
(dinamica che va a sottolineare quel senso di ingiustizia che pervade il suo
mancato riconoscimento da parte del grande pubblico). Questa longevità può
essere solo rimpiazzata dall'opera strabiliante e seminale che
nessuno si è filato al momento della sua uscita, ma che a posteriori si è
rivelata fondamentale per gli sviluppi di un genere o di un filone. In entrambi
i casi (che si tratti di una conferma continua data dalla pubblicazione di
album sistematicamente validi, o dell'alone di leggenda che l'artista si porta
dietro grazie ad un'unica opera) il culto deve permanere, sopravvivere,
trionfare contro il tempo.
Fatte
queste premesse, se dovessi pensare ad artisti di culto nel metal, fra i tanti, me ne verrebbero in mente subito
due: Paul Chain e i Coroner.
Quanto
al mitico Catena, molte sono le sue caratteristiche che me lo fanno includere
nella categoria di coloro che acquisiscono persino un'aura magica: lo status di
fondatore di una band a sua volta di culto (i Death SS), l'originalità,
la creatività debordante, la purezza nell'atto artistico e l'assoluta repulsione
per il compromesso, una carriera solista sfavillante apprezzata all'estero e
persino da rinomati artisti di fama internazionale (Lee Dorrian dei Cathedral
è uno di essi), una serie di album seminali lasciati ai posteri (almeno
"In the Darkness " e "Alkahest"), un sotto-genere
inventato di sana pianta (lo psycho-doom), un tot di leggende sul suo
conto, una vita ritirata, lontana dai riflettori e consacrata all'arte, e
persino il phisique du role (aspetto da santone con tanto di occhio
guercio): gli elementi ci sono davvero tutti per definire Paul Chain un artista
di culto.
Non
c'è tuttavia bisogno di sconfinare nella magia, nera, bianca o viola che
sia. Ci sono infatti esempi come quello dei Coroner (che, dopo cinque lavori
superlativi, diversi fra loro ed uno più bello dell'altro, si sciolsero per
l'impossibilità di andare avanti a certe condizioni), il cui carattere di culto
poggia esclusivamente sulla musica: una musica che poteva rivaleggiare
tranquillamente con i più blasonati Metallica (non è una esagerazione
definire Tom Vetterli uno dei più grandi chitarristi metal che abbia mai messo
piede su questo pianeta). Ma come è noto, il conto in banca di Hetfield e
soci segna ben altre cifre rispetto a quello dei poveri svizzeri, che per
sbarcare il lunario eran costretti a scaricare ceste al mercato.
In
tutti e due i casi si parla di grandi artisti, ma il loro essere di culto è
stato possibile perché essi si sono potuti inserire in un sistema più ampio che
ha potuto conferire loro un significato, seppur da "reietti". Per
Chain ci sono stati i Black Sabbath e l'universo doom
post-sabbathiano a fare da sfondo; per i Coroner il ruggente movimento thrash
degli anni ottanta, nel quale si sono mossi nei torbidi bassifondi. Dunque un
sistema stilistico e valoriale di riferimento rispetto al quale potersi muovere
e segnare la distanza fatta di proprie peculiarità.
Con
l'inizio degli anni novanta, con il ciclone grunge che spazzò via tutto, con la
morte dei generi classici, con la deformazione delle gerarchie e delle
categorie con cui si era soliti leggere il mondo metal, con la contaminazione
(tema non a caso su cui abbiamo impostato il nostro cammino fra le cult band)
e la nascita di generi nuovi (per lo più di natura estrema, relegando i
nuovi leader di movimento in un contesto forzosamente di nicchia), quel
solido schema in cui il metal era inserito, e che lo rendeva intellegibile,
venne meno.
Gerarchie,
categorie: gli anni ottanta non erano così lontani e così per un po' si
continuò a ragionare allo stesso modo, ereditando le vecchie categorie di
pensiero. Con gli occhi di oggi, tuttavia, la differenza fra i due decenni è
lampante, tanto che potremmo parlare di due differenti ere. O almeno di un'era
con una chiara e forte identità (gli anni ottanta) seguita da un confuso
periodo di transizione (gli anni novanta) verso un'altra era (quegli anni zero
che abbiamo provato a spiegare con la rassegna sul "Nuovo Metal").
Nuovi generi nascevano e nuovi focolai di creatività si moltiplicavano a
macchia di leopardo, rendendo il metal non più un quartiere ordinato fatto di
grandi palazzi e piccole case, ma una vasta radura con dei casolari sparsi un
po' a caso.
Certo,
nascevano il gothic metal, il black metal, il prog metal,
il groove e il nu metal, tutti ambiti che hanno dato frutti
gustosissimi, ma il primo deprimeva, il secondo era troppo estremo e
nichilista, il terzo impegnava troppo il cervello e non pompava abbastanza, il
quarto e il quinto pompavano ma presentavano elementi di eresia, tanto da
attirare l'ira dei più e divenire in un lampo avversari dello stesso metal
(altro che nuovi agenti di aggregazione...).
Non
c'era più l'unità di un tempo e seguire i gruppi più importanti di quella nuova
ondata, salvo qualche eccezione (Pantera, Dream Theater, Korn
ecc.), significava coltivare una passione simile a quella che una volta era
riservata agli artisti di culto (in pochi stronzi, il martedì sera, in club
di modeste dimensioni a vedere Tiamat o The Gathering, Immortal
o Cradle of Filth, Fates Warning o Shadow Gallery ecc.),
mentre nei grandi festival si continuava a celebrare la tronfia
immortalità di alfieri per tutti i palati come Iron Maiden, Manowar,
Metallica, nonostante la produzione artistica di costoro in quegli anni
lasciasse alquanto a desiderare.
Tolti
dunque i mostri sacri dell'epoca passata, il resto della "milizia del
metal" divenne una compagine un po' disordinata dove non vi era più
una netta differenza fra "capi branco" e "bestie
solitarie". Con la caduta dei principali punti di riferimenti il
metallaro ha dovuto così rinunciare all'onniscienza (che una volta era
praticabile) per dedicarsi alla specializzazione, alla coltivazione di
un qualche ambito in particolare. E questo accadeva in un mondo che
paradossalmente, proprio perché popolato solo da artisti di culto, si
ritrovava di fatto senza artisti di culto, venendo meno la concezione
stessa di artista di culto.
Iniziarono
a scarseggiare le band capaci da sole di riempire gli stadi, di accomunare ed
affratellare i metallari di ogni età e longitudine. Divennero, in un certo
senso, tutti un po' "sfigati", complice la crisi del disco e
del negozio che vende quel disco. Il metal, nonostante tutto, si mostrava
sempre un genere creativo e dalle vaste potenzialità, ma le realtà più illustri
ed artisticamente rilevanti non riuscivano ad evadere da uno status beffardo
che sulla carta era una certificazione di importanza degna dei numero uno,
ma che nei fatti presentava condizioni esistenziali ed economiche quasi da
artista di culto.
Gli inossidabili,
immortali ed eterni anni ottanta, dunque, contro i melliflui e vaghi
anni novanta: ciò che era stato scolpito nella pietra durante gli ottanta,
nella decade successiva si plasmava nel fango; nel terzo millennio lo scalpello
avrebbe turbinato negli abissi di un fiume in corsa. È come se all'inizio dei
novanta fosse esploso qualcosa e il pianeta metal (ma in realtà
il Pianeta Terra in generale) fosse stato lanciato alla velocità della luce
verso galassie lontane ed inintelligibili. Ciò che era una volta Leggenda,
sarebbe poi degradato a brezza di mare: un venticello che si limita ad accarezzare
i capelli per un solo attimo. Il mercato della musica sarebbe divenuto, a tutti
i livelli (pop, rock, metal ecc.), un contesto volatile, evanescente, dove
persino per una grande band diveniva difficile mantenere l'attenzione su di sé
per più di due/tre album di fila. Le band di oggi sudano le classiche sette
camicie per galleggiare nel mare tempestoso di generi, sotto-generi, competitor
che spuntano fuori come i funghi con trovate sempre più sbalorditive.
E
l'ascoltatore non se la passa meglio: in questo labirinto di pubblicazioni egli
si orienta a fatica, aiutato (ma in realtà subdolamente ostacolato) dalla
tecnologia. Poter scaricare o visionare gratuitamente un qualsiasi album, poter
assistere ad un concerto sdraiati sul divano di casa, è certamente più comodo,
ma a queste condizioni, senza sacrifici, penitenze, sofferenza o seccature, non
ci si forgia in una dimensione favorevole allo sviluppo di un autentico culto.
Senza
quella condivisione che veniva favorita dal negozio di dischi (un vero tempio),
senza le "rivelazioni" pazientemente attese in edicola con le
vecchie riviste in cui non scriveva chiunque (come oggi capita nelle webzine
e nei blog), senza il "mistero" creato dai sussurri,
dal passaparola, dal disco ascoltato mezza volta dall'amico più grande, dal
puzzo del vecchio vinile (alla stregua dell'incenso), il mondo per il
metallaro è divenuto meno magico, meno romantico: un mondo in cui costui è
costretto a consumar velocemente il suo "piccolo culto" per una band
che magari vive un istante di gloria e già domani potrebbe essere dimenticata.
Cosicché
diviene uno spreco di tempo concentrarsi su un artista per tutto il suo ciclo
di vita ed al tempo stesso una reale necessità, in generale, cercare di carpire
il meglio di un artista e passare subito ad un altro. In questo frenetico
rimpallo, la fruizione della musica metal si appiattisce nella direzione di un
ascolto superficiale e distratto che si ferma agli aspetti più eclatanti
(quelli che si possono cogliere ad un primo impatto: vedi il groove,
vedi la pagliacciata teatrale, vedi il virtuosismo ostentato), ma che non può
portare ad una vera affezione, perché ci vuole tempo per appassionarsi e voler
bene ad uomini, animali, cose.
Il
tempo diviene un istante in cui bisogna scegliere, apprezzare, celebrare
e dimenticare per lasciare spazio ad altro. Con quali presupposti si può
parlare di culto nel senso più profondo del termine?