Questa personale short story è
ambientata nell’inverno del 1993. Frequentavo la terza liceo. Quell’anno il programma
di Storia dell’Arte prevedeva lo studio delle opere di Michelangelo. Sono
sempre stato una capra totale in questa materia, non l’ho mai studiata come si
deve (salvo poi pentirmene negli anni successivi), ma in quell'occasione la mia attenzione
alle lezioni fu massima. La professoressa spiegava “I prigioni” del sommo Buonarroti.
A cura di Morningrise
“I prigioni”, serie di statue che
avrebbero dovuto far parte della tomba di Giulio II, furono commissionate dallo
stesso Papa, mentre era ancora in vita, all’artista toscano agli inizi del XVI
secolo.
Il paradosso fu che, delle sei
statue realizzate, solo due furono completate (attualmente conservate al Louvre).
Ma il fascino maggiore su di me lo ebbero le altre quattro, quelle non
concluse. In particolare quella del c.d. “Atlante”, un’opera mastodontica, alta
quasi tre metri, raffigurante appunto il “prigioniero”, con le gambe divaricate e la schiena curva, nell’atto di tentare di
togliersi con le mani dalla testa il blocco di marmo che ancora lo avvolge.
La
tensione, l’energia, la drammaticità di questa scultura è qualcosa di
indicibile, di soverchiante. Di massimamente epico. Il prigione sembra da un
lato cercare con tutte le sue forze di liberarsi dalla roccia che lo avvolge,
ma anche, simbolicamente, esprimere dolorosamente i suoi tormenti interiori (e,
ovviamente, i tormenti, religiosi e filosofici, dello stesso Michelangelo).
Caso volle che proprio in
quell’inverno del ‘93 mi cimentassi con uno dei miei primi album doom metal, lo
splendido “The Ethereal Mirror”, dei Cathedral. L’album lo conoscete tutti, ed
è di una qualità straordinaria, contenendo alcuni dei brani meglio riusciti del
combo inglese (da “Ride” a “Midnight mountain”; da “Phantasmagoria” al
capolavoro “Fountain of Innocence”).
Ma alle mie giovani orecchie non
del tutto ancora avvezze a certe sonorità così pesantemente lisergiche, fu
l’ultima, brevissima canzone a farmi innamorare di Dorrian&co.: la sensazionale “Imprisoned in flesh”. La ascoltavo a ciclo continuo, commosso,
soverchiato dall’emozionalità di quei 106 secondi. Il pezzo terminava e io lo
riportavo al principio per riascoltarlo, pure alquanto incazzato per il fatto che durasse così
poco.
Il “one-two-three…four!” iniziale
che esce dalle corde vocali di Lee lasciano spazio al melodico arpeggio della
chitarra di Jennings. Poche note, ma così efficaci, così espressive, così struggenti. Insomma,
ancora adesso, a 23 anni di distanza, è uno degli arpeggi più belli che abbia
mai ascoltato in ambito metal.
E poi il testo:
Whishing that the sun would shine / flesh
wasting dreams inside / in this prison burning light / which fades on the
outside / I only want to believe / that there’s a place better for me…
Facile e quasi immediato associare
questa canzone, non solo per il titolo, all’Atlante di Michelangelo,
imprigionato non nella carne ma, ancor più potentemente, nella roccia. Come quel
Prigione Dorrian sembra chiedersi il perché la sua anima, che aspirerebbe a un
posto migliore, debba essere racchiusa in un involucro così limitante: la carne
che consuma, che sciupa, che spreca i nostri sogni…
Nonostante il contrasto (o forse
proprio per questo) tra la leggerezza strumentale del brano (vibrante però di
una carica emotiva “pesantissima”), e il dolore/tormento che trasuda da ogni
singola venatura del marmo che incastona il personaggio michelangiolesco, “vedo”
in comune alle due opere la capacità di condensare la sofferenza del vivere, lo
struggimento della ricerca, la tensione a superare i limiti umani per
raggiungere qualcosa di “altro”. Per i Cathedral questo “altro” (il “senso”
della Vita?) è un luogo di condivisione in cui anime perse si possono
incontrare (Where I can share this flame with thee… / burn with me).
Una tensione, un desiderio che però è fallimentare; un anelito destinato a naufragare.
Proprio come il tentativo dell'Atlante di liberarsi dal blocco di pietra che lo imprigiona.