Chiudetevi in casa ed accostate le persiane, stanotte si parla di depressive black metal. Lo facciamo con uno dei massimi esponenti del genere: Niklas “Kvarforth” Olsson, leader degli Shining.
Per suonare black metal
bisogna essere un po’ svitati, perché come genere, per quanto istintivo,
ha un modo di esprimersi artefatto. E a tal fine, c’è bisogno o di
trasfigurare/estremizzare le proprie sembianze, oppure di indossare una
maschera. Un po’ svitati, ho detto, non che bisogna necessariamente ammazzare
qualcuno, o ammazzarsi, né profanare luoghi di culto e bruciare chiese, anche
se in molti l’hanno fatto...
Per suonare depressive
black metal, o addirittura suicidal depressive black metal (la sua
variante incentrata sul tema del suicidio, come suggerito dalla dicitura) c’è da
essere ancora più svitati. Non perché crediamo a tutte le fandonie che
questi presunti aspiranti suicidi cantano, ma perché deve essere presente una
certa dose di morbosità nella persona a voler sondare, anche solo tramite
musica, i recessi più oscuri della natura umana. Nichilismo, misantropia,
abisso depressivo ed auto-distruzione: questi i temi principe del
depressive, il quale è un non-genere perché non inventa nulla, ma
adotta gli stilemi preesistenti del black metal. Al di là dell’inasprimento di
suoni ed attitudine (ancora più negativa, se possibile), la differenza sta
tutta nel messaggio: basta dunque con Satana (che non fa più notizia), con
il Grande Nord e con i vichinghi (che effettivamente hanno
un po’ rotto il cazzo) e via libera a manie depressive e pulsioni
autolesioniste.
Proprio perché non c’è un
netto confine fra black e depressive, non è ancora chiaro chi l’abbia
inventato, anche se voci accreditate indicano Forgotten Woods (black
metal tutto sommato canonico, ma intristito assai) e soprattutto Burzum,
sebbene Vikernes abbia sempre assunto un atteggiamento fiero e
baldanzoso, lungi dai piagnistei di coloro che ne riprenderanno le lezioni. Gli
elementi stilistici li aveva comunque introdotti lui: l’ossessività dei riff
(sempre gli stessi, ripetuti in modo circolare per parecchie volte),
l’approccio ambient (introdotto non solo con l’ovvio utilizzo di tastiere, ma
anche lasciando “friggere” le chitarre senza la batteria), vocalità sofferenti
oltre ogni misura, mentre una registrazione volutamente sporca e confusa era
già prerogativa del black metal in generale. Queste sono dunque le linee guida,
un discorso che poi è stato sviluppato nel corso degli anni zero in determinate
aree geografiche come la vicina Svezia (Shining, Silencer, Hypothermia
ecc.), la Francia (la cosiddetta Legion Noire, che annovera al suo
interno i vari Celestia, Mortifera, Nocturnal Depression
ecc.) e sorprendentemente gli Stati Uniti (focolaio di band che hanno fatto la
storia del sottogenere come Judas Iscariot, Xasthur, Leviathan
ecc.), con piacevoli sorprese disseminate “altrove” come gli australiani Abyssic
Hate, gli italiani Forgotten Tomb, i danesi Nortt, che
possono anche essere definiti funeral doom.
Depressive black metal, funeral doom: definizioni
che mi hanno sempre fatto sorridere, come se esistesse un happy black o
un party doom da cui prendere le distanze. Pagliacciate a parte, per
fare questa musica un po’ svitati bisogna essere. Per fondare un gruppo
depressive black metal lo si è ancora di più, se poi lo si fonda a dodici anni
(l’età che aveva Kvarforth quando ha avviato l’esperienza Shining)
in effetti proprio normali non si è.
Niklas Olsson, detto Kvarforth, è
indubbiamente uno dei padri del (sotto) genere e grazie alla sua opera il filone
ha acquisito una sua identità distinta. Basti solo il fatto che il progetto
nasce per istigare la gente al suicidio (per inciso: gli Shining niente
c’azzeccano con il romanzo di Stephen King, in quanto il monicker sta
per “cammino verso l’Illuminazione”, che, a questo punto, non penso vi sia
bisogno di ulteriori chiarimenti). Ma al di là di questa edificante
“piattaforma ideologica” (il cui spirito è racchiuso benissimo nella copertina
di “V – Halmstad” che abbiamo voluto riproporre in capo al nostro articolo),
gli elementi sopra descritti vengono da lui sistematizzati in quello che a mio
parere può essere definito il manifesto del depressive black metal, almeno
nella sua variante suicidal, ossia l’eccellente “II – Livets Andhallplats”.
A noi interessa la musica, per
questo, se Niklas “Kvarforth” Olsson ci è o ci fa non è questione che ci
toglie il sonno. Certo però che il Nostro lo status della macchietta l’ha
sfiorato, fingendo quella volta di essersi ammazzato e dunque sparendo per un
periodo, dopo aver sparso la voce della sua morte e facendo sapere che nella
band sarebbe stato sostituito, per suo volere, dallo sconosciuto cantante Ghoul.
C’è anche da dire, però, che la scena che si palesò ai presenti all’orami leggendario
concerto ad Halmstad (Svezia) la notte del 3 febbraio 2007 dev’essere
stata formidabile. Sul palco il microfono se lo passavano gente come Attila
Csihar, Maniac e Nattefrost, in attesa che facesse il suo
ingresso il misterioso Ghoul, che si presentò fasciato come una mummia. La scena
formidabile fu quella in cui Ghoul si toglie le bende e si svela per chi è veramente:
non altro che Kvarforth! Con tanto di rissa con gli spettatori in prima linea.
A dimostrazione che, passi l’istigazione al suicidio, passi la volontà di
autodistruggersi (alcool, droghe, autolesionismo) e di distruggere (con
orgoglio egli dichiarerà che diverse persone si sono tolte la vita grazie alla
musica degli Shining), passi l’aver “rubato” i soldi a chi gli aveva ordinato
per corrispondenza i dischi (mai consegnati) per pagarsi gli psicofarmaci, passi
il finto suicidio e la probabilmente finta reclusione in manicomio, c’è da dire
che il Nostro se ne intende di marketing (mica come il Conte che per
farsi pubblicità s’è beccato quasi vent’anni di carcere…).
Che poi, chi l’ha visto dal
vivo, tutta sta voglia di autodistruzione e distruzione di Kwarforth si traduce
nell’abboccare un po’ di whisky (per poi regolarmente non berlo, ma sputarlo in
faccia al pubblico), qualche colpo di lametta o sigarette spente nei soliti
punti callosi del braccio, dove fa meno male. E solito fare provocatorio,
solite offese agli astanti (ma perché non vi ammazzate??), il tutto
condito da una bella bandana che toglie credibilità ad un marcantonio di quasi
due metri che, al di là dei proclami, sembra scoppiare di salute.
Meno male che Kvarforth è un
artista, sennò era davvero da mani nei capelli (anzi, nella bandana!). Per
inquadrarlo artisticamente bisogna però fare un distinguo, perché esistono
almeno due tipologie di Shining. La discografia degli svedesi si divide infatti
in due fasi distinte: i primi due album e poi tutti gli altri.
I primi due album, “I –
Within Deep Dark Chambers” (2000) e il già citato “II – Livets
Andhallplats” (2001) rappresentano il periodo più autenticamente depressive,
dove la band delimitava il campo d’azione e si proponeva come capofila
dell’intero movimento. Le due opere presentano suoni sporchi e brani suonati
con approssimazione; la loro forza sta in un’ispirazione che rende
indubbiamente accattivante quest’insieme di cose. Il primo dei due è ancora
riconducibile ad una accezione abbastanza classica di black metal, ponendosi
come un alacre laboratorio in cui i musicisti buttano in modo spontaneo tutto
quel materiale che era stato concepito nei quattro anni di gavetta: un
bell’insieme di idee e passaggi riusciti, laddove le ingenuità e le sbavature
vanno ad aumentare il fascino del prodotto, animato da una spontaneità che non
ritroveremo nei lavori successivi, progressivamente governati dalla ragione.
Per questo motivo “I – Within Deep Dark Chambers” è il miglior album degli
Shining, a parere di chi scrive, ma anche di chi l’ha scritto, stando alle
dichiarazioni di Kvarforth.
Il secondo, come si diceva,
riesce invece a ordinare le energie primitive dischiuse nell’esordio, definendo
quelli che saranno gli standard del genere: composizioni mediamente
lunghe, riff lenti ed ossessivi, continuo impiego di chitarre acustiche,
un utilizzo della voce parossistico e votato all’espressione di sentimenti di
segno negativo (è a partire da questo secondo capitolo discografico che Kvarforth,
oltre la chitarra, impugnerà anche il microfono). Peccato solo per quegli
episodi un po’ fini a se stessi, forzati, intermezzi ambientali in cui si grida
ai quattro venti una serie sconcertante di banalità. Se del resto Vikernes, con
i suoi difetti, aveva il pregio di essere una persona seria, nonché un poeta, il
“piccolo” Kvarforth ha sempre peccato di pacchianeria e mancanza di senso
della misura.
Se egli avesse proseguito su
questa falsariga, gli Shining sarebbero oggi una band di culto appannaggio di
pochi fan in cerca di sensazioni forti. Kvarforth, invece, con grande coerenza decise
di cambiare rotta, abbandonando la via dell’estremo per imboccare quella di un
approccio più ricercato e professionale, volto ad espandere il suo suono verso
composizioni più articolate e soprattutto meglio suonate e registrate. Con
coerenza, perché in effetti invertire il senso di marcia, così rinnegando i
presupposti con cui era stato avviato il progetto, è indubbiamente un atto autodistruttivo.
Del resto Kvarforth sosterrà indignato che il depressive è stato totalmente
sputtanato da una serie di banducole senza palle che hanno annacquato il
movimento con attitudini fasulle: per questo, toccato il “fondo” con le due
seminali opere prime, si decise a cambiare e a darsi ad un altro tipo di
musica.
A partire dal terzo album, “III
– Angst Sjalvdestruktivitetens Emissarie” (2002), qualcosa dunque cambiò:
gli umori, l’apparato concettuale sono i medesimi, ma il sound, sempre
annoverabile fra i ranghi del black metal, si sposta verso una complessità maggiore,
aspetto che si rispecchia nelle vocalità teatrali che da quel momento in poi Kvarforth (sempre più
vicino allo stile moribondo di Attila Csihar) adotterà. Ma soprattutto è
l’approccio agli strumenti ed alla produzione a cambiare. Per quanto riguarda
il primo aspetto, basti dire che alla batteria siede un certo signore di nome Hellhammer,
il cui drumming preciso e potente cambia totalmente il volto degli
Shining. Per quanto riguarda il secondo aspetto, invece, i suoni si fanno più
nitidi e capaci di valorizzare il contributo di ogni singolo strumento, spesso
maneggiato con perizia.
Questo terzo capitolo, pur
distaccandosi nettamente dal passato, rappresenta ancora una fase di
transizione. Sarà dal quarto in poi che la metamorfosi giungerà al suo
compimento, avvicinando la band ad act come Katatonia ed Opeth:
la realizzazione di brani dinamici e ricchi di cambi di tempo, l’impiego di
voci pulite, di melodie sempre più elaborate, di parti acustiche sempre più
cristalline e meglio intrecciate al corpus elettrico, il continuo saltare dal
death metal tecnico, al gothic, al metal classico, con picchi di sculettante
black’n’roll, renderà la musica degli Shining fruibile anche a coloro che non
si possono definire dei veri cultori del metallo nero. La maturazione è
indubbiamente prodigiosa, anche se rimangono cozzanti questi due mondi: da un
lato un apparato concettuale estremo che rimane ancorato agli intenti degli
esordi, dall’altro una proposta sofisticata, commerciale a tratti, con virate rock-oriented
che intammarriscono non poco il tutto. Come dire: Kwarforth cresce musicalmente,
ma non come cantautore. Per le menti più analitiche, questa è l’unica ragione
per cui il prodotto non può soddisfare fino in fondo.
Di questa fase, i lavori più
validi sono “IV – The Eerie Cold” (2005), “V – Halmstad” (2007) e
“VI – Klagopsalmer” (2009). E’ indubbio che la band sia stata in grado
di trovare un suo “post”, una sua via evolutiva che l’ha resa artefice di un sound
personale e capace di inglobare praticamente ogni cosa: metal estremo, melodie,
dialoghi, post rock e persino arie classiche (si pensi alla rivisitazione, in
“V – Halmstad”, della sonata “Al Chiaro di Luna” di Beethoven
buttata senza ritegno in mezzo a questo scempio). Dal settimo capitolo “VII
– Fodd Forlorare” (2011) in poi, però, la produzione artistica del Nostro
si farà sempre più prevedibile, assestandosi più o meno sulle stesse soluzioni
sperimentate nei tre lavori precedenti.
Che dire dei “nuovi” Shining,
professionalmente inappuntabili e coraggiosi nella loro ricerca: solo per
queste ragioni meriterebbero rispetto, sebbene il personaggio Kvarforth
continui a non stare simpatico. Si diceva che non vi è stata una maturazione
come autore, come visione del mondo, ma è anche vero che forse questo modus
operandi è un altro modo che gli Shining hanno per farsi del male da soli: un
autolesionismo artistico che porta la band a riproporre i soliti piagnistei, i
soliti colpi di tosse, i soliti conati di vomito, le solite urla enfatizzate ad
arte, magari su arpeggi primaverili con tanto di uccellini in sottofondo. Con
esiti a volte comici, a volte invece così unici ed azzardati da suscitare
almeno una risata di benevolenza…
Sono gli Shining dello svitato
Niklas “Kvarforth” Olsson: prendere o lasciare…