Fatte
le dovute premesse, passiamo dunque in rassegna i dieci titoli che abbiamo
selezionato per affrontare il tema dell'album-doppio nel metal.
(Fuori
concorso) “Use your Illusion” I & II (Guns N’ Roses) e “Load”/“Reload”
(Metallica)
Partiamo
proprio dall’Inferno per riemergere e poi procedere serenamente verso le stelle. Anno 1991: "Use your Illusion" parte prima e seconda. Non neghiamo,
ma anzi andiamo a confermare, i pensieri già condivisi con il Dottore: in questa
doppia uscita c’è ben poco di inestimabile valore e
l’idea che si siano tirate le cose per le lunghe per massimizzare il profitto
si palesa spesso nel corso di queste due ore e mezza di sproloquio guns’n’rosiano.
Doppio disco, doppio guadagno e in più la mossa di salvare il salvabile di una
band che fra conflitti interni ed eccessi di ogni tipo era ad un passo dal
collasso. L’operazione, pompata alla grande per mezzo di sontuose azioni di
marketing, sarà un successo commerciale, sospinto da due o tre tormentoni
correlati da videoclip entrati di diritto nell’immaginario collettivo e corroborato
dalla fama che Axl e soci si erano guadagnati grazie al capolavoro “Appetite for
Destruction” (il quale paradossalmente, pur durando meno della metà, conteneva
un maggior numero di classici!). Eppure “Use
your Illusion” I & II porta con sé un fascino perverso e può costituire un
buon ascolto, a prezzo che questo ascolto venga fatto con superficialità. Da
lontano è tutto più digeribile, grazie al carisma sgraziato di Rose,
qualche assolo con i controfiocchi di Slash, la ballatona strappalacrime
piazzata ad arte, due cover riuscite, un po’ di blues da quattro soldi e
tanto rock anthemico da cantare a squarciagola. Il tutto
infiocchettato da una produzione a tratti magniloquente, con tanto di suite
infinite, crescendo orchestrali e qualche ospite di lusso a dar lustro (l’irrilevante
comparsata di Alice Cooper). Con le dovute proporzioni, i Guns
confezionano il loro White Album (che pur esso non era tutto
oro), elargendo, sprecando, puntando sulla ridondanza e sulla varietà, traendo
forza proprio dal dettame “nel più ci sta il meno” e da una verve che
stava dando gli ultimi segnali di vita, prima si spegnersi definitivamente.
A
margine della nostra trattazione citiamo (ma solo perché ci piace offendere i Metallica)
la nefasta accoppiata “Load”/”Reload”, brutto tiro che ad oggi non
riusciamo ancora a digerire. Al di là della delusione del momento, nemmeno successivamente
questi due lunghi stronzi cagati in stretta successione fra il 1997
e il 1998 saranno oggetto di rivalutazione (se acquisteranno qualche punticino
è perché in seguito i Four Horsemen riusciranno a far di peggio!). L’impressione
è che i Nostri, svogliati e foraggiati dalla casa discografica, abbiano
lasciato il mixer acceso durante un’improvvisazione-alla-cazzo di
circa tre ore. Materiale che verrà poi smontato e rimontato in queste due
raccolte che sembrano essere state fatte appositamente per far incazzare il fan
della prima ora. “Load” e il suo triste successore non sono dunque altro che due ore e mezza sconclusionate di pseudo-rock tamarreggiante che non solo
rinnega ferocemente quanto di buono i Nostri hanno combinato in passato, ma
neanche riesce ad edificare una nuova credibile immagine, tanto è latitante
l’ispirazione e forse anche la minima volontà di assestarsi sulla decenza.
Bocciati su tutta la linea.
10)
“Precambrian” (The Ocean)
Apriamo
dunque ufficialmente la classifica con i tedeschi The Ocean, che già
abbiamo incontrato nella nostra rassegna dedicata ai migliori brani lunghi
del metal (parlammo all’epoca dell’album-suite “Pelagial”).
Ma l’ambizione non è una caratteristica emersa solo di recente fra le pieghe
del collettivo capitanato da Robin Staps: già nel 2007 il Nostro
ideava e rilasciava un doppio album che intendeva raccontarci l’era preistorica
sul pianeta Terra (il precambriano, appunto). Un concept graduale,
potremmo dire utilizzando la stessa espressione che avevamo utilizzato per
“Pelagial”, in quanto neanche qui abbiamo un impianto narrativo con vicende e
personaggi, ma una descrizione sonora dei vari processi che hanno
caratterizzato quella particolare fase di sviluppo del nostro pianeta. Una
descrizione che va dal furioso post-hardcore del primo disco “Hadean/Archaean”
(che in realtà è considerabile alla stregua di un EP, visto che dura poco più
di venti minuti) al raffinato post-metal del secondo “Proterozoic”,
dove i suoni si fanno più dilatati e ricchi di spunti melodici. Se dal lato
concettuale, come consueto, il tema viene affrontato dai tedeschi vagliando i
punti di vista più dotti e disparati (scienza, filosofia, letteratura, con il
contributo del pensiero di grandi nomi come Nietzsche e Baudelaire),
dal lato musicale non si bada a spese coinvolgendo un nutrito stuolo di ospiti,
che vanni da turnisti (viola, violoncello, sassofono, pianoforte ecc.) alla Berlin
Philarmonic Orchestra, passando da un coro composto da ben undici elementi.
Un Grande lavoro in tutti i sensi!
9)
“Yellow & Green” (Baroness)
Li abbiamo citati nella nostra rassegna sul Nuovo Metal e li abbiamo
indicati come la formula ultima di un percorso di emancipazione che ha portato
il post-hardcore, passo dopo passo, a chiudere un cerchio che riporta il metal
a sonorità più classicamente rock. Dopo l’album “rosso” e quello “blu”, nel 2012
la band statunitense decide di lasciarsi alle spalle le asperità ereditate
dall’universo sludge-hardcore per approdare alla loro opera della
maturità. E lo fanno con un doppio album, visto che un colore solamente
non bastava più a descrivere un sound orami multiforme che si nutre delle
più molteplici influenze. Influenze tutte ben esplicite e che sono mutuate da
trent’anni di storia del rock, da quello acido e ruvido degli anni settanta
alle tendenze alternative della decade novantiana, fra post-grunge e stoner.
Quindi chitarre potenti, groove incalzante, anthem generazionali,
ma anche malinconiche ballate ed aperture progressive, in un “tutto
totale” che viene attualizzato e riformulato in un qualcosa di “nuovo”, grazie
al talento ed alla personalità dei componenti della band: non certo musicisti
virtuosi, ma capaci di digerire e metabolizzare le tendenze più diverse e
rielaborarle alla loro maniera. E per fare tutto questo, siamo d’accordo con
loro: c’era bisogno di un doppio album!
8)
“The Guessing Game” (Cathedral)
Giunta
al nono album, la creatura di Lee Dorrian e Gaz Jennings rompe
ogni indugio ed esplicita chiaramente quello i Cathedral sono sempre
stati e che peraltro non si sono mai vergognati di essere: degli inguaribili
nostalgici. I Nostri guardano dunque al meraviglioso mondo degli anni
settanta, non limitandosi ad intercettarne il ribollire di sonorità doom
& heavy, ma esplorandone anche il lato più progressivo e
psichedelico. I riferimenti sono i soliti: quel sottobosco oscuro e tenebroso
di band note e meno note che vegetavano fra l’hard-rock, il progressive e il
folk in un’epoca in cui drum machine e sintetizzatori erano ancora
fantascienza (o per lo meno un incubo da negare ferocemente). Il tutto riletto
con il sound granitico della chitarra schiacciasassi di Jennings, la
voce al vetriolo di Dorrian e una sezione ritmica più solida che mai. Ma questa
volta il tronfio revival della Cattedrale prende le forme grandiose di
un doppio album, in cui la band decide di biforcarsi e mostrare sulla prima facciata
il proprio volto più ricercato e sulla seconda quello più affossante. Una
dichiarazione di intenti ben supportata da una più che buona ispirazione di
fondo, considerato anche che eravamo nel 2010, che gli inglesi si portavano
venti anni sul groppone e che la loro avventura era prossima al capolinea (il
successivo “The Last Spire”, uscito postumo, avrebbe costituito il
sigillo finale all’opera imponente della Cattedrale). Come in tutti i
doppi album, non è tutto indispensabile, ma quelli di “The Guessing Game”
rimangono ottantacinque minuti di bel sentire!
7)
“Sadness will Prevail” (Today is the Day)
Anche
di questo terribile parto abbiamo già avuto modo di parlare approfonditamente,
quindi è inutile dilungarsi troppo. Basti qui sottolineare la portata di
un’impresa incredibile: centoquarantaquattro minuti, trentadue tracce
di furibondo non-sense estremista. Scorie grindcore, noise
scorticante, laceranti ballate, intermezzi horror, oscuri rituali e persino una
strumentale di ventitre minuti (“Never Answer the Phone”) che mette a
dura prova la tenuta dei musicisti quanto quella dell’ascoltatore: il genio
creativo e perverso di Steve Austen non sembra dunque temere più nulla.
Accolto tiepidamente alla sua uscita, “Sadness will Prevail” usciva nel 2002
e ad oggi rimane l’ultimo grande lavoro dei terroristi di Nashville, nonché un
saggio penetrante sul mal di vivere: la testimonianza più vivida di una mente
visionaria prestata alle sonorità più disturbanti. Sì, anche in questo caso
conveniamo che c’era bisogno di “così tanto”, perché raramente come in questi
casi la quantità diventa qualità. Forse nessuno dei tasselli di questo vasto
mosaico, se preso singolarmente, può vantare un senso compiuto, né rivaleggiare
con episodi presenti nei capolavori precedenti dei Today is the Day, ma
tutti insieme trovano una nuova forza, una logica perversa che rende l’opera un
vero monumento espressionista che va a sacrificare sull’altare della follia le
conturbanti nevrosi dei nostri tempi. Il vero White Album dell’estremo.
6)
“The Metal Opera” I & II (Avantasia)
Nel 2001
e nel 2002 uscivano separatamente le due parti della “Metal Opera”
architettata da Tobias Sammet, voce degli Edguy. L’idea sembra
essere scippata pari pari al progetto Ayeron, promotore di concept fantasy costruiti su un impianto
corale di super-ospiti chiamati ad impersonare i vari personaggi delle vicende
narrate. La differenza di fondo è che Sammet riconduce tutto alla dimensione vigorosa
e melodica del power metal, accattivandosi le simpatie anche degli ascoltatori
meno sofisticati. Ma dietro a quella che può sembrare una mossa un po’ furba,
pulsa un’ispirazione eccezionale che sorprende ad ogni piè sospinto. Le vesti
del regista calzano benissimo ad un pur giovane Sammet (all’epoca poco più che ventenne),
il quale inaspettatamente si impone proprio con questo lavoro come uno dei
più grandi ed ispirati interpreti di un genere, il power metal, che mostrava
già ad inizio millennio cenni di cedimento strutturale. C’era bisogno di aria
fresca e Sammet la portò, grazie a melodie irresistibili, flavour epico,
solenni orchestrazioni e ritornelli sempre azzeccati. Nomi illustri come Michael
Kiske, David DeFeis, André Matos, Kai Hansen, Timo
Tolkki portano sicuramente lustro all’operazione, ma Sammet vince la
partita nella sostanza ed avvia una carriera “solista” che, nata in modo estemporaneo,
sarà destinata ad istituzionalizzarsi e ad adombrare persino le gesta della
band madre.
5) “Bath”/”Leaving Your Body Map”
(Maudlin of the Well)
Procediamo con due album fantastici che purtroppo non sono noti al
grande pubblico, ma che in questa circostanza vogliamo riabilitare. I due tomi escono separatamente e con titoli diversi, ma le
due similari copertine curiosamente evocano ciascuna il titolo dell’altro
album, suggerendo un gemellaggio che è poi riscontrabile nel materiale
proposto, omogeneo e ben bilanciato nei due "contenitori". Operazione non nuova al
mondo del metal estremo, visto che se ne contano altre da parte di nomi
illustri come Therion (“Lemuria”/“Sirius B”, del 2004), Moonspell
(“Alpha Noir”/Omega White”, del 2012) ed anche Opeth (che
includerei nella categoria per il rilascio degli album “cugini” “Deliverance”/”Damnation”,
usciti in stretta successione fra il 2002 e il 2003: opposti nei contenuti
(l’uno elettrico, l’altro acustico), essi furono concepiti insieme per
rappresentare in maniera netta e distinta i due volti degli svedesi, l’uno
brutale e l’altro più soft - e titoli e copertine, che vanno a richiamarsi
vicendevolmente, rendono l’intento chiaro anche agli occhi del più distratto!).
Ma a rappresentare questa folta schiera chiamiamo proprio i misconosciuti e sfortunati Maudlin
of the Well che nel 2001 rilasciavano la loro opera magna: dal death-metal
al rock progressivo e al jazz, passando dal gothic/doom e da vere e proprie
sonorità indie e post-rock, il materiale assemblato dagli
americani è un bel melting pot che avvicina l’inavvicinabile con grande
disinvoltura ed ispirazione. Rispetto ai maestri Opeth (che all’epoca avevano un
approccio più pragmatico nell’integrare il loro death metal con sonorità “altre”),
il collettivo dei musicisti capitanati dal genio visionario di Toby Driver
sa essere ancora più audace, spaziando in lande ancora più ampie, spingendosi
ancora più lontano ed ammettendo non solo l’impiego di strumenti a dir poco convenzionali
per il metal (clarinetto, tromba, xilofono ecc.), ma carpendo quella
leggiadria/malinconia/solarità che si ritrova solo nelle migliori prove dei signori
dell’indie rock: un sound sognante e gentile che non trova eguali nel "bruto" mondo del metallo. Ottimi ed incredibilmente “avanti”.
4) “The Marriage of Heaven and Hell”
I & II (Virgin Steele)
Anche
nel mondo dell’heavy metal classico il doppio album è una scelta che si è
palesata più spesso che altrove. Persino numi tutelari come Judas Priest
ed Iron Maiden (rispettivamente con i polpettoni “Nostradamus”
del 2008 e “The Book of Souls” del 2015) si sono cimentati nell’impresa
(i primi con un concept in cui il tipico sound della band veniva
rallentato ed infarcito di sinfonismi; i secondi ambendo ad orizzonti
progressivi), ma finendo puntualmente nelle paludi della noia. Laddove anche i
più grandi hanno fallito, si sono rivelati vittoriosi i “meno importanti” Virgin
Steele che, proprio con le due parti del Matrimonio fra il Paradiso e
l’Inferno raggiungevano il punto più alto della loro carriera (periodo 1994-1995).
Già ampiamente affermati negli ambienti epic metal, gli americani tentarono il
salto di qualità con un bel concept metafisico a sfondo
filosofico/religioso (in salsa ovviamente avventurosa, come ci si può ben
aspettare dalla band), il quale riluceva di una scrittura snella e variegata. Grazie
alle tastiere del leader David DeFeis ed alla chitarra
versatile del braccio destro Edward Pursino, la tensione non cala mai,
fra granitiche epic-song, cori da stadio, struggenti ballate ed
intermezzi sinfonici a fare da contorno. Tanta era l’ispirazione a disposizione
che si decise di dare un seguito al doppio (“Invictus”, 1998), bello
quanto i suoi predecessori.
3) “Themes from William Blake’s The
Marriage of Heaven and Hell” (Ulver)
Questa
immensa opera targata 1998 è, nella sorprendente carriera dei Lupi
norvegesi, il vero spartiacque fra una prima parte caratterizzata da
sonorità black metal e folk ed una seconda improntata su avanguardia e
sperimentazione. In questo doppio album, traumatizzante per molti, gli Ulver
cambiarono veramente veste e decisero, senza preavviso e con inaspettata
maturità, di condensare tutta la loro volontà di uscire dai seminati del metal.
L’impianto concettuale (il poema di Blake, da cui vengono tratte le
liriche) fornisce una “gotica” cornice al viaggio ardito di Kristoffer Rygg, coadiuvato dalla provvidenziale new-entry Tore Ylwizaker,
intelligente sound-designer che diverrà la seconda colonna portante
della band. Le chitarre a tratti continuano a spadroneggiare, ma al centro
della scena irrompono le "macchine", l’elettronica e il piano jazzato
di Ylwizaker, il quale traghetterà gli Ulver verso i lidi dell’ambient
e del trip-hop, con robuste iniezioni di indusrial rock à la
Nine Inch Nails. Da rimarcare la “faustiana” prova dietro al microfono
di Rygg, ormai assestato definitivamente su vocalità pulite: il cantante
imperverserà in lungo e in largo sfoggiando il suo ampio range vocale
che va da un suggestivo recitato a parti filtrate, passando dagli inevitabili guizzi
teatrali che aveva già avuto modo di sperimentare in seno agli Arcturus
(lo spirito de “La Masquerade Infernale” aleggerà alacremente per le quasi
due ore di durata). Il metal ai suoi massimi livelli di sperimentazione.
2) “Keeper of the Seven Keys” I & II (Helloween)
Indecisi
fino in fondo se inserire o meno questi due album degli Helloween, alla
fine ci siamo appellati al volere degli artisti stessi che, se non glielo avesse
impedito la casa discografica, avrebbero all’epoca pubblicato i due lavori
insieme. Correva l’anno 1987: la band era al top della forma, con
un bel debutto alle spalle, un cantante nuovo di zecca ed un sacco di materiale
a disposizione, ma si dovette spezzare in due il tutto e rilasciare un album
canonico per soddisfare le insicurezze della casa discografica. Solo dopo il
comprovato successo di pubblico e critica si poté dunque procedere con la
seconda parte, la quale, a quel punto, veniva giusto un anno dopo, ma con un tour
trionfale sul groppone che aveva fatto maturare ulteriormente la band. Per
questo motivo “Keeper of the Seven Keys – Part II” suonava un po’
diverso, ma è fuori dubbio che i due tomi debbano essere visti come un’unica
esperienza, nonché il manuale definitivo atto a tracciare i canoni del power
metal. Chi del resto ne possiede solo uno? Entrambi eccelsi da un
punto di vista dei contenuti ed omogenei per quanto riguarda il materiale
proposto, essi rappresentano l’ABC del genere e non è esagerato ammettere che
con questa opera le zucche avrebbero fatto la storia (nel 2005 vi sarà
l’occasione per dare alla luce un sequel, ma è ovvio che questo terzo
atto, per storicità e meriti, non è lontanamente comparabile con gli illustri
predecessori). Un must per chiunque.
1) “Into the Electric Castle”
(Ayreon)
A
tenere alta la bandiera del progressive non troviamo i prevedibili Dream
Theater, i quali, oltre al loro ultimo “The Astonishing”, avevano già
nel 2002 tentato la via del doppio album con “Six Degrees of Inner
Turbulence” (niente concept ma solo sei pezzi, con la sola title-track
di oltre quaranta minuti ad occupare l’intero secondo lato!). Non troviamo in
vetta dunque i paladini del prog-metal, ma mr Arjen Anthony
Lucassen, in arte Ayreon: colui che possiamo definire a ragione “il
Signore dei doppi-album”, visto che da un certo punto in poi non pubblicherà altro che album doppi (e difficilmente ci potremmo oggi immaginare una
sua uscita discografica in formato album singolo!). A dare il via alla “saga dei doppi” è
stato proprio “Into the Electric Castle”, edito nel 1998 ed opera
della consacrazione per il progetto. Sostenere con fermezza che
questo sia il miglior lavoro targato Ayreon non è possibile, data l’altissima
qualità che ha contraddistinto ogni lavoro del “menestrello”. Ad ogni modo l’album
in questione rappresenta la messa a punto di una formula che era già stata
tentata nel buon debutto “The Final Experiment” e che diverrà la regola (si
vedano le due parti di “Universal Migrator” e i successivi “The Human Equation”, “01011001”
e “The Theory of Everything”, tutti e tre doppi album). All’olandese va inoltre la paternità dell’idea della “Metal Opera” con ospiti famosi
ad impersonare i personaggi che animano la storia raccontata. Lucassen,
raffinato chitarrista ed abile tastierista, da parte sua, oltre a scrivere
l’impianto narrativo, crea il sottofondo ideale per queste sontuose messe in
scena, abbandonandosi spesso a dinamiche progressive rock tout court.
“Into the Electric Castle” non annovera nel suo cast i nomi più celebri che
Lucassen sia stato in grado di coinvolgere nella sua sfavillante carriera, ma la
“squadra” messa in campo per l’occasione rimane di prim’ordine, con Fish
(Marillion), Anneke Van Giersbergen (The Gathering) e Sharon
Den Adel (Within Temptation) a fare da attaccanti. Ma è bene
chiarire che la forza dell’album non sta nelle singole individualità, bensì nelle
pregnanti sinergie che si vengono a creare fra le stesse, sotto l’accorta regia
del deus ex machina. Merito del successo va anche ad un concept fantascientifico
intelligente e ben congegnato che sa appassionare l’ascoltatore e che ha anche
il pregio di sposarsi ed integrarsi perfettamente all’apparato musicale: un
flusso continuo di belle melodie, momenti di estrema suggestione, pathos e
passaggi intricati come la migliore tradizione prog esige. Un equilibrio
perfetto, nonché uno dei punti più alti del metal quanto a definizione del concept
e sviluppo dello stesso.