I 10 MIGLIORI ALBUM DELLE CULT BAND (ANNI '90)
1992: "BLUES FOR THE RED SUN"
Assieme al Metal, la grande
passione della mia vita è il Tennis. Al di là dei 4 tornei del Grande Slam, il
quinto appuntamento stagionale di maggior interesse è sicuramente
il Master di Indian Wells, in
California (talmente importante da essere considerato da molti addetti ai lavori, tennisti compresi, una sorta di “quinto Slam”).
Ha un fascino tutto suo Indian Wells, a partire dal nome (“i pozzi indiani”) che rimanda ai Nativi che abitavano quelle zone ai tempi della conquista del West, quando le popolazioni indigene si sottomisero all’avanzata dell’uomo bianco.
Ha un fascino tutto suo Indian Wells, a partire dal nome (“i pozzi indiani”) che rimanda ai Nativi che abitavano quelle zone ai tempi della conquista del West, quando le popolazioni indigene si sottomisero all’avanzata dell’uomo bianco.
I campi da tennis sono stati
costruiti sotto quel cielo di un azzurro intensissimo, quasi sempre senza una
nube, sotto quel sole abbacinante che fa risplendere gli specchi d’acqua dei numerosi laghetti, contorniati da estesi prati all’inglese punteggiati dalle palme e
dalle buche dei campi da golf. Una vera e propria oasi. Ma basta allargare lo
sguardo, magari tramite una veduta aerea, per notare il contrasto del contesto,
fatto di brulla aridità color marrone: il colore delle rocce e delle colline del
deserto californiano. Si, nel deserto ci troviamo, precisamente nella Coachella Valley, alle estreme
propaggini nord-occidentali del Deserto di Sonora.
E così non posso fare a
meno di pensare che la migliore colonna sonora per assistere a quei match tennistici potrebbe essere un album dei Kyuss. Perché i Kyuss nascono lì, a una spanna da Indian Wells,
nella limitrofa Palm Desert.
A cura di Morningrise
Nel ribollente panorama metal di
inizi anni novanta, non c’è stato un sottogenere metallico più legato al proprio
luogo d’origine dello Stoner Metal. Lo Stoner non poteva nascere in altri
luoghi del pianeta. E’ nato nel deserto
californiano e quel deserto lo ha portato dentro la propria musica.
Le sue caratteristiche sonore quindi
non fanno che rispecchiare quella distesa di pietra infuocata, quel sole
spietato che nei mesi estivi porta le temperature anche sopra i 50°. E immaginatevi
di trovarvi lì, a quelle temperature, con l’aria tremolante all’orizzonte,
magari con la gola secca e le gocce di sudore che imperlano la fronte…facile anche che capiti di vedere ciò che non esiste. Allucinazioni. Indotte dal
caldo o magari aiutate da qualche sostanza illegale. Del resto il termine “stoned”
fa riferimento proprio a quello, a uno stato di allucinazione indotto.
E dove le allucinazioni
incontrano i suoni prodotti da un basso, una chitarra e una batteria, lì nascono i Kyuss.
Che, appunto, ci appaiono alle nostre orecchie davvero stoned, vista la
disinvoltura con cui miscelano acid rock, psichedelia spinta, l’immancabile
blues “made in U.S.A.” e del sano heavy metal sabbathiano. Non è compito banale
anche il solo concepire questo tipo di musica, e poi scriverla su uno spartito.
Mica roba da tutti…E infatti l’hanno fatto in pochi. Ma loro, i Kyuss, a buon
diritto possono rivendicare la paternità del movimento e mettersi davanti a
quei pochi.
Se già il debut “Wretch” (1991) poneva in evidenza la
band per la sua originalità, è con il qui presente “Blues For The Red Sun” che i Kyuss scrivono un pezzo di Storia del
Metal.
La copertina è già programmatica:
dense pennellate di rosso, solcate da agglomerati e striature di nero a formare
un quadro enigmatico dove ognuno è libero di vedere ciò che vuole: potrebbe
essere un mazzo di fiori? O la stilizzazione di un volatile? La risposta spetta
ad ogni singolo ascoltatore, probabilmente dettata dalla tipologia di sostanza
allucinogena assunta prima di schiacciare il tasto “Play”…
“Thumb”, l’opener, è leggendaria,
con un intro che ti entra subito nel cuore e sotto la pelle, ed un riff che è
sabbath al 101%: un doom d’annata, ma al contempo moderno, trasportato dalla
fredda e uggiosa Birmingham all’aridità del deserto. E non c’è tempo per
rilassarsi perché la celeberrima “Green Machine” è pronta a incalzarci,
facendoci sbattere su e giù la testa con la chitarra ribassata di Josh Homme a
menare le danze senza un attimo di requie.
Ma attenzione: in realtà questi due splendidi
pezzi, canonici nella loro struttura, non sono esemplificativi del
tutto, visto che dal terzo brano in poi, “Molten Universe”, i Nostri
privileggeranno un modus operandi senza schemi, quasi un fluire continuo di
improvvisazioni dove misceleranno con intelligenza e spontaneità tutti gli
stilemi su descritti. Tanto che alla fin fine il disco poteva essere benissimo un’unica
traccia di 50 minuti, durante i quali l’alternanza di parti più
tirate ad altre più “morbide” e/o cadenzate non sminuisce un istante
l’intensità della proposta. Ecco spiegato anche l’utilizzo diffuso di brani
strumentali o semi-strumentali (strepitosa “Apothecaries’ Weight”), di intermezzi
acustici o prettamente psyco-rock ("Caterpillar March", "800", "Capsized"), che legano tra di loro pezzi più vicini al “formato-canzone” ma altrettanto
particolari e innovativi (“50 Million Year Trip”, “Writhe”).
Se un track-by-track è quanto di
più sbagliato si potrebbe fare per descrivere un album del genere (e come sapete a noi di
Metal Mirror non piace a priori) permettetemi giusto una doverosa quanto rapida menzione
della conturbante “Freedom Run”: 7 minuti e mezzo dove la psichedelia
dell’intro lascia presto spazio al rifferrama sabbathiano di Homme (sinuoso
come una vipera e avvolgente come un boa) che si intreccia al pulsante basso di
Nick Oliveri, che sembra colare
sudore e grasso, e al drumming tribale di Brant
Bjork, dando vita ad una lunga coda, una sorta di libera sessione
strumentale che non fa che ribadire lo sviluppo in progress del songwriting
della band. Un pezzo incredibile, summa del kyuss-sound, che fa il paio con l’altro
pezzo “lungo” del disco, la conclusiva “Mondo Generator”, anch’esso sviluppato come
fosse una jam session tra musicisti “fumati” sì, ma quanto ispirati!
Potremmo paragonare l’ascolto di BFTRS quindi ad una traversata in un deserto ostile, minaccioso, senza oasi. Un platter che è molto di più della somma delle sue parti, forse più “importante” che “bello”. Insomma, il disco “stoner” per antonomasia…
Il successo in quel 1992 fu giustamente notevole, bissato due anni dopo dall'ottimo "Welcome to the Sky Valley" (ancora un chiaro riferimento geografico alle proprie origini). Ma poi, di lì a un anno, dopo appena quattro dischi, i
Kyuss si scioglieranno, assurgendo allo status di "cult band".
Homme e il singer John Garcia
presenzieranno a tutti i parti discografici dei Kyuss, ma i continui cambi al
basso e alla batteria creeranno un’instabilità che porterà alla fine artistica della
band.
Ma come una sorta di supernova,
dalla cui esplosione possono nascere nuove stelle, così la dissoluzione dei
Kyuss portò alla formazione di nuovi gruppi: i celebri Queens of the Stone Age, creati da Homme in collaborazione con
l’ultimo batterista presente su “…and the
Circus Leaves Town” (epitaffio dei Kyuss nel 1995), Alfredo Hernandez; e gli Unida capitanati da Garcia. Tutti nomi
significativi e che, assieme agli Slo Burn e i Fu Manchu, vanno a formare una
vera e propria “scena”, tra le più interessanti del firmamento metal dell’epoca.