1991
– 2016: VENTICINQUE ANNI DI MORTE.
I
MIGLIORI DIECI ALBUM DEATH METAL USCITI NEL 1991: CONCLUSIONI
A
differenza delle altre classifiche che abbiamo stilato per il nostro blog,
la qui presente, giunta oggi alla sua conclusione, è inevitabilmente parziale,
considerato il fatto che si è concentrata su un lasso temporale limitato, ossia
l’anno 1991.
Più
che una panoramica che nasce con pretese di esaustività, e al di là degli
intenti meramente celebrativi (visto che cade il venticinquennale di
quell’anno così speciale per il metal in generale e per il death metal
in particolare), la nostra operazione è stata piuttosto un prelievo: il
prelievo di un campione volto non solo a dare uno spaccato reale dell’universo
death metal, ma anche atto a descrivere il tutto a partire da una parte.
Cosa
è stato quindi sezionato ed isolato? Se non tutto, molto. Basta vedere i nomi
dei primi cinque classificati (Death, Morbid Angel, Carcass,
Pestilence, Atheist): chi sostiene che il death metal è un genere
seriale, ingessato ed ingolfato nei suoi standard, si dovrà ricredere
innanzi a queste enormi individualità!
Individualità:
un termine che non circola spesso in ambienti come quello del death metal, un
ecosistema che, se frequentato da chi non è proprio addetto ai lavori, può apparire
incredibilmente uniforme e massificato (nel senso che la collettività diviene
massa indistinta). L’immagine del death metal che ci restituisce la nostra
lente di ingrandimento è invece l’esatto opposto: artisti dotati di una
personalità fortissima, capaci, quanto a carisma e creatività, di
rivaleggiare con esponenti illustri di altri ambiti del metal considerati più
nobili.
Chuck
Schuldiner, Trey Azagthoth e Bill Steer sono artisti che non hanno
niente da invidiare ad altri geni del metallo. In queste tre menti c’è tutto:
visione, creazione, sviluppo di uno stile che è tanto personale quanto
estendibile come standard. Gara a parte la corre ovviamente Schuldiner: creatore
prima, sviluppatore in seguito ed infine cantautore, ossia
interprete di una musica sua, solo sua, inclassificabile, fuori dai generi, che
solo per convenzione continueremo a chiamare death metal. “Individual
Thought Patterns” (1993) sarà infatti l’ultimo album veramente death dei
Death, in quanto da “Symbolic” in poi il loro (suo) cammino si spingerà
oltre: un andare-avanti-ed-indietro-al-tempo-stesso che significa
affinare la propria arte in un’ottica sempre più personale, ma anche
riappropriarsi di quegli stilemi classici da cui tutto ebbe origine e da cui si
prese le distanze per edificare il Nuovo. Quegli stilemi che riconquisteranno
l’etichetta “heavy metal” con l’ultimo parto discografico di Schuldiner: “The
Fragile Art of Existence” rilasciato da quei Control Denied che non
erano altro che i Death che oramai non suonavano più death.
E questo percorso di affrancamento dai canoni del death metal ebbe una prima forte evidenza proprio in “Human”, che abbiamo posizionato al primo posto della nostra classifica. Questa opera meravigliosa era tuttavia solo la punta di diamante di un intero movimento che, a velocità diverse, nell’anno 1991 stava mostrando il suo potenziale. Da lì a poco i Pestilence e gli Atheist (rispettivamente quarto e quinto posto) e i Cynic (non trattati direttamente, ma citati parlando proprio di “Human”, visto che in esso vi suonavano i due pilastri fondanti dei Cynic stessi, Masvidal e Reinert) si sarebbero spostati verso lidi sperimentali, varcando quel famoso punto di non-ritorno che il genere intero imboccherà a breve.
Dei
Death si è detto (e non sarà morte artistica la loro, bensì una fine prematura
determinata dalla scomparsa del loro leader). Quanto ai Carcass, essi avranno
appena il tempo per confezionare il loro capolavoro assoluto “Heartwork”
(sempre del 1993), per poi (dopo il trascurabile esperimento “Swansong”)
andare incontro all’inevitabile scioglimento. Il medesimo destino che toccò a molte
altre band che manifestavano un’evidente irrequietudine nel muoversi
all’interno dell’angusto recinto del death metal. Salvo i Morbid Angel, che fra
alti e bassi dimostreranno una certa longevità ed una capacità di evolversi pur
rimanendo aderenti ai loro cliché, chi deciderà di continuare a suonare
death, finirà per riciclarsi o impantanarsi in un’immobilità artistica fatta di
attitudine, disciplina e piccoli passi avanti o laterali, relegando l’intero
movimento allo status di nicchia per appassionati.
Come
si diceva infatti nell’introduzione, chi suona death metal è spesso un
musicista serio, rigoroso, consapevole dei propri mezzi e dei propri intenti.
Ma questo può costituire anche uno svantaggio: quello di seguire diligentemente
certe traiettorie e giocare solamente sulle sfumature. Basta guardare la
seconda parte della classifica (Entombed, Cannibal Corpse, Gorguts,
Bolt Thrower, Autopsy) e i due inserti fuori concorso (Immolation
e Suffocation): tolti Entombed e Gorguts (che possono vantare una
differenziazione stilistica sopra la media, i primi dandosi al “death ‘n’roll”,
i secondi imboccando la via della sperimentazione), l’impressione è che la
maggior parte di essi siano musicisti dotati che si “accontentano”
semplicemente di suonare death metal, come se fosse un loro dovere: chi
buttandosi sullo splatter, chi sui temi bellici, chi su un
anticristianesimo sui generis, sviluppando tutti loro una personalità che
ovviamente esiste, ma che per davvero rimane riconoscibile solo a chi il genere
lo mastica. Una personalità, invero, che non è una vera “personalità
artistica”, in quanto è solo l’inevitabile bagaglio (esperienziale, culturale)
che qualsiasi musicista si porta dietro nella propria musica.
Se
dunque nel 1991 l’universo death ribolliva di un fermento che lo rendeva una
delle correnti più eccitanti del metal, già due anni dopo, nel 1993 vedeva
raggiungere il suo zenit per poi spengersi come una supernova che ha esauriti
dal profondo la sua energia vitale: il death metal continuerà così a rilucere
nel firmamento del metal, ma si tratterà solo di un riflesso dietro il quale si
celerà solo materia morta.
Si
era detto, infine, che la nostra rassegna, nel suo limitarsi alla durata di un
anno solare, ha saputo raccontare molto del death metal, ma non tutto. Nel 1991
non escono infatti album di Deicide e Obituary, di cui non
abbiamo parlato, ma che ci pareva giusto citare almeno a piè di pagina.
I
primi debuttavano l’anno precedente con “Deicide” (1990) e due anni dopo
rilasciavano l’ottimo “Legion” (1992): con i Morbid Angel guideranno le
frange più malefiche del death metal, essi stessi incarnando la quintessenza
del death metal più satanico e blasfemo.
Nati come una sorta di missione da parte del cantante/bassista Glenn Benton
per la diffusione del credo satanico, essi si caratterizzeranno principalmente
per il carisma vocale di questo straordinario cantante e paroliere: diviso fra growl
ottenebrante e screaming isterico, con la sua “doppia voce”, con le
mitragliate epilettiche e con le maledizioni rivolte a Dio, egli riuscirà a
costruire un percorso di differenziazione stilistica tanto affascinante da
travalicare i confini del death metal per divenire oggetto di interesse anche per
il nascente fenomeno del black metal.
Gli
Obituary, che debuttavano nel 1989 con “Slowly We Rot”, girarono intorno
al 1991 come squali famelici, sfornando a distanza ravvicinata i due loro album
migliori: “Cause of Death” (1990) e “The End Complete” (1992). Dal
sound tanto classico quanto originale, il gruppo dei fratelli Tardy
costituisce un caso a parte nella vasta compagine del death: nessuno
suonerà come loro, annoverando essi fra le loro influenze non solo i soliti Slayer,
ma anche i grandissimi Celtic Frost. E propri dagli svizzeri essi
erediteranno una certa cupezza e gli umori apocalittici: una musica, la loro, perennemente
sospesa fra passaggi lenti e claustrofobici ed accelerazioni storcicollo, il
tutto condito dalle vocalità inconfondibilmente putrefatte di John Tardy.
Se i
primi riusciranno ad arrivare ai nostri giorni all’insegna della coerenza (ma
sbiadendo passo passo), i secondi tenteranno con il quarto album, il buon “World
Demise” (1994), una svolta à la Sepultura (ossia un sound
più diretto e declamatorio pervaso da echi ambientalisti), per poi sciogliersi anche
loro e riformarsi nel 2007, tornando però all’ovile con un approccio più ortodosso
e debitore delle loro origini. Entrambi i casi confermano la nostra tesi, ossia
che, da un certo punto in poi, il death o rimane uguale a se stesso o si auto-distrugge:
questo, nei fatti, il destino che ha accomunato la stragrande maggioranza delle
band death metal, salvo ovviamente quelle sporadiche eccezioni che ci sono
sempre e che vanno comunque a confermare la regola.