Ok, lo
sappiamo, siamo degli inguaribili logorroici e quello che doveva essere un
argomento che avrebbe dovuto esaurirsi nello spazio di un post è divenuto
una piccola saga divisa in tre puntate. Il tema delle cover nel metal:
ossia come il metal si approccia alla rivisitazione del brano altrui. Nella premessa
abbiamo abbozzato la questione delle band metal che coverizzano altre
band metal, ma è con il passo successivo che abbiamo adempiuto al dovere che ci
eravamo prefissati: vedere come le band metal si cimentano nella rivisitazione di brani non-metal.
Il
fatto è che, giunti al termine delle nostre argomentazioni, ci siamo chiesti:
possibile che non abbiamo manco citato i Rolling Stones? E come abbiamo
potuto non accennare alle svariate e bellissime cover che hanno sfornato
nella loro carriera i Death SS? E possibile infine che non si sia potuto
nemmeno sfiorare l’immagine di un Joey DeMayo impettito in posa da gallo
cedrone che violenta con il suo basso a dodici corde le arie dei compositori
classici? No, c’era troppa carne al fuoco per tirare giù la saracinesca e
salutare tutti. E così eccoci agli immancabili titoli di coda!
Partiamo togliendoci un dente
con un brano che inizialmente avevamo pensato di inserire in top ten, ma
che alla fine ci è toccato scartare: “Surfin’ Bird” rifatta
nientemeno che dai Sodom. Di cosa stiamo parlando? “Surfin’ Bird”
è un singolo pubblicato nel 1963 dai Trashmen, un nome che vi dirà poco.
Il brano, tuttavia, è di per sé stranoto, e lo è per svariati motivi: uno su
tutti perché faceva parte della colonna sonora del celebre “Full Metal
Jacket” di Stanley Kubrick. A risentire il pezzo con attenzione
(capita spesso di sentirlo anche nei dj set di molti locali generalisti,
ma spesso quando capita siamo già ubriachi) si capisce che non è solo un
irresistibile brano rock’n’roll (impossibile non muover il culo mentre lo si ascolta),
ma che è anche molto violento, considerato che siamo all’inizio degli anni
sessanta. Batteria battente, riff incalzante, ma soprattutto la folle
prova dietro al microfono di Dan Winslow, sorta di Elvis sfasato
dalla voce gutturale. Wikipedia, oltre alle etichette rock ‘n’ roll,
garage-rock e surf rock, inserisce non a caso anche la dicitura proto-punk
ed è tutto dire. In questa rivisitazione i Sodom hanno pertanto vita
facile, considerato il loro sound grezzo e punkeggiante. I suoni
vengono ovviamente induriti e i Nostri fanno presto a trasformare l’hit
della band americana in una speed-thrash
song con i contro-fiocchi: ma non è il lato stilistico ad interessarci,
bensì quello concettuale. “M-16”
(anno 2001) è uno degli album più cupi e meno giocosi dei Sodom. I testi
dei brani ruotano intorno al concept della guerra in Vietnam e
“Surfin' Bird”, che veniva trasmessa dalla radio per tenere alto il morale
delle truppe proprio in Vietnam, è dunque la chiosa ideale per l'album:
coerente con umori ed ambientazioni, essa è una botta di vita che ci ricorda i
Sodom più goliardici e divertenti.
Rimanendo
in tema Sodom, da segnalare lo spassoso “Ich Glaub’ Nicht An Den Weihnachtsmann”
rilasciato dal solo Angelripper sotto la ragione sociale Onkel Tom.
Si tratta di una gustosa raccolta di cover di canzoncine natalizie rilette in chiave
thrash-metal, con in prima fila l’ugola al vetriolo del leader dei
Sodom: un’operazione pienamente riuscita che mette in mostra il lato più divertente
dell’autore tedesco (e sempre in argomento di puttanate, come non citare la cover grind di “Macarena”, ribattezzata
per l’occasione “Marijuana”, rilasciata da quei pazzi dei Brujeria?).
Dalla
Germania dei Sodom, al Messico dei Brujeria, per tornare alla Germania dei Blind
Guardian, i quali tributano i Queen, con “Spread Your Wings”.
Sotto le grinfie dei quattro bardi, essa diventa una power-ballad assai
baldanzosa dove il pianoforte viene persino preservato. Ma è la raucedine di Kursch
a farla da padrona: fra cori epici e atmosfere da osteria bavarese, i Blind
Guardian, goffi ed efficaci come sapevano essere una volta, rendono omaggio ai
loro miti di sempre in tempi ancora non sospetti, quando la Notte all’Opera
non era ancora in agenda…
Rimaniamo
in terra dei crucchi con gli Helloween, i quali con “Metal Juke-Box”
spaziano a più non posso: dagli Scorpions ai Jethro Tull, dai Beatles
agli Abba, dai Faith No More a David Bowie. Per farci
un’idea ci siamo andati ad ascoltare proprio “Space Oddity” del Duca
Bianco, e che dire, non ci è piaciuta per niente (perché farla uguale e non
metal? Per giunta senza la voce di Bowie?). Meglio allora i Gamma Ray che
ripropongono in salsa power la già di per sé epica “Return to Fantasy” (grandissimo
pezzo!) degli Uriah Heep. Stranezze della vita: Kay Hansen &
soci decideranno di cimentarsi anche con il pop dei Pet Shop Boys di “It’s
a Sin”, con risultati non esaltanti. Gli Edgay rispondono con “Hymn”
degli Ultravox, peraltro coverizzati anche dai gothic-doomer Celestial
Season con “Vienna” (tutti esperimenti trascurabili a parere del
sottoscritto). Gli italiani Vision Divine, dal canto loro, preferiscono
andare sul sicuro con il classico intramontabile “The Final Countdown”
degli Europe, praticamente identica all’originale, se non fosse per la
pronuncia di Lione (…).
Sempre
in Germania risiedono i Rage che, all’indomani della svolta “sinfonica”,
ebbero l’idea di confrontarsi con i Rolling Stones riproponendo
un brano emblematico come “Paint it Black”, a parere di chi scrive uno
dei migliori brani rock di sempre. Pensate che mi piace persino la versione
della Caselli, mentre quella di Peter “Peavy” Wagner non mi
entusiasma: troppo lenta, assolutamente priva di quell’argento vivo
che si portava addosso l’originale. Apriamo dunque la parentesi sui Rolling
Stones, celebrati almeno quanto i Beatles, se non di più. Ma se i Fab
Four troveranno grandi soddisfazioni nei confronti dei loro “nipotacci”
metallari, Mick Jagger & co. avranno invece di che lamentarsi.
Falliscono i Tiamat, che di “Sympathy for the Devil” ne fanno una
scialba versione goth-rock; falliscono i Guns N’ Roses, che pubblicano “Sympathy
for the Devil” (incisa appositamente per la colonna sonora di “Intervista
col Vampiro”) nel loro periodo più sfigato, all’indomani del disastroso “The
Spaghetti Incident?” con Slash oramai con un piede fuori dalla porta.
Falliscono anche gli infallibili Death SS, che nel campo delle cover
si erano mossi piuttosto bene. La loro versione di “Sympathy for the Devil”
(aridaje! Come se gli Stones non avessero fatto altri pezzi!) risente
del periodo electro-industrial che la band viveva ad inizio millennio, risultando
così un po’ meccanica e fredda
nell’elaborazione. Meglio allora riandarsi ad ascoltare le artigianali “Come
to the Sabbath” (Black Widow), “I Love the Dead” (Alice
Cooper), “In Ancient Days” (ancora Black Widow), “Death
Walks Behind You” (Atomic Rooster), “Rabies is a Killer” (Agony
Bag), pescate nelle acque più torbide del rock, con vero gusto di intenditore.
Altre
scelte di classe sono state compiute da Agalloch e Rotting Christ,
che sono andati a rovistare nel mistico universo del folk apocalittico,
rispettivamente con “Kneel to the Cross” (Sol Invictus) e “Lucifer Over London” (Current 93), consegnandoci versioni sentite e
decisamente personalizzate (del resto dal neo-folk al black metal, sebbene
siano generi affini da un punto di vista concettuale, il salto
rimane bello grosso!). Non paghi, i greci rilanceranno con “Orders from the
Dead” della grandissima Diamanda Galàs. C’è da dire che anche per
questo aspetto, il black metal, come genere, è in grado di fare delle scelte
meno scontate della media. E’ il caso dei norvegesi Carpathian Forest
che rifanno “A Forest” dei Cure (non riuscendo però a bissare l’intensità dell’ineguagliabile
originale). Dal dark al dark, fanno peggio i Crematory con “Temple of
Love” (The Sisters of Mercy), che si lasciano dietro una versione
banale con chitarre svogliate in sottofondo, tastierina Bontempi e growl
affaticato (ma è anche vero che i tedeschi mi hanno sempre fatto vomitare e che
secondo me, a guardarli uno per uno, sono veramente i più brutti di
tutti).
A
proposito di gente ridicola, rimangono da citare le assordanti strimpellate di
basso di Joey DeMayo, che più volte si è cimentato con arie classiche (“William’s
Tale” vergata da Gioacchino Rossini e “Sting of the Bumblebee”
– il celebre “Volo del Calabrone”, peraltro rivisitato anche dai Dream
Theater). Che dire del buon DeMayo, gli vogliamo tanto bene e quel marasma sonoro che esce dalle sue casse ha in effetti un suo perché: quanto ci basta per farci andare bene quell'orrendo frastuono mentre
attendiamo il prossimo grande brano anthemico dei Kings of Metal.
E se i Sepultura (quelli nuovi, con Derek Green alla voce) si
gettano in una azzardata cover degli U2 (“Bullet the Blue Sky”),
l’ex Max Cavalera con i suoi Soulfly risponde a tono con una hardcoreggiante
“Smoke on the Water” (vabbè, non c’è da specificare di chi),
lasciandoci, in entrambi casi, con l’impressione che le due entità farebbe
meglio a ricongiungersi ed estinguere quelle due inutili carriere che sono da un
lato i Sepultura senza i Cavalera e dall’altro i Soulfly!
Chiudiamo
dunque in bellezza: i Dark Angel con “Immigrant Song” dei Led
Zeppelin ci regalano l’unico momento orecchiabile nel massacrante “Leave
Scars”; i geniali Celtic Frost scherzano con il fuoco ed aprono il
loro capolavoro assoluto con “Mexican Radio”, hittone new-wave
targato Wall of Voodoo (e meno male che gli svizzeri se lo possono
permettere…). Gli Wasp tributano i maestri Who con una
adrenalinica “The Real Me” (e, non ci potrete credere, l’originale è più
waspiana della versione cantata da Blackie Lawless!); gli A
Perfect Circle, infine, ci allietano con la riproposizione (da brividi)
del brano lennoniano per eccellenza “Imagine”: un inno pacifista trasformato in un tragico ed inquietante slowmotion
marchiato dal canto alienante del sempre ottimo Maynard James Keenan (a
proposito, ma quando cazzo esce l’ultimo dei Tool?????).
P.s.
ma alla fine, la meglio di tutti rimane, a lanciare granate dal fronte opposto,
Tori Amos, che ripropone “Raining Blood” (si!, quella degli Slayer!!!)
nientemeno che in versione per solo piano e voce. Irriconoscibile, ma apprezziamo lo sforzo, Tori, di te ci va bene tutto…