Il modo migliore che un
artista ha per tributare un altro artista è la cover, ossia il
rifacimento/reinterpretazione di un brano altrui. Si può essere spinti a coverizzare
un brano altrui per tanti motivi: perché ci piace l’artista, perché adoriamo
quella canzone in particolare, perché quella canzone la sentiamo nostra e
riteniamo che essa si sposi bene con il nostro sound, perché, infine,
quella particolare rivisitazione può avere una valenza concettuale all’interno
del concept del nostro album.
Una pratica che da sempre imperversa
nel mondo del rock, del pop e della musica leggera in generale. Il metal
non fa eccezione e moltissimi sono i casi in cui band metal si sono trovate a
reinterpretare brani altrui.
Tenendo conto delle alte mura che costeggiano il Reame del Metallo e che lo dividono dal resto del mondo musicale, è molto frequente imbattersi in cover di altre band metal considerate seminali: un atto di rispetto, di riconoscenza, di semplice passione. Ed infatti nel metal è raro che vi siano cover fra “pari”, perché a prevalere è la logica del “rendere onore” alla generazione precedente. E così gli Iron Maiden omaggiano i Jethro Tull (“Cross Eyed Mary”), gli Slayer i Judas Priest (“Dissident Aggressor”), Trivium e Mastodon i Metallica (rispettivamente “Master of Puppets” ed “Orion”).
Tale fenomeno, a sua volta,
ne comporta un altro: l’alone di perfezione e sacralità che spesso aleggia
intorno a certi classici del rock o del metal, fa sì che l’artista coverizzatore
si avvicini cautamente alla materia originaria: è come se dicesse fra sé e sé “ci
provo, ma farò sicuramente peggio”, scoraggiandosi in partenza e temendo di
peggiorare la situazione mano a mano che si allontanerà dai solchi tracciati
dall’originale. Per questo motivo l’ambito della “cover metal di un
brano metal” non è per noi sufficientemente interessante: il nostro focus
sarà dunque un altro, ossia la reinterpretazione in chiave metal di brani
non-metal, proprio per vedere come i nostri eroi si approcciano ad una
materia estranea alle proprie usuali vedute.
Ma prima di procedere ci
pareva corretto “rendere onore” a tre o quattro magnifici esempi di
rivisitazione di brani metal, ambito che, si diceva, abbiamo deciso di non
trattare.
Come non citare, per esempio,
i Type O Negative con la loro cover più bella di sempre, ossia “Paranoid”
dei Black Sabbath? I Type O Negative, infatti, si sono dimostrati dei
maestri della “trasfigurazione per eccessi”, metodo espressivo su cui hanno
basato l’intera carriera (più lenti dei Black Sabbath, più oscuri di ogni altra
band dark o goth-rock ecc.) e che hanno sistematicamente applicato alle loro
svariate cover, spesso indirizzate ai propri miti di gioventù (Jimi
Hendrix, Neil Young, Beatles ecc.). In questo caso il
classico dei Black Sabbath viene trasformato nel suo esatto opposto: se la
“Paranoid” originale era adrenalina, energia, una fucilata di nemmeno tre
minuti animata da uno dei riff più celebri della storia del rock e dalla
voce da psicopatico di Ozzy, una volta passata per le mani dei quattro di
Brooklyn, essa si tramuta per magia in un incubo sonoro di sette minuti, uno
sfocato delirio doom che contempla i classici ingredienti dei TON: riff
pesantissimi, tempi esasperanti, organi da chiesa, qualche vagito femminile e la voce cavernosa di Peter
Steele che decanta i versi in un lento salmodiare. L’operazione, oltre che
ad avere del paradossale (i Black Sabbath “slabbrati” nell’ottica del doom sabbathiano,
appunto: una sorta di “Black Sabbath al quadrato”) è anche l’esempio di come
una personalità molto forte possa appropriarsi della hit più nota ed
apparentemente intoccabile.
Hanno agito diversamente i Sepultura
con “Orgasmatron”, scippata dal repertorio dei Motorhead
senza troppe divagazioni. C’è da precisare, anzitutto, che “Orgasmatron” è un episodio
atipico nella discografia della band inglese: poco punk e più metal se
vogliamo, con un riff monolitico
ossessivamente ripetuto, il passo cadenzato, un Lemmy inesorabile, più
aspro e rauco del solito. Ma non solo il brano si avvicina alquanto allo stile dei
brasiliani, esso ben si sposa concettualmente alla loro linea di
pensiero (nel testo è il politico corrotto che ci parla in prima persona). Sebbene
le due versioni non si discostino più di tanto, Max Cavalera & compagni sanno
conferire un sano “tocco Sepultura” al pezzo, condendolo con la tracotanza percussiva di Igor e con il carisma declamatorio di Max. I Sepultura ebbero modo
di fare almeno un’altra celebre cover, quella di “Symptom of the
Universe”, ma qui si ha l’impressione che i Nostri abbiamo voluto “vincere
facile”, in quanto il brano originale dei Black Sabbath (anno 1975!) era già di
per sé, vent’anni prima, tosto almeno quanto quello dei brasiliani: un ottimo
esempio di thrash metal ante litteram in cui, a parte la voce gutturale, c’era
già veramente tutto quello che i Sep avrebbero poi sfoggiato.
E come non citare i Metallica
che nella loro carriera si sono cimentati per ben due volte nella realizzazione di
una raccolta di sole cover (“The $5.98 E.P.: Garage Days Re-Revisited” e "Garage Inc."). Se si
va a vedere l’EP del 1987, molte sono le ragioni di delizia per un qualsiasi
metallaro, ma a noi piace ricordare la graditissima opener “Helpless”,
pescata dalla discografia dei Diamond Head, da sempre grande fonte di
ispirazione per i Four Horsemen (gli inglesi furono dai Metallica tributati anche con un altro
grande classico, spesso poi riproposto dal vivo: la potente
“Am I Evil”). “Helpless” usciva in anni in cui i Metallica erano ancora in
gran forma, e si sente: essa viene riproposta con il fuoco nelle vene, con la verve
del giovane che vuole spaccare tutto, come erano appunto i Metallica nei lontani anni ottanta. Questa cover, dunque, riesce nel duplice intento di esprimere
tutta la passione per l’originale e di suonare Metallica al
100%: quello, appunto, che ogni cover che si rispetti dovrebbe fare!
Chiuderei questa breve
panoramica con la fantastica rivisitazione di “Painkiller” dei Death.
i quali decidono di non stravolgere il classico dei Judas Priest, ma di
risuonarlo assai fedelmente. Ma non dobbiamo aspettarci un’esercitazione da
scolari diligenti: la forza di questa cover sta nella personalità dei
musicisti che si riversa in ogni singolo passaggio. La parte del leone la fanno
sicuramente il drumming ipertecnico e potentissimo dell’immenso Richard
Christy ed ovviamente il talento del leader Chuck Schuldiner,
il quale, per l’occasione, decide di abbandonare l’acido screaming
impiegato negli ultimissimi lavori, per passare ad una impostazione vocale
vagamente pulita, in ottica ovviamente Halford (che siano i primi
segnali della svolta power che verrà intrapresa con i Control Denied di “The
Fragile Art of Existence”?). Ma chitarristicamente il Nostro sale in
cattedra e riesce a far rivivere le gesta dei grandi K.K. Downing e Tipton attraverso il suo
personalissimo stile: da manuale rimane la fase centrale del brano, dove uno
scambio infinito di assolo diventa un’intensa, epica, lacrimevole
maratona schuldineriana. Ufficialmente parlando, l’ultimo brano in scaletta
nell’ultimo album dei Death: non potevamo richieder commiato migliore!
Ma, come si diceva, miliardi
e miliardi sono i casi che possiamo citare: ogni band, in pratica, vanta una cover
nel suo repertorio. E così i Machine Head cuciono una veste thrash alla
“Sentinel” dei Judas Priest, mentre i Cradle of Filth
infiocchettano con ghirigori gotici sia Slayer (“Hell Awaits”)
che Iron Maiden (“Halloweed Be Thy Name”), risultando più
credibili di quanto uno possa pensare (anche se l’esercizio risulta assai
prevedibile: velocità supersoniche, dense tastiere ad evidenziare i passaggi di maggior pathos e Dani Filth a far di tutto per cercare di coprire almeno un
decimo dell’ampiezza vocale dell’inarrivabile Bruce Dickinson). La
stessa identica metodologia la utilizzano, ma con risultati migliori, gli italo-austriaci Graveworm
(peraltro anche autori di una improbabile cover di “Losing my
Religion” dei R.E.M.!), tant’è che la loro “Fear of the Dark”
è stata per errore attribuita ai Cradle. Ma a conti fatti il risultato
è più che convincente (ottima l’idea dell’impiego del violino per sostituire il
canto pulito di Dickinson all’inizio ed alla fine del brano; da brividi lo
sviluppo dello stesso, lanciato a velocità proibitive, pompato dalle testiere e
con il riff di chitarra trasformato in un maelstrom black
metal).
Purtroppo non ce la sentiamo
di applaudire i Dimmu Borgir che hanno avuto l’insana idea di rivedere in
salsa black-sinfonica “Burn in Hell” dei Twisted Sisters
(riteniamo infatti che sia una grande forzatura infarcire di sinfonismi,
sovra-incisioni e brutalità assortite un brano che nella sua versione
originale, schietta e diretta, funzionava già benissimo!). Nello stesso stagno
nuotano i Children of Bodom che nella loro carriera, in fatto di cover,
ne hanno combinate davvero di cotte e di crude, spingendosi verso lidi decisamente inconsueti
(chi ha detto “Ooops! …I Did It Again” di Britney Spears?). Fra
le tante cover registrate dai finlandesi (Slayer, Ozzy, Scorpions,
Wasp, Metallica ecc.) indichiamo a titolo esemplificativo forse
quella più riuscita, ossia “Aces High” degli Iron Maiden (aridaje!),
anche se queste reinterpretazioni un po’ banalotte (molto simili alle
originali, tutt’al più velocizzate e cantate in growl o screaming)
non ci fanno impazzire. Lo stesso giudizio lo riserviamo per la versione di “The
Number of the Beast” dei Kreator e quella di “The Trooper”
degli Iced Earth: non altro che dei tributi, degli atti di devozione,
senza alcuna pretesa di personalizzazione. Cosa che, in campo death, hanno
fatto i Vader con “Fight Fire with Fire”, che per l’occasione
smussano il growl (ma perché?) finendo per suonare pari pari i Metallica.
Allora meglio i Cannibal Corpse che con “No Remorse” (sempre Metallica)
trovano un equilibrio soddisfacente fra l’originale e il proprio sound,
tanto che la scrittura del brano sembra uscita direttamente dalla penna dei
cinque Cannibali.
Ci sono poi i Dream
Theater, che devono sempre strafare, e siccome non si potevano accontentare
di fare una o due cover, hanno direttamente rifatto “Master of
Puppets” e “The Number of the Beast” (ehm, gli album,
non le canzoni…). Ci sono infine album interi di cover. Ci sono quelli
licenziati da singole band alle prese con i propri fantasmi, e a tal riguardo potremmo citare “Metal Jukebox”
degli Helloween, "Werk 80" I e II degli Atrocity, i due EP "Leaders not Followers" dei Napalm Death, i tre tomi di “Graveyard Classics” dei Six
Feet Under (veri appassionati della “trasfigurazione grottesca”, anche se
il loro giochetto alla lunga stanca: growl ottenebranti su basi semplici
e rock oriented - si veda il rifacimento di “TNT” degli AC/DC).
E ci sono le raccolte vere e proprie con svariati artisti coinvolti nella celebrazione di
un solo gruppo/artista (l’operazione più importante rimane il duplice
“Nativity in Black”, dedicato ai Black Sabbath, anche se io raccomanderei l'ascolto pure di "Beyond the Realm of Death SS", bell'omaggio alla cult-band italiana).
Black Sabbath, Judas Priest,
Iron Maiden, Metallica, Slayer sono chiaramente i più coverizzati, ma questa è solo
la punta dell’iceberg, perché scavando all’interno dei sotto-generi si
scoprono nuove ramificazioni. E così, nel black metal, i Mayhem vengono
tributati sia da Ophthalamia che da Carpathian Forest
(rispettivamente con “Deathcrush” e “Ghoul”), mentre Burzum
viene preferito dagli I Shalt Become (che, non paghi, ripropongono
addirittura due cover degli “indispensabili” Judas Iscariot). E se i Bethlehem
(“probabilmente la miglior band metal di tutti i tempi”) sono ammirati dagli Shining, ad onorare i ben più noti Immortal ci pensano i Sunn O))) con una "Cursed Realms (of the Winterdemons)" rivista in salsa drone-ambient. Sul fronte power sembrano andare per la maggiore
gli Helloween, la cui “I Want Out” viene riproposta da ben
quattro gruppi, ossia da Sonata Arctica, Avalanch, Skylark
e Hammerfall, che già che c’erano hanno dato una spolverata anche ai vecchi
Warlord con “Child of the Damned”. Insomma, ce n’è per tutti i
gusti, ma nella maggior parte dei casi si tratta di onesti rifacimenti che poco
aggiungono agli originali.
Noi vogliamo di più, non ci
accontentiamo della semplice cover: lasciamoci dunque alle spalle tutto
questo ciarpame e procediamo con la nostra rassegna volta a sondare le
gesta di chi invece si è confrontato, vincendo, con universi altri rispetto a
quelli del metal!